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Un giorno dell’autunno del 1995, in occasione dell’annuale Simposio di preistoria organizzato da Emanuel Anati, direttore del Centro Camuno di Studi Preistorici, a Capodiponte, posi al professore il problema dell’origine degli attuali abitanti di Capodiponte. Gli chiesi se la popolazione del luogo fosse autoctona; egli mi rispose “Quali autoctoni? Autoctoni non ve ne sono”.
In quanto paleoetnologo, nel suo campo specifico è uno dei sostenitori dell’origine unica dell’Homo Sapiens. Questa teoria, detta del diffusionismo, sostiene che l’essere umano attuale è apparso nella valle del Rift, cioè è germogliato in Africa Orientale tra la Tanzania ed il Kenya e ha dilagato in tutto il mondo.
Il motivo dell’abbandono del suo luogo d’origine non lo conosciamo. Si fanno diverse ipotesi che vanno dalla siccità, all’esplosione demografica, all’estinzione della fauna, alle epidemie, catastrofi, sino all’invasione dei topi. Certo è che dovunque sia arrivato, le altre specie di ominidi sono scomparse, compreso il Neandertal che era il cugino più vicino ma che purtroppo per lui non era geneticamente compatibile con il Sapiens Sapiens. Quindi non ha potuto sopravvivere, neanche negli incroci, ed è scomparso.
Eppure l’abitante tipo dell’Unione Europea era il Neandertal.
Forte, robustissimo, felicemente adattato ai climi glaciali dell’epoca aveva però un problema. Era un cacciatore di grandi fiere, un carnivoro, anche cannibale (forse) ma non riuscì ad adattarsi ai cambiamenti di alimentazione dovuti ai cambiamenti di clima. Gli si consumavano i denti e non poteva nutrirsi adeguatamente, per cui anche la natalità diminuiva, non riusciva a fondersi con il Sapiens Sapiens, quindi fu costretto a sparire.
Ed ecco che l’altro si diffuse ovunque.
In questa prospettiva stranieri non ne dovrebbero esistere e, a lungo termine, neanche autoctoni.
Dal punto di vista psicologico, le cose sono un po’ diverse. Per esempio, i discendenti degli arabi che abitano da secoli in Sicilia o in Spagna (o altrove) non sono stranieri, mentre lo sono gli arabi di fresca immigrazione. Si potrebbe dire che, l’essere considerato non straniero, è una questione collegata alla durata della permanenza in un certo luogo e alla possibilità di farsi comprendere o meno usando un sistema di comunicazione verbale o scritto comune alla maggioranza degli abitanti tradizionali del luogo.
Un problema che non hanno certo i cani o i gatti che usano codici di comunicazione olfattivi, sensorio-motori, o sonori.
Essere straniero quindi è piuttosto una condizione culturale che naturale e vi sono dei casi in cui una data popolazione trasferita da un paese ad un altro diventa il parametro per definire lo straniero da chi non lo è.
Sto parlando di una popolazione vegetale in interazione con una umana.
Per esempio l’italiano mangia la pasta al pomodoro, il tedesco le patate, ecc. Sono stereotipi suffragati dalla statistica, quindi dal punto di vista della psicologia sperimentale sono “scientifici”. Ed è anche vero!
Ma non da tanto tempo! Perché queste buone solanacee sono arrivate in Europa ben dopo la scoperta dell’America.
Il pomodoro è nato in America e poi si è diffuso in tutto il mondo. E come si fa a dire ad un italiano, specialmente del sud, che il pomodoro non è autoctono e che fino al 1500 circa la “pummarola” (la salsa di pomodoro) non esisteva e che anche gli spaghetti non sono nati in Italia? E che quindi il simbolo dell’Italia, gli spaghetti al pomodoro, quel piatto che tutti mangiano con gusto ma che anche serviva da indicativo dispregiativo per indicare gli stranieri italiani in Francia (“maccheronì”) non c’era. E’ abbastanza divertente prendere atto che due “stranieri” (il pomodoro e gli spaghetti), un americano più un cinese diventano il nostro indicativo nazionale. E neanche il peperoncino esisteva poiché anche quello è ”americano”.
