Ho deciso di riprendere un articolo di Nicola Peluffo, pubblicato su questa rivista nel 2002, con il titolo “Straniero oppure autoctono?”, in cui l’autore si poneva il quesito sull’origine dei sentimenti di estraneità ed appartenenza nell’essere umano. Le espressioni talvolta molto sintetiche dell’autore, assieme alla ricchezza degli argomenti inseriti nell’articolo, lo rendono di non facile fruizione. Nell’intento divulgare un pensiero così prezioso quale è quello di un grande maestro come Nicola Peluffo, ho provato a semplificare il suo scritto che ripropongo in questa versione ai lettori di psicoanalisi e scienza.

Il lavoro di Peluffo in versione integrale era già stato pubblicato negli atti del Seminario del 14 maggio 1998 “La tutela del minore straniero tra il rispetto delle differenze e l’integrazione sociale”, a cura di L. Bal Filoramo e A. Saracco.

In quegli anni stavamo vivendo la cosiddetta globalizzazione, un periodo caratterizzato dalla  crescita degli scambi commerciali  e dei movimenti di capitali, dalla circolazione delle persone e delle idee, dalla diffusione delle informazioni e delle conoscenze.

Sembra sia passato un secolo da allora… Invece, a 25 anni circa da quello scritto, ci troviamo a vivere un periodo storico che vede il tramonto della globalizzazione ed il ritorno di spinte nazionaliste ed individualiste.

Alla luce di queste considerazioni, il quesito che si poneva Peluffo alla fine dello scorso secolo, appare oggi ancora più attuale: cosa spinge un essere umano a considerare fratello il delfino – diceva allora Peluffo – o anche il maiale o il coniglio – dico io – al punto da non mangiare la sua carne, mentre la stessa persona non prova nessun sentimento nei confronti dei milioni di feti umani che vengono abortiti o di tutte le persone che quotidianamente sono sterminate in guerra?

Per citare il caso del coniglio, vorrei dire che in Italia  è un piatto tipico di quasi tutte le regioni, essendo un animale dotato di elevata capacità di adattamento e per questo molto diffuso anche nei periodi di povertà e carestia di altri alimenti.  E’ una carne considerata non pregiata che consente, per questo, di fornire un buon apporto proteico a poco prezzo. Ebbene, nel 2015  il movimento animalista italiano, con una rappresentante in Parlamento, aveva proposto un disegno di legge che equiparasse la carne di coniglio a quella del gatto e del cane, quindi vietandone il consumo. Sarebbe come vietare di mangiare carne di cane ai cinesi o carne di cavallo ai kazaki o gli insetti ai giapponesi.

Ma sappiamo bene che esiste anche il fenomeno opposto: le spinte nazionalistiche ed individualistiche, per quanto potenti siano in certi contesti sociali e momenti storici, non sono mai sufficientemente forti tanto da annullare l’istinto dell’uomo al movimento, alla conoscenza di nuove terre e nuove genti.

In quello scritto del 2002 Peluffo citava la teoria dell’origine unica dell’Homo Sapiens, sostenuta dal suo amico Emmanuel Anati, paleontologo di fama mondiale.

Secondo questa teoria l’essere umano sarebbe germogliato in Africa Orientale e da lì si sarebbe mosso per colonizzare tutto il mondo. Le ragioni di tale migrazione non sono note in maniera certa. Si ipotizzano motivi collegabili a condizioni climatiche sfavorevoli, la diffusione di epidemie e alle carestie. In ultima analisi, le ragioni della migrazione dell’Homo Sapiens sarebbero legate alla sopravvivenza. Alla fin fine si tratta delle stesse ragioni che tuttora muovono molte genti a migrare dal loro paese in cerca di luoghi più ospitali, ove mettersi al riparo dalle guerre, le persecuzioni, le repressioni, le carestie.

Altri studiosi hanno confermato l’origine unica del Sapiens attribuendo le differenze morfologiche ad adattamenti ambientali.

Infine, le ricerche biologiche sull’evoluzione hanno dimostrato che l’estinzione del Neanderthal è stata causata da un’incompatibilità genetica con il Sapiens che è risultato più adattabile ai cambiamenti ambientali.

