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La solitudine è uno dei sentimenti più dolorosi che l’essere umano abbia modo di sperimentare nella sua vita. Lo si potrebbe giudicare più doloroso dell’angoscia di morte, giacché la presenza dell’angoscia ha pur sempre un connotato reattivo e mobilita la pulsione di vita nelle sue molteplici sfaccettature, ancorché residua.

La solitudine invece può accompagnarsi spesso ad un sentimento di inerzia totale, di prematura discesa in un sacello, ove si attendono passivamente lo scorrere degli eventi e l’oblio.
Come bene ci mostra Ambrogio Zaia in un bellissimo lavoro apparso su questa rivista (La Solitudine, Ambrogio Zaia, Scienza e Psicoanalisi, 2004) però, la solitudine ha due valenze, quella negativa, legata all’attivazione della pulsione di morte e quella positiva, defusionale, che se degnamente elaborata, può condurre ad una crescita personale ed ad una maturazione dell’individuo.
Nasciamo soli (separati), anzi, ogni esperienza individuale nasce da una separazione dal Tutto. Ma quali sono le radici profonde della solitudine?

L’ibernazione psichica intrauterina

La letteratura sulla ripartizione dell’apparato psichico fatta da Freud nella formulazione della seconda topica (1920) tra Es, Io e SuperIo è imponente ma poco materiale si trova (ad eccezione dell’Es, di cui si da per scontata l’origine ereditaria) sulla genesi, la fase di costruzione delle predette istanze. Come si formano l’Io ed il superIo? E, soprattutto, quando?
Molti ritengono ancora che l’Io non esista alla nascita ma che derivi dal contatto post-natale con la realtà esterna e che poi si accresca con i processi di identificazione.

Non la pensava certo così il mio Maestro, Nicola Peluffo, recentemente scomparso.
Soleva spesso ricordare ai suoi allievi che sia Tausk che Federn ritenevano che l’Io esistesse già alla nascita. Per Tausk in effetti l’io esiste dall’inizio della vita, in altri termini, per lo meno dalla fecondazione. In questo periodo, che Tausk definisce come privo di oggetti, le stimolazioni sensoriali non provengono dalle fonti esterne e questa è una fase dell’esistenza in cui esiste un auto-investimento dell’unità organica definito “narcisismo innato”. In questo stadio il soggetto scopre il proprio corpo che tratta come un oggetto esterno. E’ la fase della proiezione. Il corpo è percepito a segmenti; più tardi sarà percepito nel suo insieme. Il soggetto, ancora più tardi, con un secondo processo di identificazione, prenderà possesso del suo corpo, cioè di se stesso nella sua totalità attraverso l’esercizio di quella fase che Lacan definisce “fase dello specchio”.

Questa premessa è necessaria per poter dire che le vicende uterine, in particolare le fasi di attaccamento all’immagine di se stessi in utero sono fondamentali per il successivo sviluppo della persona e per la sua inclinazione verso il mondo.
Traumi precoci o una scarsa funzione di contenimento psichico della madre (falsa presenza) strutturano quello che Peluffo definiva “congelamento intrauterino”. In altre parole, l’impossibilità di disattivare il conflitto con una procedura distensiva forza l’organismo in formazione ad un ritiro della libido dai proto-oggetti: è il primum movens psicogeno dei nuclei autistici (non ignoriamo di certo le concause tossiche, infettive, umorali che si vanno via via rendendo evidenti).
La tendenza a risolvere il conflitto con un ritiro narcisistico segnerà il grado di inclinazione alla solitudine dell’essere umano. Poiché le vicende occasionali della storia individuale sono spesso solo una sistematizzazione a posteriori di una ricerca inconscia di allontanamento dagli oggetti. Dunque possiamo dire che “Chi è solo, è stato solo”.

