Print Friendly, PDF & Email

Go to the English version! Voyez la version française!

Per addentrarci nel cuore dell’argomento, in considerazione della brevità del tempo a disposizione, dovremmo munirci di alcuni strumenti di definizione che fungano da punti di riferimento.
Il concetto di Io è il punto centrale. Come è noto per Freud l’Io è innanzitutto una forma di organizzazione della materia psicobiologica tesa ad inserire tra la richiesta istintiva propria dell’es e le azioni concrete di appagamento di desiderio, l’attività di pensiero che ha lo scopo di progettare soluzioni di abbassamento dei livelli tensionali, comparando i dati di esperienze memorizzate con percezioni, più o meno congrue, del dato reale presente.1
Per avere un’immagine semplificata tratta dalla vita comune della cosa potremmo dire che l’ABS, il famoso dispositivo di regolazione dell’impianto frenante è una parte dell’Io meccanico di un’automobile. Il complesso software che organizza in microsecondi l’integrazione intelligente di percezione di movimento attraverso i sensori, anticipazione delle traiettorie, analisi delle variabili ambientali, può essere a ragione definito, da questo punto di vista, un pezzetto d’Io dell’automobile. Un’Io statico ma individuale, tra l’altro, giacché un dispositivo ABS progettato per una automobile avrebbe dei comportamenti aberranti per un’altra.
Abbandonando la metafora meccanica, diremo che alcune porzioni dell’Io possono divenire coscienti, mentre molti contenuti possono restare inconsci. Che l’Io comprenda vaste regioni inconsce è attestato dall’osservazione clinica, in particolare dalle resistenze inconsce al trattamento analitico.
Propongo, nel quadro dell’argomento odierno, di definire l’Io come un insieme di memorie di esperienze senso-motorie che hanno determinato, nella storia individuale, un abbassamento della tensione.
Secondo la concezione di N. Peluffo, l’Io all’inizio è nel movimento: questo fin dalla protostoria uterina. Nel corso delle sue indimenticabili lezioni all’Università di Torino, Peluffo faceva spesso riferimento alla definizione freudiana di essere umano come vescicola deformabile ricordando che tutto ciò che è in tensione deve andare incontro ad una deformazione (movimento) pena la rottura dell’entità psicobiologica. Nel momento in cui certi movimenti diventano più adatti di altri allo scopo di abbassare la tensione verranno ripetuti, in un primo tempo in base ad una spinta istintiva e poi, quando la maturazione delle operazioni mentali lo renderà possibile , in base ad una decisione volontaria. Per Peluffo lo schema dell’azione specifica, attivato dalla dinamica automatica della tensione-distensione (il tentativo di soddisfazione del bisogno-desiderio), è il nucleo primario dell’Io.
Quando il tessuto di memorie e di schemi senso-motori sarà sufficientemente vasto prenderà forma l’attività pseudopodica dell’Io che, sotto la spinta energetico-pulsionale dell’es, attraverso il gioco delle proiezioni-identificazioni, amplierà il software egoico.
Intendo dire che non vedo antinomie tra la prima concezione freudiana di un Io derivato dalle percezioni corporee (una concezione che può essere estesa alle protomemorie di movimento) e la successiva concezione di un Io che si forma attraverso una serie successiva di identificazioni con gli oggetti-chiave dell’infanzia. Mi sembra semplicemente una successione di processi di organizzazione caratterizzati da un incremento delle possibilità di mentalizzazione.
Per parlare dell’argomento odierno, mi riferirò, in modo particolare a questa seconda fase di strutturazione egoica che coinvolge in modo privilegiato il binomio madre-figlio e le dinamiche di proiezione-identificazione.
Ritengo cioè che molti casi definibili da un punto di vista psichiatrico come casi-limite o borderline derivino da un guasto dei meccanismi di individuazione di sé e da processi difensivi catastrofici, primo tra tutti quelli di diniego e di scissione dell’Io.
L’Io-fittizio e l’Io-delirio sono appunto i risultati di un processo di scissione nell’Io attivato da un vissuto altamente traumatico. L’Io in formazione si divide in un simulacro di Io socialmente adattato, ma non autentico, ed un Io destrutturato, costituito da fantasie traumatiche (senza contatti con la realtà, dunque delirante).
Sotto l’influsso di una potentissima angoscia di annientamento l’Io in formazione per così dire evapora ed il soggetto inizia ad imitare in modo stereotipato, coatto e dereale, il comportamento sociale di una delle figure-chiave della sua infanzia. Questa recita, socialmente accettata, che possiamo definire Io-fittizio, copre, come un mantello, l’Io-delirio costituito dai fantasmi interpretativi della situazione traumatica. Al riguardo risultano interessanti e meritevoli di un approfondimento le speculazioni di Jung sul carattere individuale ed il carattere collettivo2 L’Autore, descrivendo casi di dissociazione della personalità (che oggi rientrerebbero nella categoria delle patologie borderline) arriva ad ipotizzare che queste persone non abbiano un carattere individuale, bensì collettivo, ed assumano una personalità in consonanza con le circostanze e le aspettative generali.
