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Estratto della Relazione presentata dall’Autore al Congresso “Universo Obesità. Al di là del peso…”, svoltosi a Rocca d’Arce (FR) il giorno 24 giugno 2011.

Nell’ormai lontano 1953 il professor James McConnell, psicologo dell’Università del Michigan iniziò i suoi esperimenti sulle planarie, animali appartenenti alla famiglia dei Platelminti Turbellari.
Questi vermi sono gli animali più semplici che posseggano, però, quello che si può definire un sistema nervoso rudimentale con una struttura anatomica ben definibile ed organizzata in un ganglio di cellule nervose ed hanno una strana caratteristica: tagliate a metà, si riproducono in due nuovi individui, partendo dalla coda o dalla testa indifferentemente. La coda rifà la testa, con il suo cervello essenziale, la testa rigenera la coda. Per di più, le planarie sono vermi cannibali: in caso di necessità si cibano di individui della stessa specie.
Il Prof. McConnell iniziò un lavoro sistematico di condizionamento delle planarie: le sottopose ad uno stimolo luminoso seguito immediatamente da una scarica elettrica che le faceva contrarre.
planariaDopo un centinaio di questi sgradevoli stimoli si instaurò il condizionamento: le planarie si contraevano al solo stimolo luminoso, senza l’invio della scarica elettrica: avevano appreso quello che si definisce un riflesso condizionato.
A distanza di qualche anno, nel 1956, il professore tagliò a metà un gruppo di vermi condizionati e lasciò che si rigenerassero. Le planarie che avevano conservato nella loro metà il cervello ed avevano rigenerato la coda mostrarono di aver conservato anche nelle generazioni successive la memoria dello stimolo condizionato, ma il gruppo di ricercatori rimase sbalordito quando verificò che anche le planarie che si erano rigenerate partendo dalla coda, e avevano perciò rigenerato un nuovo cervello, risultavano condizionate allo stesso modo: era evidente che la memoria dello stimolo non era confinata nel rudimentale sistema nervoso.
Nel 1961 il professor McConnell e due sue assistenti ripresero i loro esperimenti, presero un gruppo di planarie, le condizionarono al solito modo, poi le tagliarono a fettine, diedero da mangiare le fettine ad altre planarie non condizionate e scoprirono che le nuove planarie rispondevano puntuali agli stimoli della lampada. L’esperimento fu ripetuto innumerevoli volte in doppio cieco, tenendo scrupolosamente nascoste ai ricercatori le identità delle planarie cannibali e di quelle vergini di controllo. Niente da fare: risultava evidente che, per lo meno nel caso delle planarie, la memoria era una cosa che si poteva mangiare, digerire e assimilare, era chiaro, ormai, per il professor McConnell, che la memoria era una cosa, insomma una molecola. E che perciò la si poteva trasferire da un corpo all’altro..
Potreste pensare che questa sia una bizzarra eccezione per vermi e non riguardi organismi superiori, i mammiferi. Non è così.
All’università di Los Angeles, Frank Babich, Allan Jacobson, Suzanne Bubash e Ann Jacobson, dopo avere insegnato a dei ratti a riconoscere il clic dell’apertura della mangiatoia, e a farli accorrere anche in assenza di cibo, ne estrassero il cervello, e dal cervello isolarono l’acido ribonucleico. Poi lo iniettarono nel peritoneo di altri topi non educati e i nuovi topi, grazie alla memoria di quelli defunti, dimostrarono di trovarsi condizionati al clic nel medesimo identico modo. (Differential-Approach Tendencies Produced by Injection of RNA from Trained Rats, Allan L. Jacobson, Frank R. Babich, Suzanne Bubash and Ann Jacobson, Science 29 October 1965: Vol. 150 no. 3696 pp. 636-637)
In tempi recentissimi (2009) Arai e coll. hanno portato a termine una nuova ricerca estremamente evocativa: topi di 15 giorni di vita sono stati esposti per due settimane ad un ambiente caratterizzato dalla frequente presenza di nuovi oggetti e da un elevato grado di interazione sociale e di esercizio motorio volontario (enriched environment o EE).
La sperimentazione ha messo in luce che il potenziamento a lungo termine (LTP) delle sinapsi strategiche per la memoria ed apprendimento, che si erano sviluppate nelle madri a seguito dell’esperienza preoce di esposizione ad un ambiente ridondante di stimoli, si rinveniva nella generazione successiva anche se questa non aveva mai direttamente sperimentato quelle condizioni stimolanti (Arai J. A., et al. Transgenerational rescue of a genetic defect in long-term potentiation and memory formation by juvenile enrichment. Journal of Neuroscience 29 (5), 1496-1502, 2009).
Un altro interessante esperimento finalizzato alla dimostrazione della trasmissibilità delle esperienze e delle competenze apprese fu realizzato nel 1982 da Philip E. Morris e John M. Beaton nell’ambito del Neurosciences Program and Department of Psychiatry University of Alabama in Birmingham, USA.