L’analista individua precocemente la solitudine del soggetto portatore di nuclei autistici importanti. E’ il silenzio che la denuncia. Centinaia di ore trascorse in un silenzio ora ostinato, ora passivo, ora pieno di rabbia, ora irrequieto. Lo scopo è sostanziale: abolire l’analisi, non farsi “toccare”, non farsi “scoprire”, tutelare la propria immagine ideale, quella immagine che ci ha fatto una vuota compagnia per una vita, che ha raffreddato e svuotato il nostro io.

La solitudine rancorosa

La solitudine spesso è il prodotto di un odio utero-infantile talmente enorme da non essersi potuto abreagire. Vediamo come un soggetto con tratti autistici marcati determinati da un precoce allontanamento dall’oggetto materno risponde alla mia proposta di integrare il trattamento analitico individuale con sedute di gruppo:

“Non voglio confrontarmi, non voglio stare nella realtà presente, non voglio mischiarmi con gli altri, mi sono sempre rifiutato.
Io non avrò più rapporti con nessuno al mondo. 
[nucleo autistico]
Non volevo stare con nessuno, non volevo parlare con nessuno, ed invece sto al mondo, circondato da persone che mi guardano, che mi parlano, ed io non ci voglio avere a che fare! Persino quando mi piacciono, non voglio averci nulla a che fare! E’ stata una promessa silenziosa fatta a mia madre prima che morisse. L’avrò pensato. Mamma io non mi metterò mai con nessuno, non vorrò mai più bene a nessun altro. Era insito nelle preghiere che facevo quando pensavo a lei. Amavo solo lei.
Penso ad una donna che mi piace e lei lo sa.
Penso un – mi piace ma come può essere che mi piace? -. Evidentemente non mi piace più mia madre, mi piace perché è una femmina? 
[entra faticosamente nella fase in cui scopre che esistono altre donne oltre sua madre] Il fatto che io tenessi a cuore questo sentimento la teneva in vita.” [è vero, è fermo allo stadio del narcisismo e della madre fusionale ove le immagini sono solo psichiche, bidimensionali, come in Matrix il geniale film del 1999 scritto e diretto dai fratelli Andy e Larry Wachowski; se lui pensa a sua madre, nutre la sua imago]”.

la solitudine del mondo a due dimensioni (la proiezione)

La possibilità di andare oltre le proiezioni e di intravedere il mondo, conoscere l’oggetto, come amava scrivere Peluffo, è evenienza rarissima. Sembrerà un’affermazione apocalittica, ma chiunque faccia con dedizione la professione di psicoanalista sa, è evenienza quasi impossibile senza un’analisi profonda. La proiezione, non lo dimentichiamo, non solo è un meccanismo di difesa efficientissimo, dunque è l’ultimo ad essere abbandonato, ma è stata “fisiologica” all’inizio della vita psichica individuale.

La risultante è che soggetti con marcata impronta proiettiva non fanno che vivere come in un cinematografo bidimensionale, ove scorrono le immagini chiave del loro Romanzo Familiare appena camuffate e rinverdite da “nuove” situazioni contingenti. Di qui il loro tormentoso senso di “dejà vu” ed il permanere in una solitudine persecutoria. Nei casi in cui sia possibile, per terreno psichico dell’analizzato, statura dell’analista e determinazione della coppia analitica, arrivare all’uscita dal narcisismo infantile si passa puntualmente in una atmosfera esaltante in cui il mondo sembra emergere agli occhi dell’analizzato in tre dimensioni, acquisisce corporeità, realtà, pregnanza. E’ l’inizio della vita reale e della possibilità di conoscere l’oggetto, quindi di interrompere la solitudine.

La falsa presenza materna

Per far si che l’io investa abbastanza energia in modo stabile su di un oggetto, è necessario che il compito da svolgere contribuisca a mantenere la sua sopravvivenza e nel contempo egli consideri l’oggetto degno di investimento. in altre parole che esso sia economicamente valido per la conservazione del principio di piacere.