Si potrebbe ipotizzare che esista una sorta di Io genealogico sovraindividuale, probabilmente etnico, che nel corso dell’interazione iconica dei due donatori genetici prima, e delle vicende intrauterine poi, acquisisca una sua specificità ed attualizzazione.
I soggetti borderline sarebbero soggetti con un difetto di attualizzazione o individualizzazione dello psichismo che verrebbe costruito soprattutto per imitazione di comportamenti socialmente accettati. Nel materiale di tutti i soggetti borderline da me trattati viene il momento in cui, effettivamente, si verifica la presa di coscienza che il soggetto recitava quella o tal’altra figura chiave dell’infanzia.
Quando la recita sociale diviene impossibile per la pressione dell’ambiente, ecco che la persona non può che giocare l’unica seconda carta di cui è fatto: il delirio. E sovente questo si innesca dopo un sogno non ab-onirizzato. Si destruttura la maschera sociale, la mente del soggetto si pone al servizio del materiale onirico, che viene agito, fino all’esaurimento della spinta energetica, nella vita di veglia.
Emblematico al riguardo il caso di un paziente borderline con struttura paranoica della personalità. Il signore, che chiameremo Hansel, è in verità, un giovane omone fisicamente gigantesco, che negli ultimi dieci anni ha fatto la spola tra i vari presidi psichiatrici della sua regione di residenza, trattato con dosi massicce di psicofarmaci e con un nutrito ciclo di elettroshock-terapia. E’ un caso che in astratto e a prima vista non avrei preso in carico, poiché, nelle psicoterapie micropsicoanalitiche di psicotici o borderline, imperniate su sedute lunghe di tre ore, pressoché quotidiane, ed una buona dose di rapporti sociali ove si pratica del maternage, limitatamente ai soggetti non paranoidi, ho sempre privilegiato soggetti non cronicizzati. Quello che mi ha fatto propendere per la presa in carico del Sig. Hansel sono due fattori: il permanere di una genuina spinta epistemofilica e l’evidente buona educazione del soggetto. Avete compreso bene: buona educazione. Saremmo portati a credere che gli psicotici siano tutti uguali: effettivamente al Sig. Hansel, non mancavano i contenuti deliranti a carattere persecutorio, le allucinazioni, soprattutto auditive, etc., eppure, nell’espressione dei suoi contenuti, il gigante non era mai minaccioso. Quella che socialmente potremmo definire “buona educazione” altri non era che, in parte un frammento egoico ancora integro, conditio sine qua non per impegnarsi in un caso simile, dall’altra una caratteristica saliente della fusione di maschere che il giovane impersonava: una madre santa ed un fratello morto prematuramente e già santificato.
Hansel, ho scelto il termine per richiamarmi al terrore assoluto e primordiale che il soggetto incessantemente provava nelle situazioni di confronto sociale e, particolarmente in quelle a sfondo sessuale, era come un bambino di pochi mesi. Completamente dipendente da una madre psichicamente assente, incarcerato in un vincolo di persecuzione-protezione che lo distruggeva.
Aveva avuto esperienze sessuali solo con prostitute, limitatamente alla masturbazione. Hansel aveva un vissuto di castrazione talmente potente da asserire che aveva soltanto un pezzetto di pene, residuo di un supposto, disastroso intervento di frenulectomia.
Chiaramente, io non potevo avere elementi per giudicare la veridicità delle sue asserzioni, ma nutrivo un certo sospetto, da quando, dal materiale di seduta avevo appreso che un suo fratello maggiore di circa dieci anni, era morto in giovane età, questa volta si per un disastroso intervento di appendicectomia esitato in peritonite fulminante. Questo giovane fratello era stato legato alla madre da un legame incestuoso talmente marcato che comportava la condivisione del letto coniugale, non sappiamo se con consumazione o meno dell’atto, giustificata dalle assenze notturne del padre (che spesso lavorava). Per farla breve era uno di quei drammatici casi che solitamente esitano nella tossicodipendenza: un giovane, fuso in un vincolo incestuoso con la madre, seda con l’eroina, uno psicofarmaco tranquillante estremamente efficace, le sue inaccettabili spinte sessuo-aggressive. I genitori, invece di allontanarsi salutarmente, spinti dai loro inconsci sensi di colpa, stringono inconsapevolmente nel cappio mortifero della simbiosi incestuosa la vittima a cui non rimane che l’overdose o il salto di carreggiata. Il fatto è che il giovane scomparso era “troppo bravo” per piegarsi alla tossicodipendenza: non gli rimaneva che l’autodistruzione somatica o l’incidente, cosa che effettivamente avvenne. Si ricoverò, all’improvviso, senza avvertire i genitori, in un reparto di chirurgia da terzo mondo, da cui uscì cadavere pochi giorni dopo.
