Sommario

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E’ comune esperienza percettiva che in tutte le specie viventi esistano individui più forti ed individui più deboli: questo in relazione alla capacità di sopravvivenza. Mentre in tutte le specie animali, al di là di sporadici comportamenti di tutela del singolo individuo ad opera del gruppo, il più forte finisce per imporre la sua leadership, nella società umana, i principi di solidarietà e di tutela dei deboli hanno acquisito un’importanza progressivamente crescente.
La mia tesi è che i meccanismi di tutela dei più deboli, intesi come tali da un punto di vista psicobiologico, alla base della convivenza umana e dell’edificazione della società civile, sotto l’influsso della cultura cattolica nella sua interpretazione attuale, abbiano travalicato di gran lunga gli intendimenti originari, per trasformarsi in una tutela di una variabile paranoide del corpo sociale, saldamente ancorata al principio del piacere.
In questo breve saggio indicherò con “forte” l’individuo che abbia acquisito un miglior adattamento al principio di realtà, inteso in termini freudiani come la somma di operazioni mentali atte a determinare l’abbandono del tentativo di soddisfacimento per via allucinatoria, e a rappresentare lo stato reale del mondo esterno nella prospettiva di un tentativo di modificazione ai fini della soddisfazione dei bisogni vitali: “…ciò che è rappresentato, non è più ciò che è gradevole, ma ciò che è reale, anche se dovesse essere sgradevole” 1
Il principio di realtà, principio regolatore fondamentale del funzionamento psichico, compare in un secondo momento dell’evoluzione, sia della specie che dell’individuo, come modificazione del principio di piacere che prima era l’unico sovrano.
Mentre sotto l’influsso del principio di piacere l’essere umano tiene in considerazione unicamente le attività che possono recargli una soddisfazione immediata dei desideri ed un abbassamento delle tensioni, sotto il dominio del principio di realtà l’individuo acquisisce i fondamenti della civiltà: la soddisfazione dei bisogni-desideri passa per vie indirette e rinvia il suo risultato in funzione delle condizioni imposte dal mondo esterno: è l’eterna storia della cicala e della formica eternata da Jean de La Fontaine.
Ma mentre, anche nel mondo delle fiabe, si presume che la cicala, priva di cibo, muoia al sopravvenire dell’inverno, a meno che la formica, sacrificando parte del suo raccolto, costato duri sacrifici, non la sostenga in un anelito di solidarietà civile, nelle fantasie pedagogiche derivate da Rousseau, il prodigo è accolto con gioia e compiacimento.
Comunque già l’evangelista Luca ci da una versione chiara della situazione:


Luca 15:11-32 Il figlio prodigo.

11 Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. 12 Il più giovane di loro disse al padre: “Padre, dammi la parte dei beni che mi spetta”. Ed egli divise fra loro i beni. 13 Di lì a poco, il figlio più giovane, messa insieme ogni cosa, partì per un paese lontano, e vi sperperò i suoi beni, vivendo dissolutamente. 14 Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una gran carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. 15 Allora si mise con uno degli abitanti di quel paese, il quale lo mandò nei suoi campi a pascolare i maiali. 16 Ed egli avrebbe voluto sfamarsi con i baccelli che i maiali mangiavano, ma nessuno gliene dava. 17 Allora, rientrato in sé, disse: “Quanti servi di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! 18 Io mi alzerò e andrò da mio padre, e gli dirò: padre, ho peccato contro il cielo e contro di te: 19 non sono più degno di essere chiamato tuo figlio; trattami come uno dei tuoi servi”. 20 Egli dunque si alzò e tornò da suo padre; ma mentre egli era ancora lontano, suo padre lo vide e ne ebbe compassione: corse, gli si gettò al collo, lo baciò e ribaciò. 21 E il figlio gli disse: “Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. 22 Ma il padre disse ai suoi servi: “Presto, portate qui la veste più bella, e rivestitelo, mettetegli un anello al dito e dei calzari ai piedi; 23 portate fuori il vitello ingrassato, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, 24 perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita; era perduto, ed è stato ritrovato”. E si misero a fare gran festa. 25 Or il figlio maggiore si trovava nei campi, e mentre tornava, come fu vicino a casa, udì la musica e le danze. 26 Chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa succedesse. 27 Quello gli disse: ” è tornato tuo fratello e tuo padre ha ammazzato il vitello ingrassato, perché lo ha riavuto sano e salvo”. 28 Egli si adirò e non volle entrare; allora suo padre uscì e lo pregava di entrare. 29 Ma egli rispose al padre: “Ecco, da tanti anni ti servo e non ho mai trasgredito un tuo comando; a me però non hai mai dato neppure un capretto per far festa con i miei amici; 30 ma quando è venuto questo tuo figlio che ha sperperato i tuoi beni con le prostitute, tu hai ammazzato per lui il vitello ingrassato”.