Si capisce allora come una madre falsamente presente determini una difficoltà enorme nello strutturarsi di relazioni profonde. Questi soggetti riempiono il loro Io vuoto di oggetti persecutori e, per coazione a ripetere, non fanno che incontrare oggetti simili al prototipo infantile, strutturando, quando paradossalmente va bene, relazioni sado-masochistiche che almeno leniscono l’intollerabile solitudine interna: l’odio e il rancore fanno compagnia. Ben lo sapeva S. Giorgio che sperimentò una solitudine intollerabile, dopo aver ucciso il Drago.

La Solitudine filogenetica

è propria di famiglie abbandoniche. Sono tante le famiglie che prendono origine da rami abbandonici, avi abbandonati nei brefotrofi, nelle ruote dei conventi, oppure segnati da lutti precocissimi. “Ho un pianto doloroso che non so da dove mi viene. Mi viene da dietro, dietro, dietro… qualcosa che si perde. Non è un pianto, ma come se fossero mille pianti cristallizzati”. dice un’analizzata che proviene da una famiglia in cui entrambi i rami sono stati adottati.

La solitudine del soggetto analizzato

Tema insospettabile ma reale. Spesso scotomizzato o diniegato. Eppure ascoltando gli analizzati che fanno sedute di raccordo o i cosiddetti revenants cioè coloro che hanno “concluso” (se mai così ci si possa esprimere) la loro psicoanalisi personale e tornano anche a distanza di decenni per un approfondimento, molti parlano della difficoltà di comunicazione con gli altri.
La sofferenza è scomparsa, i conflitti appianati, gli ostacoli al successo individuale ridimensionati, eppure le frequentazioni languono o sono pseudo-frequentazioni.

la ragione è semplice: il soggetto analizzato non può più tollerare le idealizzazioni, i camuffamenti, le maschere sociali che le persone non analizzate indossano. Li vedono, al di là dell’Apparenza, come direbbe Peluffo, e magari vorrebbero un rapporto autentico, tra anime, se vogliamo esprimerci in un modo un po’ demodé. Rischiano così facendo o di mandare in pezzi difese necessarie a contenere l’angoscia, dunque di essere allontanati (e non importa certo quale sistematizzazione razionale, quale motivazione egoica verrà artificialmente costruita) o di passare per presuntuosi arroccati in un mondo aureo.

Il fatto è che l’analizzato (sempre che sia arrivato a gettare il suo sguardo oltre le proiezioni) vede cose che gli altri non vedono, coglie l’ipocrisia di certi atteggiamenti sociali, scova la patologia nell’altro, ne coglie i moti aggressivi inconsci e li tollera sempre meno.
la soluzione potrebbe essere quella di frequentarsi tra analizzati, senza che ciò diventi un’autoghettizzazione, ma il segreto professionale rende difficile gli incontri tra analizzati, poiché molti non parlano in società della loro esperienza analitica. Sono problemi reali, certo enormemente meno drammatici delle immani sofferenze pre-analitiche.

D’altra parte, la Solitudine matura del superamento proiettivo consente di cogliere l’essenza delle cose. un’esperienza indicibile di neutra serenità.

Written by: Quirino Zangrilli © Copyright

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Parole chiave

Solitudine
Narcisismo
Autismo
Congelamento intrauterino

Riassunto

L’inclinazione alla solitudine deriva da precoci riposte di ritiro narcisistico al trauma, sperimentate in fasi precoci dello sviluppo psico-sessuale dell’essere umano.
Traumi precoci o una scarsa funzione di contenimento psichico della madre (falsa presenza) strutturano quello che Peluffo definiva “congelamento intrauterino”. In altre parole, l’impossibilità di disattivare il conflitto con una procedura distensiva forza l’organismo in formazione ad un ritiro della libido dai proto-oggetti: è il primum movens psicogeno dei nuclei narcisistico- autistici