Da quel giorno la madre perse definitivamente il senno: era una presenza vuota, pietrificata nel ricordo del figlio santo (di cui mi ritrovai addirittura una ciocca di capelli tra le mani, mentre prendevamo visione delle fotografie di famiglia: un vero e proprio feticcio rivelatore) che ora poteva dedicarsi alla sua nuova croce: la malattia di Hansel.
Chiunque abbia una certa dimestichezza con la mente umana sa che i santi non esistono: in effetti, alla maschera di bravo ragazzo del fratello maggiore, una parte recitata con devozione assoluta nel rapporto con la madre e nell’ambito sociale, corrispondeva un comportamento luciferino con il fratello più piccolo, il nostro Hansel, che veniva sistematicamente vessato, intimidito, percosso, torturato. Hansel scoprì questa situazione osservando il suo volto terrorizzato in tutte, sottolineo tutte, le foto reperibili della sua infanzia ed il volto diabolico del fratello maggiore ogni qualvolta i loro sguardi si incrociavano. Emblematica una foto del suo quarto compleanno in cui è visibile il fratello che, alle spalle dei genitori, brandisce il coltello che era stato usato per il taglio della torta, guardando in modo più che evidente lo spaurito fratellino.
Per farla breve l’infanzia di Hansel era stata un’inferno: una vita spesa a sfuggire dalle grinfie del fratello più grande e dei suoi amici che lo avevano eletto a vittima sacrificale.
Si può ben capire come in tale situazione possa essere stata vissuto l’intervento di frenulectomia, esperito in un reparto di chirurgia per adulti.
E’ probabilmente in quelle notti impregnate di dolore, solitudine e terrore che l’Io di Hansel si è scisso definitivamente sostituendo al dato reale il nucleo di un delirio di persecuzione che poi si è andato ulteriormente strutturando nel corso degli anni.
Hansel risiedeva in una città diversa dalla mia ed aveva accettato, dopo aver viaggiato per mesi per seguire le sedute, di stabilirsi, per un periodo di un mese, nel mio luogo di residenza. Questa situazione produce di frequente i seguenti effetti: svincola il malato dal contenitore familiare e lo enuclea dal ruolo sociale che lo perseguita e protegge al tempo stesso. Il soggetto dunque perde la possibilità di continuare ad indossare la sua Maschera e sposta nella situazione transferale la persecuzione paranoica, cosa che se da una parte acuisce la tensione all’interno della situazione analitica, dall’altra può permettere di osservare in statu nascendi la costruzione del delirio di riferimento (il carattere inedito del rapporto con l’analista rende meno manipolabile la relazione).
D’altra parte la perdita dell’Io-fittizio denuda il delirio che può emergere in modo inequivocabile.
Dopo un periodo di alcuni giorni l’analizzato aveva iniziato a costruire tutto un complicato delirio di riferimento in cui un’Organizzazione Segreta, con a capo, guarda caso il sottoscritto, manipolava la vita delle persone. Una notte fece un sogno in cui si recava in un cimitero. L’indomani, appena sveglio, ed ancora inconsapevole del sogno, il cui ricordo affiorò alla coscienza solo nel tardo pomeriggio della giornata, prese la macchina, imboccò l’autostrada e percorse circa seicento chilometri per visitare, al cimitero, il padre di una sua ex che non vedeva né sentiva da circa dieci anni.
Dopo un paio di giorni, tornato in seduta, gli bastò raccontare in dettaglio l’intera vicenda e vederne gli evidenti collegamenti, per prendere coscienza, per la prima volta nella vita, di come nella sua mente si attivasse la difesa delirante. In seduta dirà: “Il motivo dei deliri è questo: se non riesco ad analizzare i sogni e a smantellarli per bene, questi si impadroniscono della mia mente e della mia vita”.
Il legame evidente tra sogno non ab-onirizzato e delirio, magistralmente descritto da Silvio Fanti era del resto già evidente nelle ricerche di Freud.
Non solo nel celebre lavoro sulla Gradiva di Jensen 3 Freud fa notare che il delirio del giovane Norbert Hanold si sviluppa ulteriormente mediante un sogno, ma già nell’”Interpretazione dei Sogni” il Maestro puntualizza: “…al rapido volgersi delle rappresentazioni nel sogno corrisponde la fuga delle idee nella psicosi. In entrambi i casi manca qualsiasi misura del tempo. La scissione onirica della personalità, che distribuisce per esempio il proprio sapere su due persone diverse, delle quali nel sogno una, quella estranea, corregge l’Io, equivale veramente alla nota scissione della paranoia allucinatoria; anche chi sogna ode i propri pensieri esposti da voci estranee. Esiste un’analogia perfino per le idee deliranti fisse: i sogni patologici che si ripetono in modo stereotipato (rêve obsédant). Non è raro che una volta guariti di un delirio, gli ammalati dicano che tutto il periodo della malattia appare loro come un sogno, spesso non sgradevole, e che anzi ci raccontino come qualche volta, mentre ancora durava la malattia, abbiano avuto l’impressione di essere solamente prigionieri di un sogno, come spesso accade nel sogno vero”. 4