Potrei continuare con gli inglesi, il the (tea) è indiano.
E i tedeschi con le loro “ Kartoffeln”. Le patate sono americane e sono state introdotte in Spagna nel 1570; ma poi lo saranno americane?
Certo il colore è un indicatore potente che influenza molto il giudizio sullo straniero.
Le trote cinesi e giapponesi sono a sfondo giallo. Hanno i puntini colorati come le fario dei nostri fiumi ma sono gialle. Un ittiologo saprà spiegarci il fenomeno ma per me è un mistero. Come è un mistero che l’essere umano sia apparso solo in Africa.
Non è difficile dire che le condizioni necessarie affinché quel passaggio accadesse esistevano solo in quel posto: però?
M. Wolpoff e A. Thorne, nella loro teoria del candelabro o dell’evoluzione multiregionale sostengono che Homo-erectus ovvero Homo sapiens arcaico nasce in Africa alcuni milioni di anni or sono. Da questa specie l’uomo moderno si sarebbe evoluto indipendentemente in più regioni conservando delle caratteristiche regionali distinte.
Sarebbe così spiegata la continuità morfologica notata in Asia, Oceania ed Africa tra erectus, Sapiens-arcaico, e Sapiens.
Infine esiste la teoria dell’evoluzione articolata ovvero dell’ibridazione-sostituzione proposta da G. Brauer e condivisa da Y. Coppens, B. Picq e B. Vandermeersch che accetta l’origine unica dell’uomo moderno ma vi include anche delle migrazioni e degli incroci.
Queste tre teorie sembrano ora verificate nella loro componente di base: l’origine unica dell’Homo Sapiens e la sua provenienza dall’Africa. Le ricerche di Peter Underhill, un biologo molecolare dell’università di Stanford (Palo Alto, California), e di Michael Hammer, un genetista dell’università dell’Arizona, sulle mutazioni del cromosoma Y di popolazioni boscimane, sembra abbiano confermato che i primi Sapiens sapiens fossero vissuti 150.000 anni or sono nell’Africa del sud e che i loro discendenti siano appunto gli attuali boscimani. Sembra quindi che Adamo ed Eva siano nati nell’Africa del sud e di lì si siano diffusi progressivamente nel mondo conosciuto.
Le differenze genetiche, come sostiene Cavalli-Sforza, sarebbero solo in parte una questione di adattamento regionale perché studi approfonditi hanno dimostrato che tali differenze possono essere più rilevanti all’interno di una stessa popolazione di quelle riscontrabili tra popolazioni diverse; tuttavia se consideriamo un orizzonte abbastanza ampio dal punto di vista temporale la miscela umana creata dalle migrazioni e dagli incroci dovrebbe alla lunga distanza diventare sempre più omogenea.
Il punto di vista di Cavalli-Sforza e di altri genetisti sembra andare in questa direzione pur sostenendo che, considerando certi marcatori genetici, si possono scoprire con una certa approssimazione le origini genetiche di un individuo, o per lo meno, le popolazioni a cui certamente non appartiene in quanto ascendenza.
Essere straniero in questo caso non sarebbe proprio una questione di cultura ma anche un poco di natura. Sia pur una natura parziale. Homo Sapiens sapiens ma senza i marcatori…e quindi probabilmente non identico all’altro che possiede i marcatori.
Una piccolissima diversità che non impedisce però le possibilità di incrocio che tuttavia non sarebbero possibili con un altro primate, per esempio il Bonobo e persino con un altro Sapiens, il Neandertal, la cui diversità genetica è minima.
Il gruppo di ricerca di Svante Pääbo e Matthias Krings è riuscito ad estrarre un frammento di DNA di 376 nucleotidi dall’omero di uno scheletro trovato nel 1856 nella valle di Neander vicino a Dusseldör e conservato nel museo di geologia di Bonn.
Rispetto al frammento di DNA studiato, 55 basi sono diverse tra l’uomo e lo scimpanzé.
Tra l’uomo attuale e il Neandertal, le basi di diversità sono 27.
Ora, se le regole del calcolo genetico sono valide, il distacco tra l’uomo e lo scimpanzé è avvenuto 5.000.000 di anni fa e quello tra l’essere umano attuale (il Sapiens sapiens) e il suo parente 600.000 anni or sono.