La vicenda è chiara; peccato che nulla l’evangelista Luca ci dica della successiva evoluzione degli avvenimenti.
Ma tutti coloro che si occupano di psicoanalisi come professionisti ben conoscono il seguito della vicenda: l’inevitabile affermazione della coazione a ripetere che riporterà il soggetto a rimettersi un una situazione distruttiva, dolorosa e umiliante.
La storia del figliol prodigo è simile a quella di tanti soggetti fissati al principio di piacere, spesso con sindromi borderline che tentano di risolversi nella tossicodipendenza.
Tali soggetti, dotati di strutture di personalità perverse e narcisistiche, diventano, loro malgrado, arbitri del destino di interi gruppi familiari che vengono sottomessi alla strategia auto ed eterodistruttiva del malato mentale. Fortune economiche ed energie vitali vengono consumate in un inutile sacrificio, messo al servizio dell’espiazione dei sensi di colpa inconsci dell’intero insieme familiare e sociale.
E nulla ancora Luca ci dice dell’effetto che quella manifestazione di amore disinteressato sortirà sul figliol prodigo; per non parlare poi del figlio assennato, che ha passato la vita sui camp
i: sfido i lettori a stabilire se ne ricordassero almeno l’esistenza!
Le persone che si siano conformate al principio di realtà nella civiltà occidentale, ancora così permeata di animismo, hanno poco peso sociale: servono a trainare una società fondata sulla tutela degli individui psicobiologicamente più deboli e, quando osano manifestare le loro perplessità, sono considerati elementi di disturbo, come avviene nella parabola di Luca.
La nostra esistenza è un gioco giocato tra un debole che spinge alla distruzione ed un potere costituito che si serve di masse di sofferenti per mantenere lo status quo e tentare di ripulirsi periodicamente la coscienza.
Per poter compiere questa operazione, meccanismi di difesa deliranti (ideologie religiose e politiche) si sono saldate in un unico sistema di falsificazione della realtà che S. Fanti definiva, coniando un fortunato neologismo, “relitica” (religione+politica).
E’ quanto, per esempio, è accaduto nel campo delle malattie mentali.
Sotto la spinta di una falsa interpretazione della realtà alcuni sono arrivati a teorizzare che la malattia mentale non esista in quanto tale, ma sia solo un prodotto del conflitto tra individuo e società: cambiando (democratizzando ed umanizzando) la società il disturbo mentale sarebbe stato eliminato.
E’ ovvio che, coerentemente con queste premesse, il malato di mente diviene, in quanto tale, una specie di perseguitato politico, e negando che il conflitto possa essere insito nelle stesse basi pulsionali (sessuo-aggressive) dell’essere umano, si è finiti per rappresentarsi l’istituto manicomiale come lager.
E’ evidente che le strutture manicomiali in epoca pre Basagliana costituissero delle realtà indifendibili, ma pare altrettanto indifendibile un ordinamento che ha di fatto (in base alle sue errate premesse teoriche) eliminato la malattia mentale come realtà sociale abbandonando i malati e le loro famiglie al loro destino.
La tolleranza, sostenuta da una complicità inconscia, del più debole (lo ricordo ancora perché è difficile separarsi dal pregiudizio, dato il grado di condizionamento cui siamo stati sottoposti: per “debole” intendo colui che è ancora sotto l’influsso del principio di piacere e non ha potuto accedere al dominio del principio di realtà) inizia fin dalla più tenera età.
E’ retta da una catena di sensi di colpa inconsci che risalgono a traumi filogenetici di abbandono.
Un genitore abbandonico, per colmare il proprio vuoto, nell’impossibilità di elaborare un conflitto che viene diniegato, struttura un rapporto simbiotico con un figlio, che incarna l’Immagine della perdita. 2
Si struttura un legame inscindibile (se non attraverso un duro lavoro psicoanalitico da parte di uno degli elementi, a cui, siatene matematicamente certi, l’altro elemento si opporrà con tutte le sue forze), a volte mascherato da un falso rivestimento di indipendenza formale.