Se il tempo me lo consente vorrei terminare questo mio contributo con alcune note tecniche.
In “Micropsicoanalisi dei processi di trasformazione” del 1976 Peluffo aveva scandagliato in modo esaustivo la dinamica dei fantasmi stimolo-risposta che intercorre nell’unità materno-fetale nel corso della gravidanza. Molto schematicamente potremmo ricordare che l’embrione umano viene trattenuto in utero, pur recando materiale genetico non-self, dunque a dispetto della regola di istocompatibilità, grazie all’investimento narcisistico materno sulla “malattia-figlio-pene della madre-se stesso”. E’ qui che si forma la vera fusione madre-figlio. Nell’evoluzione normale si compie un faticoso percorso defusionale che dovrebbe concludersi con l’acquisizione di una individualità psichica di entrambi i poli. Ora i soggetti borderline sono fissati alla fase fusionale intrauterina del pene della madre-se stesso; non vi è stata una rinuncia (elaborazione della perdita) della madre a questo investimento ed entrambi gli elementi dell’insieme fusionale lavorano contro il processo di individuazione-separazione.
Vorrei sottolineare che non c’è mai solo una madre che “trattiene”, ma anche sempre un feto che si fa trattenere: è un incontro di rivissuti sul trattenere.
Per questo, secondo la mia esperienza, reputo importante, ai fini del successo terapeutico, che il micropsicoanalista conduca una tranche di almeno venti sedute lunghe con la madre del soggetto psicotico. In questo modo l’analista diverrà il nuovo terreno (schermo proiettivo) della ripetizione della vicenda intrauterina potendo offrire possibilità inedite di elaborazione del conflitto che aggirino la coazione a ripetere.
I contenuti stessi del delirio nel trattamento di soggetti psicotici vanno sempre tenuti nella massima considerazione. In una fase avanzata del lavoro, in una fase di transfert positivo, possono essere analizzati alla stregua di sogni. Si vedrà allora che la loro apparente assurdità corrisponda ad elementi ben precisi del materiale vitale. Un accorgimento tecnico che trovo utile è quello di dire all’analizzato di localizzare nel materiale delle ventiquattro ore i “resti diurni” del delirio. Lo si inviterà, cioè, a parlare della situazione reale in cui, a suo sentire, le sue sensazioni deliranti abbiano trovato una conferma. Spesso ho verificato che tali frammenti entrino nel sogno come resti diurni per essere ulteriormente elaborati.
Per tornare al Sig. Hansel posso dirvi che non prende più psicofarmaci, non è stato più ricoverato in strutture psichiatriche, ha un lavoro, una fidanzata: direi che Hansel è uscito dalla gabbia della Strega ed ora passeggia tranquillo per il mondo

Written by: Quirino Zangrilli © Copyright

Go to the English version! Voyez la version française!

Note:

1 S. Freud, Compendio di psicoanalisi, 1938, Opere, Vol. 11. 
2 C.G. Jung, Dizionario di Psicologia Analitica, Boringhieri, Torino. 
3 S. Freud, Il delirio e i sogni nella “Gradiva” di Wilhelm Jensen, Opere, Vol. 5, 1914. 
4 S. Freud, L’interpretazione dei sogni, Opere, Vol. 3, 1899. 

Il presente lavoro costituiva Relazione ufficiale nel Convegno interdisciplinare “Le incognite dello sviluppo” tenutosi ad Aosta il 12 – 13 ottobre 2001.
Già pubblicato in “Le icognite dello sviluppo”, Bollettino dell’ Istituto Italiano di Micropsicoanalisi n° 31/32, Tirrenia Stampatori, Torino, 2003.