Questo vuol dire che da 600.000 anni il Sapiens sapiens ed il Sapiens neandertalensis si sono separati, cioè non c’è più stata possibilità di ibridi; se noi oggi volessimo ricostruire un Neandertal per selezione non potremmo. Da un punto di vista biologico un essere umano molto simile a noi anche rispetto alla vita spirituale ci sarebbe così estraneo (straniero) da non poter essere utile alla conservazione della specie, pur esistendo le possibilità di rapporto sessuale.
Eppure potremmo essergli amici, sentirlo nostro fratello, persino innamorarcene; ma se fossimo l’ultima coppia umana rimasta sulla Terra, il destino dell’Homo erectus nelle sue due specificazioni Neandertal sapiens e Sapiens sapiens (salvo diavolerie tecnologiche collegate con la biogenetica) sarebbe segnato, finito.
Da un punto di vista biologico essere straniero significa, in ultima analisi, essere incompatibile: parzialmente quando si tratta della conservazione dell’individuo (i trapianti da Sapiens sapiens “a” verso Sapiens sapiens “b”) oppure totalmente, quando si tratta della conservazione della specie (da sapiens sapiens “a” verso Sapiens Neandertal “b”).
A questo punto potremmo anche finire il ragionamento, se non fosse che la variabile biologica non è la sola e che esistono meccanismi psicologici, come ho già accennato prima, che in definitiva servono, intendo in modo metaforico, ad ingannare la rigidità del soma. O forse non dovrei dire “in modo metaforico” ma difensivo o sostitutivo, ad ingannare il soma sostituendo la duttilità delle strutture funzionali complesse alla rigidità degli organi.
Tali meccanismi difensivi psichici sono la proiezione e l’identificazione, che rispetto alla gestione del rapporto oggettuale che ci indica lo “straniero”, cioè fa insorgere il vissuto dello straniero (diverso da noi), oppure no, hanno una funzione di regolazione adattativa simile a quella che M. Jouvet ci indica rispetto al sonno-sogno (sonno R.E.M.-sogno) che appare negli animali omeotermi.
Gli esperimenti di laboratorio rispetto ad una attività non solo biologica bensi anche psichica (il sogno) permettono al grande scienziato di onirologia molecolare di fare alcune riflessioni tra le quali una straordinaria: negli omeotermi (Homo Sapiens sapiens compreso), il ricambio cellulare che si arresta alla fine della vita fetale viene sostituito dall’attività onirica.
Di conseguenza, punto di vista di M. Jouvet è che le informazioni utili alla continuazione dell’adattamento e della sopravvivenza, non potendo rinnovarsi con il duplicarsi delle cellule cerebrali (cosa che non accade) si mantengono per via psichica (cibernetica), tramite un’attività psicobiologica: il sonno- sogno.
Per M. Jouvet l’apparizione del sonno paradosso nel corso dell’evoluzione ha coinciso con l’apparizione dell’omeotermia. Il passaggio dalla poichilotermia all’omeotermia (dagli ectotermi agli endotermi) è accompagnato da cambiamenti anche nel cervello e nell’organismo (aumento considerevole dei processi energetici – mitocondria – che permettono il passaggio dal bradimetabolismo al tachimetabolismo). Un fenomeno fondamentale è avvenuto a livello del cervello. Mentre persiste una neurogenesi durante tutta la vita di un poichilotermo questa scompare negli omeotermi.
Nei mammiferi la neurogenesi termina alla fine della maturazione cerebrale. Durante le prime settimane di vita nel neonato umano.
In base agli studi compiuti da Bouchard sui gemelli umani, da altri ricercatori, rispetto al canto degli usignuoli e in particolare sui soliti (benemeriti) topi, si è verificato, per esempio, che ogni capostipite di topo presenta dei patterns (forme) di movimenti occulari rapidi durante il sonno-sogno che sono caratteristici della razza.. L’incrocio di differenti razze e di ibridi da luogo a dei patterns identici o intermediari.
Questo fenomeno di similarità si trova molto evidente anche nei gemelli monozigoti umani mentre non esiste in quelli dizigoti.