Cosa fa il padre ”tenero di cuore “ accogliendo di nuovo in casa il figliol prodigo? Rafforza la sua onnipotenza , rimettendolo nella condizione del lattante che vede arrivare il seno ai primi vagiti.
Un tempo si era ben certi dell’importanza della frustrazione nella costruzione egoica; ora, accogliendo contenuti pseudopsicologici di tipo ideologico, si è arrivati al punto che un padre, per poter dare una sculacciata al figlio deve fare domanda in carta da bollo a congreghe denominate “comitato etico per la tutela…”
Accade allora quanto sto per dirvi.
Il bambino normale è animato da spinte sessuo-aggressive che gli procurano profondi sensi di colpa (di qui vengono le frequenti domande del tipo: ”Papà, stai bene?”, “Mamma, mi vuoi ancora bene?” , etc.). Se i bambini avessero lo sviluppo fisico dell’adulto e potessero dunque realizzare le loro spinte, credo che il genere umano sarebbe estinto da un pezzo: ben lo sanno i cambogiani che hanno vissuto sotto il regime dei “bambini di Pol Pot”.
I sensi di colpa spingono alla costruzione inconscia di situazioni che producano modalità di espiazione: i bambini provocano i genitori per poter essere puniti.
Non c’è comportamento più sadico di quello di un genitore che non punisca un bambino (e la punizione a volte deve essere necessariamente materiale): lo spingono ad un’estenuante escalation di provocazione nel tentativo, purtroppo vano, di raggiungere la punizione che azzererà i sensi di colpa.
Assistiamo dunque a quei classici comportamenti nevrotici di genitori isterici che urlano minacce terribili, senza avere alcuna credibilità .
I bambini hanno bisogno di limiti ed indirizzi: il comportamento falsamente progressista della nostra epoca, maschera la rivalità inconscia dei genitori e denuncia la loro falsa presenza.

La colpa

Se volessimo sviluppare ulteriormente le nostre riflessioni dovremmo, però, concludere che tale perversa catena di sensi di colpa inconsci e tentativi di neutralizzazione degli stessi, affonda nella stessa filogenesi dell’uomo. Se ammettiamo con Freud l’esistenza del processo primario, per definizione al di fuori dello spazio-tempo, potremmo dire che i grandi traumi dell’umanità continuano a sussistere nell’inconscio fintantoché le loro tracce mnesiche non trovino una raffigurabilità nel processo secondario e li, vincolandosi, si neutralizzino.
Consideriamo, ad esempio, le situazioni di lutto. Le situazioni di lutto sono situazioni traumatiche. Abbiamo situazioni di lutto fisiologico in cui l’elaborazione del lutto giunge a compimento entro qualche mese: l’investimento libidico viene lentamente ritirato dall’immagine del morto e viene vincolato su un altro oggetto o un’altra situazione. Esistono invece situazioni di lutto patologico in cui l’evento si fissa come ripetizione e rinforzo di trauma. Freud si è occupato sistematicamente di questo discorso in Totem e Tabù in cui ipotizza l’uccisione del padre primigenio da parte dei figli coalizzati nella loro unione omosessuale. La rimemorizzazione dell’atto criminoso (ritorno del rimosso) strutturerebbe il trauma filogenetico da cui originerebbe il modulo antropomorfico del conflitto: l’Edipo-castrazione, che altro non è se non la spinta ineliminabile, retta dalla coazione a ripetere, di ricostruire la situazione traumatica, nel tentativo di accedere al momento pre-traumatico. L’esistenza dell’Edipo è retta da uno stato perenne di lutto traumatico nell’umanità che non è mai stato eliminato.
Tutte le religioni monoteistiche si fondano sulla rappresentazione della colpa del parricidio. Il Cristianesimo vi ha aggiunto la ripetizione rovesciata (uccisione del figlio da parte del padre) nel sacrificio di Cristo. Se l’Antico Testamento è la religione della Legge del Padre, il Nuovo Testamento è la religione del tentativo di espiazione-riparazione del Figlio.
La crocifissione di Cristo è un rinforzo traumatico dal quale l’umanità non si riprende.
La proliferazione di ordini religiosi, riconosciuti dalla stessa chiesa cattolica (Adoratrici del sangue di Gesù, Suore del Calvario, etc.) testimonia questa spinta all’imitatio Christi: una forma di coazione a ripetere. Il tentativo inconscio è quello di ricostituire la situazione traumatica, la crocifissione di Cristo, in modo da portarsi al momento antecedente, al momento che precedeva il trauma.
Il trauma è quello del padre che uccide il figlio: l’applicazione della legge del taglione. Cristo chiede al Padre di essere risparmiato (“Padre, se puoi, allontana da me questo calice amaro”) ma è lo stesso padre che ha voluto la missione di redenzione di Cristo, che di fatti, prima di morire afferma: ”Padre, sia fatta la tua volontà”.
L’orda primigenia dei figli ha consumato l’assassinio del padre ed il figlio si fa mettere sulla croce perché il padre lo vuole: sconta il misfatto. Si costituisce un’Edipo circolare, Edipo I ed Edipo II 3 , con tentativo di ripetizione della situazione traumatica al fine di portarsi allo stato antecedente. Purtroppo sembra che quel trauma primario non sia stato ancora sufficientemente abreagito, anche perché i figli continuano a uccidere i padri e i padri continuano a uccidere i figli. Lo vediamo in tutta la storia dell’umanità, nelle guerre, e nei fenomeni sociali attuali (si pensi al caso di Novi Ligure)