In sintesi, seguendo le ipotesi dell’origine unica dell’Homo Sapiens, e la verifica che l’unica vera estraneità è costituita dall’incompatibilità genetica, gli stranieri non dovrebbero esistere e il sentimento di estraneità nei confronti di un nostro “fratello” dovrebbe essere solo su base culturale  e pertanto venir meno dopo un lungo periodo di permanenza dello “straniero” nella nuova terra. Il vissuto reciproco di estraneità dovrebbe eliminarsi con l’acquisizione della lingua, della religione, delle norme comportamentali, le abitudini alimentari, ecc. Ma sappiamo bene che da un punto di vista psicologico non è così. Abbiamo a che fare con l’identificazione e la proiezione: meccanismi di difesa che regolano la gestione del rapporto oggettuale, che ci indicano quello diverso da noi e ci fanno insorgere il vissuto dello straniero. Questi meccanismi di difesa possono avere anche una funzione adattativa, in ogni caso hanno origine nell’infanzia.

Il sentimento di estraneità o appartenenza ci accompagna dal momento in cui, ancora bambini iniziamo a riconoscere l’esistenza di un gruppo: la famiglia. Nella stanza di analisi ascoltiamo spesso i nostri pazienti esprimere i dubbi nutriti da bambini di non essere figli legittimi dei propri genitori.  Un vissuto più raro nei primogeniti o nei figli unici, ma frequente in tutti gli altri figli. Un vissuto che si appoggia su ragioni apparentemente futili, ma estremamente importanti per il bambino: rimproveri da parte dei genitori, il passaggio degli abiti dai fratelli maggiori (normale nella mia generazione, prima del boom economico che ha portato a grandi sperperi economici), poche fotografie della prima infanzia nell’album di famiglia ecc. Alcune volte questi vissuti trovano corrispondenza in fatti reali (maltrattamenti, trascuratezza, abusi sessuali), causa di traumi incistati nella psiche del soggetto. Il più delle volte sono di origine fantasmatica e per questo fonte di ispirazione di tante favole. Ricordo tra queste il Trovatello dello scrittore tedesco Von Kleist del 1811.

Gli spostamenti successivi più evidenti sono rispetto al gruppo dei pari in adolescenza, quando l’appartenenza richiede l’adesione ad un certo abbigliamento, l’uso di un gergo particolare, la passione per un certo tipo di sport, per una squadra, un tipo di musica, ecc. Oggi i requisiti riguardano anche l’essere sui social, l’uso collettivo di alcol e sostanze, la scarnificazione del corpo con tatuaggi e piercing, l’adesione ad una fantasia di indifferenziazione sessuale. Alcuni anni fa in Italia erano di moda in FB i gruppi “Sei di Bergamo se…, di Roma, di Milano se…”. La rete non prevede  credenziali per far parte di un certo gruppo: ognuno può scegliere di iscriversi, ma evidentemente l’iscrizione avviene sulla base di qualche elemento che muove un sentimento di appartenenza: la nascita, la residenza, la lingua o il dialetto , la cucina, ecc.

C’è poi il credo religioso o politico che unisce le persone fornendo un senso di appartenenza ad un gruppo e di estraneità rispetto ad altri. E’ evidente che l’adesione ad un sistema di valori (familiari, sociali, religiosi o politici), rinforza più o meno temporaneamente l’Io del soggetto identificato nel gruppo. Colui o coloro (i gruppi) che la pensano diversamente, che seguono un credo diverso, costituiscono l’estraneo, un elemento di disturbo da tenere a distanza e in alcuni casi da eliminare.

In altri termini l’adesione ad un gruppo, sistema di credenze e di valori, corrisponde al bisogno di annullare le differenze, di essere parte di un tutt’uno indifferenziato in modo tale da rivolgere l’aggressività verso un nemico esterno, di prassi il gruppo considerato diverso.

In tutte le epoche storiche l’adesione acritica ad un sistema di valori religiosi e/o ideologici, è stata ed è fonte di conflitti che hanno portato distruzione e morte.

La massa, scriveva Freud, (S. Freud, 1921 Psicologia delle masse e analisi dell’Io) “è un’entità provvisoria, costituita da elementi eterogenei, saldati assieme per un istante”.

Ed è proprio questo il punto: l’oscillazione tra la spinta all’indifferenziato e quella alla differenziazione rende il senso di appartenenza/estraneità di durata indefinibile, direi soggettiva, talvolta può durare un’intera vita, talvolta il tempo di un sogno.