L’ipotesi che sostiene M. Jouvet è che il sonno-paradosso possa effettuare una programmazione genetica iterativa nelle specie in cui la neurogenesi cessa alla fine dell’ontogenesi. Secondo la sua ipotesi l’attività onirica periodica (che è particolarmente evidente durante il sono paradosso) rappresenterebbe la programmazione iterativa delle reazioni incoscie che sono responsabili della personalità e delle differenze inter individuali di comportamento nei soggetti sottomessi alle stesse condizioni ambientali.
In fondo, almeno implicitamente, M. Jouvet dà una definizione di psichismo simile a quella di Silvio Fanti. Vale a dire, è psichico ciò che dell’uomo non deriva strettamente dal somatico, almeno in modo direttamente verificabile, e non viene spiegato con la semplice estensione delle leggi della biologia.
Varebbe la pena di soffermarsi a lungo su questo argomento ma preferisco riferirmi a qualche caso particolare collegato ad esso e ai meccanismi psichici della proiezione e identificazione.
Per esempio, per quale ragione un essere umano dovrebbe sentire fratello un delfino, al punto da non mangiare il tonno in scatola per timore che contenga carne di delfino, e nel contempo non occuparsi minimamente dei milioni di bambini umani che vengono quotidianamente sterminati tramite le pratiche abortive volontarie e le di cui carni non si conosce il destino?
Non certo perché il delfino è un mammifero; lo sono anche le mucche,i conigli, le pecore, etc.
E’ probabile che il delfino, fantasmaticamente, dovrei dire ONIRICAMENTE per molte persone sia meno estraneo, meno Straniero, del proprio bambino, che contiene una parte del proprio patrimonio genetico.
Con un’espressione triviale direi ”alla faccia” della biologia e della genetica, la psiche traccia strade paradossali che ci fanno chiudere la porta, non dico all’immigrato ma persino ad un parente fastidioso. Ci fanno però accogliere a braccia aperte come un alter ego un compagno di ideologia che, a volte, appena si girano le spalle ci pugnala. Una specie di pesce cane travestito da delfino che ci mangia.
Senza ricorrere alle spiegazioni complicate dell’eredità ideica (l’eredità energetico-pulsionale che si riflette sulla qualità e quantità dei tentativi che pure esiste ed è valida) si può riflettere un poco sul fenomeno onirico.
E’ oramai cosa nota che i sogni infantili siano popolati di animali e che i bambini stessi, sia prima della nascita che dopo, vivono e sentono e ragionano in modo simile agli animali.
In utero il bambino vive, sente e si muove in un ambiente acquatico e certamente le tracce sensorio-motorie che conserva nei suoi rudimenti di memoria trattano anche di esperienze acquatiche. Solo che, a differenza dei pesci, i bambini sognano.
Quando, dopo la nascita saranno in grado di recepire la rappresentazione di un entità acquatica denominata pesce, potranno riprodurre le loro sensazioni motorie intrauterine (conservate in memoria) in un sogno in cui per esempio un Delfino-Mamma è protagonista. Il desiderio rimosso di mangiare il seno della mamma si trasformerà in sogni.
Nella vita di veglia esisteranno dei resti notturni che per una via associativa inconscia svilupperanno un vissuto di parentela verso il delfino che diventerà cibo-tabù. Questa frase è un poco sintetica. Dirò solamente che i resti notturni sono i residuati di quei frammenti tensionali di cui il tentativo onirico non è riuscito a vincolare (esaurire) completamente l’energia e che quindi si riversano come elementi di programmazione attiva nella vita quotidiana.
Tutti noi conosciamo bene l’associazione tabuica tra le regole della morale e il rapporto con l’animale totemico. Per noi occidentali mangiare carne di cane è quasi cannibalismo, però si può arrivare a mangiarla se la fantasia onirica l’ha messo in programma per il giono dopo. In pratica si deciderà di fare una visita a qualche ristorante asiatico in cui l’uso di tale alimento non è proibito, e la si mangerà forse senza realmente rendersene conto. L’inconscio sarà soddisfatto.