In questo studio sperimentale gli Autori hanno dimostrato che la somministrazione di un estratto di cervello, prelevato da topi addestrati a particolari compiti, in topi del tutto privi di addestramento, determinava una notevole facilitazione dei compiti rispetto al gruppo di controllo. “Lo studio dimostra – scrivono gli Autori – che qualche fattore (specifico o aspecifico) associato con il compito assegnato sia stato trasferito”. (Facilitation of an operant task in the rat following injection of whole brain extract, Philip E. Morris, John M. Beaton, Neurosciences Program and Department of Psychiatry University of Alabama in Birmingham, Birmingham, AL 35294, USA, 1982, Pharmacology Biochemistry and Behavior, Volume 19, Issue 2, August 1983, Pages 241-244).
Fine della prima suggestione.
Procediamo con il ricordarci che il primo atto di alimentazione coincide con l’inizio stesso della nostra vita ontogenetica: Lo spermatozoo, che ha subito la maturazione spermatica durante il transito lungo le vie genitali femminili, incontra l’uovo nella porzione ampollare delle tube. Inizia la reazione acrosomale: la membrana acrosomale e quella plasmatica dello spermatozoo si fondono, dando origine a pori che permettono la secrezione di enzimi litici, che digeriscono il cumulo ooforo e la zona pellucida dell’uovo.
Potremmo dunque dire che la vita comincia con un processo digestivo!
Potremo fare il nostro viaggio psicodinamico nel binomio mente-nutrizione sia seguendo un percorso geografico, dalla bocca all’ano, sia uno cronologico, dai primi giorni di vita alla fine dello sviluppo psico-sessuale. In linee generali lo sviluppo psico-sessuale dell’essere umano procede da uno stadio in cui mancano gli oggetti (ma oggi sappiamo che esistono gli oggetti interni già alla nascita, solo che questi vengono vissuti come estensioni del sé) in un altro in cui sono presenti per essere incorporati. Lo stadio senza oggetti è quello del narcisimo primario, i suoi scopi sessuali sono assolutamente autoerotici.
Il primo comportamento istintivo positivo nei confronti di un oggetto desiderato consiste nel diminuire la distanza tra l’oggetto e il soggetto stesso e si conclude con l’inghiottirlo (più tardi questa pericolosa attività si limiterà a prendere in bocca l’oggetto per farlo proprio, incorporarlo). In numerose analisi ho ottenuto il rivissuto da parte dell’analizzato di questa potentissima spinta cannibalica primaria che ha lo scopo di “mettersi il mondo dentro” per eliminare l’angoscia del non-Io.
Eventi altamente traumatici che interessino questo stadio, se provocano la disintegrazione dell’Io immaturo in formazione pongono le premesse per una schizofrenia in età adulta mentre, quando va bene, e si fa per dire, qualora permettano la strutturazione di un Io che cerca incessantemente una soddisfazione primaria e non tollera mai importanti frustrazioni provenienti dal principio di realtà, determineranno l’insorgenza delle tossicomanie.
Parimenti, il primo comportamento istintivo negativo nei confronti di un oggetto ritenuto minaccioso è quello di aumentare la distanza da esso e di sputarlo (in seguito nell’eliminarlo con la defecazione). Non vi è dubbio che l’oralità sia la base di ogni incorporazione, ma scopi simili vengono ipotizzati, e verificati nel materiale di seduta, per ogni zona erogena: abbiamo introiezioni visive, cutanee, respiratorie e uditive.
Nel dialogo soggetto-oggetto, durante la fase orale si rafforza l’ambivalenza, già presente durante la vita intrauterina, determinata da quella che Nicola Peluffo ha definito “dinamica del trattenere-espellere” ed Il rapporto con il cibo diventa un linguaggio tra figlio e genitori, un campo di confronto, frequentemente di battaglia.
Un analizzato che è potuto tornare all’attività sessuale dopo 14 anni di ininterrotta astinenza grazie ad una breve psicoanalisi intensiva focale, così descrive i suoi problemi alimentari: “Non ho potuto avere mia madre dunque ho mia madre solo attraverso il cibo. Io non ho un amore, non ho una donna, non sono innamorato: sono ancora fermo a questa immagine di mia madre e per averla sempre dentro di me trangugio cibo senza sosta“. C’è da dire che la madre del giovane si allontanò da lui in piena esplosione dell’Edipo per andare a fare la balia in un altro paese.
Dava il suo seno agognato ad un altro: un tradimento orale incancellabile, ed al contempo il fulcro di un nucleo di fissazione quasi irrisolvibile. In verità quell’allontanamento determinò un’angoscia di annientamento talmente potente che quest’uomo non poteva allontanarsi per troppo tempo dal nido materno senza sperimentare un’angoscia di morte per deprivazione alimentare potentissima.