Il perdono

Mai come in questa epoca storica in Occidente viene agitato il tema del perdono. I giornalisti televisivi sembrano aver ricevuto una circolare che li esorta a chiedere sistematicamente ai parenti delle vittime di turno: “Lei perdona gli assassini del suo caro?”.
Sorvolando sul cinismo di tali atti non possiamo tacere che tali manifestazioni siano l’estensione del precetto del Nuovo Testamento “Porgi l’altra guancia”.
Le nostre serate sono spesso allietate da pacate interviste con feroci assassini che invece di espiare in carcere le loro colpe, lontani dal mondo civile, diventano delle stars mediatiche: a quando una gara a quiz tra assassini e stupratori? C’è persino un’Associazione ispirata al precetto: “Dio salvi Caino”.
Perché?
Il perdono è una forma di diniego, e, contemporaneamente , un’ammissione inconscia dell’esistenza nel profondo di ognuno di noi delle stesse spinte omicide che osserviamo in coloro che passano all’atto: la differenza è ovviamente costituita dall’ integrità egoica, che trova vie di deflusso consentite (sublimazione) all’aggressività. Perdoniamo per perdonarci: lo stesso Cristo si rivolge al Padre con la famosa frase: ”Padre, perdona loro perché non sanno quel che fanno!”, eppure i Romani erano soltanto gli inconsapevoli artefici della imperscrutabile volontà di Dio, come Cristo stesso ammette prima di spirare.
Il perdono è l’attenuante del parricidio. Non possiamo ammettere l’evidenza: che nell’essere umano esista una spinta istintuale, retta da una legislazione filogenetica, denominata Edipo, al parricidio- matricidio. E’ l’eterno dramma della mancata presa di coscienza: Edipo, dopo aver consumato il parricidio e l’incesto , si acceca e vaga per il mondo, sino alla morte, cieco ma consapevole, assieme alla figlia Antigone. In definitiva, non si rivolge ai comitati di tutela di Caino, e sconta la sua pena.

Written by: Quirino Zangrilli © Copyright

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Note:

1 S. Freud, Precisazioni sui due principi dell’accadere psichico, 1911, OPERE, Vol. 6 torna su!
2 N. Peluffo: Immagine e fotografia, Borla , Roma, 1984.  torna su!
3 Edipo: legislazione filo-ontogenetica che stabilisce psicobiologicamente l’esigenza aggressiva-sessuale di possesso-distruzione (S. Fanti, Def. n° 379 del Dizionario di Psicoanalisi e micropsicoanalisi, Borla, Roma, 1984).
Edipo positivo: il bambino dai tre ai cinque anni vuole possedere sessualmente il genitore del sesso opposto e uccidere il genitore dello stesso sesso (S. Fanti, Def. n° 374 del Dizionario di Psicoanalisi e micropsicoanalisi, Borla, Roma, 1984).
Edipo II: nella riattivazione di Edipo utero-infantile, la madre e/o il padre desidera possedere fino all’incesto e distruggere fino alla morte il bambino e/o la bambina (S. Fanti , Def. n° 380 del Dizionario di Psicoanalisi e micropsicoanalisi, Borla, Roma, 1984).  torna su!