Dal punto di vista filogenetico e ontogenetico questi paradossi sono guidati da quella struttura energetico-pulsionale che in micropsicoanalsi viene definita Immagine. Nell’Immagine sono raccolte le esperienze più o meno traumatiche che l’umanità ha fatto nella sua evoluzione e che si riflettono in sfaccettature energetiche e pulsionali che formano il nucleo di base rispetto al quale si struttura l’Immagine ontogenetica. Cioè quell’insieme di rappresentazioni e affetti che derivano da esperienze più o meno traumatizzanti che si svolgono durante la vita intrauterina e nei primissimi mesi di vita.
Le sfaccettature dell’Immagine ontogenetica e filogenetica si servono del binomio es-inconscio per manifestarsi e questa manifestazione avviene sia per Fanti che per Jouvet (anche se quest’ultimo non parla di Immagine) durante il sonno-sogno. Questo vuol dire, ripeto, che i residuati notturni di certe esperienze rappresentazionali e affettive racchiuse nell’Immagine (per Fanti) e nei programmi di memoria (per Jouvet) si specificano nel sogno e prendono vita in comportamenti consci della veglia.
Per esempio l’insoddisfazione generale che colpisce certe madri americane (o di altri Paesi) continua con l’insorgere nelle figlie di un vissuto inconscio e anche preconscio di incompletezza, di autosvalutazione, a cui segue un profondo desiderio di cambiamento che prende poi la strada di certi modelli ideali proposti dai mass-media.
Ecco che allora le proiezioni che provengono dall’inconscio filogenetico e ontogenetico troveranno dei luoghi di vincolamento per una probabile introiezione-identificazione non in persone fisiche specifiche (la nonna, la zia, la maestra, ecc.) bensì in strutture, chiamiamole materiali, precostituite, presentate con un loro corpo specifico.
Il risultato sarà che la nipote vivrà come estranea (straniera) la nonna o la maestra, mentre si sentirà attratta in modo irresistibile rispetto alla rappresentante ideale di un’entità artificiale onnipotente: la bambola Barbie. Ho letto su un settimanale che va per la maggiore una notizia incredibile e cioè che quindicimila ragazzine americane sotto i diciotto anni si sono sottoposte, nel 1997, a operazioni di chirurgia plastica. Il modello a cui queste “teen-agers” si ispirano è la bambola Barbie.
Un noto scrittore (Nantas Salvalaggio), commentando la notizia, parla di una ventenne ragazza texana di nome Kristi che confida all’intervistatore: “ho speso trecento milioni con dieci chirurghi plastici diversi; a diciotto anni avevo già subito quattro operazioni al naso e mi ero rifatta il seno, le guance, il mento, le palpebre, il collo e il sedere.”
Il commento dello scrittore è: “è ovvio che queste stravaganti giovinette devono essere maturate in famiglie molto particolari”, che evidentemente firmavano gli assegni senza opporre la minima resistenza.” Cioè condividevano il tentativo delle figlie.
Da un punto di vista psicoanalitico è chiaro che questo comportamento trova la complicità della famiglia; deve essere una famiglia in cui i vissuti di perdita e di castrazione sono talmente potenti da permettere una ricerca di modificazioni corporea simile a quella che si potrebbe ottenere con un trapianto. Soltanto che non è un trapianto che viene messo in atto (del resto non si saprebbe con certezza cosa trapiantare se non un pene-feticcio) ma piuttosto lo spostamento in una molteplicità di interventi chirurgici modificatori del tentativo inconscio di eliminare il vissuto di castrazione. Vale a dire: se non si può trapiantare la potenza fallica almeno ottenere la perfezione estetica basata su un modello inanimato.
Questo modello inanimato non è più uno straniero ma è addirittura un Ri-Creatore nel senso che quelle quindicimila giovanette hanno cercato di ricrearsi a immagine e somiglianza di Barbie.
La forma di Barbie in questo senso è l’artifex della felicità e della sicurezza di un gruppetto umano che si riconosce tramite certi attributi che fanno parte appunto del concetto di Barbie. Il clan dei “Barbie”.
D’altra parte anche nella Bibbia l’artifex per eccellenza, l’Eterno, crea tutti gli animali a coppie e in questa operazione crea anche l’uomo e la donna.