Da questo punto di vista, dobbiamo tenere in mente che ogni volta che si riattiva una “corrente” orale il rapporto con l’oggetto è un rapporto di sopravvivenza e l’allontanamento di quell’oggetto mette la persona in uno stato di angoscia di morte per mancanza di nutrimento. Di madre ce n’è una sola, la fonte del cibo, e la sua scomparsa è come la scomparsa del sole. Non si spiega altrimenti l’angoscia che nutre sovente i comportamenti suicidari di molti adolescenti che stabiliscono rapporti totalmente simbiotici (orali) con l’oggetto e si sentono letteralmente morire e senza speranza quando vengono abbandonati dall’amato.
Il cibo può assumere qualsiasi funzione simbolica. Un’analizzata dopo la perdita drammatica di un figlio ingrassò notevolmente: non riusciva a perdere peso, un peso che, si scoprì, corrispondeva esattamente a quello del figlio scomparso, di cui non aveva potuto elaborare la perdita.
Lo aveva incorporato oralmente e se lo portava fantasmaticamente dentro: nessuna dieta sortiva effetto fino a quando non si fece strada la rappresentazione inconscia della perdita e si aprì, a distanza di quindici anni dall’evento, l’elaborazione del lutto.
Spesso viene utilizzato il meccanismo difensivo dello spostamento definito da Laplanche e Pontalis come un “… trasferimento dell’accento, dell’interesse, dell’intensità di una rappresentazione da questa ad altre rappresentazioni originariamente poco intense, collegate alla prima da una catena associativa”.
disgustoValga come esempio al riguardo il caso di una signora che aveva progressivamente sviluppato un’idiosincrasia totale per la frutta, soprattutto per le pesche con buccia vellutata, con cui non poteva entrare nemmeno in contatto visivo. I medici avevano parlato di allergia fin dalla sua infanzia, ma con le moderne metodiche immunologiche si erano dovuti arrendere all’evidenza che non solo non vi fosse una situazione allergica, ma nemmeno quella che oggi viene definita intolleranza. La svolta del caso (peraltro questo era solo uno dei numerosissimi aspetti) avvenne durante l’analisi di una foto che mostrava la madre dell’analizzata mentre la alimentava con un cucchiaino. L’osservazione del dettaglio iconico fatto con l’ausilio di lenti di ingrandimento progressivo, fece recuperare alla signora tutta l’aggressività derivante dall’interazione con una madre falsamente presente, una specie di sacco vuoto che come un’automa aveva iniziato lo svezzamento con frutta dopo un periodo in cui la bambina era stata allattata a balia, una balia affettuosa, che l’aveva salvata dalla psicosi. Il disgusto per la pelle della pesca era il disgusto aggressivo per la madre, per la sua mano inerte che reggeva un freddo cucchiaino che non veicolava affetto. Ecco una brevissima parte del materiale: “Non mangio la frutta: l’odio ed il vomito che ho per la frutta evidentemente è lo stesso che ho nei confronti di mia madre! [piange in modo squassante]
Devo averla fatta incazzare come una bestia quando non mangiavo la frutta: evidentemente questo era il mio unico modo di vendicarmi, di un disagio fetale, intrauterino.
Sto ancora come stavo in quella pancia. La frutta mi fa schifo, mi fa vomitare. Mi fa schifo! Non la riesco a toccare! La consistenza della pesca mi fa schifo, in particolar modo quando mia madre la morde.
Dovrei dire “Mi fa schifo mia madre” non “mi fa schifo la frutta”. Altrimenti perché una persona dovrebbe essere letteralmente disperata solo perché le fa schifo la frutta?”
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Il cibo è linguaggio cifrato inconscio: si pensi ad esempio a quel fenomeno di attaccamento coatto al cibo di mamma. Sapete che moltissimi bambini non mangiano nulla che non abbia il sapore familiare del cibo della mamma, nemmeno se fosse cucinato da Gualtiero Marchesi. L’attaccamento ai piatti familiari, la stereotipia del menu, è una variante dell’attaccamento incestuoso al phylum familiare, una forma di tutela narcisistica. Non a caso si scioglie, quando le cose vanno bene, nella post-adolescenza, quando anche la gran parte dell’investimento libidico si è spostata su un membro esterno alla famiglia.
Molto spesso, questi tentativi di individuazione-allontanamento sono inconsciamente ostacolati dalle madri: le riserve di cibo date ai figli sono alla stregua della dose gratuita data dallo spacciatore al cliente che tenta la disaffezione. E, credetemi, non è una boutade. .

Written by: Quirino Zangrilli © Copyright

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Parole chiave

alimentazione
incorporazione
spostamento
fobia alimentare

Riassunto

Le origini psicodinamiche dei disturbi dell’alimentazione risalgono ad intensi traumatismi orali o risalenti alla vita intrauterina e ad alterazioni patogene della dinamica inconscia madre-feto.