Una situazione esemplare è l’innamoramento, quando abbiamo l’impressione di avere gli stessi desideri, di provare le stesse emozioni del nostro partner, insomma di essere uguali. Ma l’innamoramento non dura per sempre. Dopo un po’ torna il desiderio  di separarci, differenziarci, di avere una nostra identità distinta da quella dell’altro. Quando non riusciamo ad elaborare la perdita dell’illusione che il nostro innamorato sia come noi, tendiamo a proiettare la delusione proprio su di lui, ci sentiamo traditi, come se quello, all’improvviso, fosse diventato un’altra persona. In alcuni casi l’estraneo assume gli aspetti del nemico che ci perseguita, che vorrebbe distruggerci, dal quale dobbiamo difenderci eliminandolo.

Ho accennato alla funzione adattativa dei meccanismi di difesa, precipuamente l’identificazione e la proiezione; vorrei spiegare meglio cosa intendo. Infatti è piuttosto assurdo considerare adattativo qualcosa che ci fa identificare in un coniglio, un cane o un gatto con il quale, se fossimo l’ultima coppia sulla terra finiremmo per estinguerci, e sentire estraneo un nostro simile solo perché ha i tratti somatici diversi, non parla la nostra lingua, mangia un cibo diverso o crede in un altro dio.

Per spiegare questo paradosso da un punto di vista psicoanalitico, dobbiamo fare ricorso all’ Es in quanto contenitore e trasmettitore delle esperienze dei nostri antenati che si riattualizzano nella vita intrauterina e nei primi mesi di vita postnatale. Queste esperienze di carattere affettivo e rappresentazionale, si esprimono prevalentemente nel sogno. Chi non conosce quella sensazione di essere catturati affettivamente, e persino visivamente, da certi personaggi o scene dei sogni? Al risveglio tali immagini sono ancora talmente vivide, cioè energeticamente cariche, da non sorprendere che possano condizionare i nostri comportamenti diurni. Peluffo soleva dire che “siamo vissuti dai nostri personaggi onirici”intendendo con questa frase, che l’inconscio detta le leggi dei nostri comportamenti di veglia. Pertanto non c’è da stupirsi se, all’indomani di un sogno in cui abbracciamo Tamburino, quel coniglietto di peluche che era stato il nostro giocattolo preferito,  ci iscriveremo ad un’associazione di difesa degli animali e avvieremo una causa di divorzio dal nostro coniuge che non ama i conigli.  Possiamo immaginare che il sogno abbia attualizzato un vissuto infantile, quando in assenza della mamma l’abbraccio del nostro peluche ci provocava emozioni simili a quelle che provavamo con la nostra mamma. Nella psiche il coniglio era diventato allora il rappresentante dell’immagine materna. Il divieto di mangiare la sua carne costituisce il tabù dell’aggressività orale nei confronti dell’oggetto-madre. Tale aggressività potrà essere proiettata su un altro oggetto (il coniuge – estraneo), divenuto inutile al mantenimento del benessere, magari anche della sopravvivenza della specie.

“Per coloro, che in un modo o nell’altro conoscono la psicoanalisi, – ricorda Peluffo – sarà semplice rendersi conto che si sta parlando del transfert: la proiezione di rappresentazioni ed affetti inconsci sull’analista. Queste immagini sono espresse tramite pensieri e fantasie  che rendono attuali e riconoscibili i momenti dimenticati o rimossi della vita utero-infantile, e puberale. Sovente si esprimono nel sogno e si rivolgono ad oggetti onirici che non solo possono essere animali (di tutte le specie, essere umano compreso) ma anche oggetti inanimati: un armadio, un attaccapanni, una vasca, una bottiglia, etc.
Questi oggetti, a prescindere dal significato simbolico, possono essere semplicemente degli induttori associativi di momenti di vita carichi d’affetto, che a seconda della loro carica energetica,  ci faranno innamorare di un vaso, e prendere a calci il coniuge avvertito come straniero, molto più estraneo del vaso.
E questo fenomeno, bisogna dirlo, non accade esclusivamente durante una psicoanalisi ma sempre, nella vita, a nostra insaputa. Ed è ciò che dal punto di vista psicologico distingue anche solo momentaneamente, chi è straniero da chi non lo è; vale a dire da chi è conosciuto, del proprio paese.  Tuttavia il concetto di paese-terra nel nostro inconscio è relativo e soggetto ad oscillazioni, per cui uno stesso oggetto può essere considerato straniero e alternativamente conosciuto. Questo fatto accade sempre ed è spesso mal tollerato e negato dagli esseri umani.”.

© Bruna Marzi

Bibliografia

Freud S. (1921) Psicologia delle masse e analisi dell’Io, Opere Vol. IX B. Boringhieri, Torino.
Peluffo N. (1998) Straniero oppure autoctono? Psicoanalisi e scienza, 29 novembre 2002