In un secondo tempo, tuttavia, si può dire ricostruisca ciò che aveva creato, ri-creando Adamo a sua immagine e somiglianza.
Poi ri-crea Eva tramite l’amplificazione di un attributo di Adamo (la costola).
In termini attuali, procede alla clonazione di un attributo che essendo identico a quello dell’Eterno è un attributo divino che contiene in sè tutta la potenza fallica. Quell’ attributo del padre totemico, viene trasformato in donna che in realtà è colei che pro-crea.
Questa ri-creazione, che Th. Reik interpreta come le vestigia di un rito di passaggio, costituisce una specie di parentela psichica tra il creatore ed i creati che è simile a quella descritta dalla Bibbia in cui il carattere che si vuole mettere in evidenza è la parentela, nell’Onnipotenza dell’Eterno Creatore, tra l’artista divino e la sua opera.
Questo ci spiega la spinta emotiva che possono creare certe opere d’arte.
Ci si può innamorare della Gioconda oppure la si può sfregiare a seconda dello spostamento di sentimenti che si attua verso tale quadro. Probabilmente Leonardo da Vinci, in vita, avrebbe procurato a quei soggetti gli stessi movimenti affettivi scatenati dalla sua opera, la cui caratteristica psicologica principale (per certi personaggi) è quella dell’ambiguità sessuale.
Per coloro, che in un modo o nell’altro conoscono la psicoanalisi, sarà semplice rendersi conto che sto parlano di quel fenomeno che viene definito transfert (in italiano traslazione). Un trasferimento di sentimenti inconsci che diventano consci verso l’analista, durante la seduta analitica .
Questi sentimenti sono espressi tramite movimenti mentali (e a volte concreti), cioè pensieri, fantasie, immagini, idee che rendono attuali e riconoscibili i momenti dimenticati o rimossi della vita utero-infantile, e puberale. Sovente prendono la via onirica e si rivolgono ad oggetti onirici che non solo possono essere animali (di tutte le specie, essere umano compreso) ma anche oggetti inanimati. Un armadio, un attaccapanni, una vasca, una bottiglia, etc.
Questi oggetti, a prescindere in modo totale dalla simbolica, possono essere semplicemente degli induttori associativi di momenti di vita carichi d’affetto, isolati nello psichismo del soggetto ma costituenti forme psichiche (pattern) che a seconda del loro pulsare, ulteriormente trasferiti, ci faranno innamorare di un vaso, e prendere a calci il coniuge: totalmente straniero. Molto più estraneo del vaso.
E questo fenomeno, bisogna dirlo, non accade esclusivamente durante una psicoanalisi o una micropsicoanalisi, ma sempre, nella vita: a nostra insaputa. Ed è ciò che dal punto di vista psicologico distingue anche solo momentaneamente, chi è straniero da chi non lo è; vale a dire da chi è autoctono: della stessa terra. Per la psiche (l’anima) tuttavia la qualità della terra è relativa, soggettiva, momentanea e contraddittoria per cui la fluttuazione di quei due attributi (straniero e autoctono) è continua e può investire contemporaneamente lo stesso oggetto. Questo fatto accade sempre ed è spesso mal tollerato e negato dagli esseri umani.

© Nicola Peluffo

 Atti del Seminario del 14 maggio 1998 “La tutela del minore straniero tra il rispetto delle differenze e l’integrazione sociale” A cura di Liliana Bal Filoramo e Antonella Saracco, Ed. Celid, Torino.

Bibliografia:

Anati Emanuel, Il Museo immaginario della preistoria, Jaca Book Milano 1995.
Gelliy Robert, L’enigme de Neandertal, Sciences et Avenir, n° 542,1992
Kiner Aline, Le nouveau visage de Neandertal, Sciences et Avenir , n° 590, 1996
Coppens Yves, Notre arbre généalogique? C’est un bouquet !, Sciences et Avenir, n° 590, 1996.
Rossion Pierre, L’homme avant l’homme de Chauvet, Science et vie, Edition speciale (La grotte de la Combe d’Arc), 1994.
Jouvet Michel, La natura del sogno, ed. Theoria, Roma-Napoli, 1992.