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Relazione presentata al Simposium degli Istituti svizzero e francese di micropsicoanalisi “PSICOPATOLOGIE ATTUALI”
Peseux (NE) 15.10.22

 

Introduzione

Per parecchi anni dopo il secondo dopoguerra, nei paesi occidentali del continente europeo, abbiamo vissuto una situazione di relativa stabilità. Non ci sono stati avvenimenti catastrofici che hanno radicalmente sconvolto le nostre esistenze, minacciato le nostre vite e il benessere raggiunto. Possiamo dire che abbiamo vissuto nelle condizioni ideali per lo sviluppo intellettuale e il fiorire di nuove scoperte. In queste condizioni abbiamo potuto studiare le conseguenze degli eventi traumatici avvenuti nelle generazioni precedenti, e di quelli recenti sofferti da popoli più o meno lontani da noi.

In quanto psicoanalisti noi ci occupiamo principalmente delle conseguenze sul piano psichico degli eventi traumatici ed è indubbio che negli ultimi 30 anni si siano sviluppati molti studi sullo sviluppo di psicopatologie a seguito dell’esposizione a catastrofi naturali, terremoti, alluvioni, guerre, atti terroristici e poi ancora violenze domestiche, maltrattamenti ed abusi. Si sono sviluppati anche diversi approcci metodologici per il trattamento delle persone traumatizzate.

Dobbiamo riconoscere che in questo gran parlare del trauma reale, ci si è sempre più allontanati dalle componenti soggettive della risposta agli eventi, globalmente si parla sempre meno del trauma psichico. Traumatico è diventato tout court l’evento in sé, con scarsa o nulla considerazione per la struttura psichica del soggetto, per la sua resilienza (tanto per usare una parola di moda), sebbene, nelle disamine di malattie e sintomi, si leggano accenni all’aspetto psicologico come concausa dello sviluppo o del protrarsi di uno stato patologico.

E poi, quando nessuno di noi se l’aspettava, è giunta la pandemia che, pur avendo causato un numero di morti di scarsa rilevanza rispetto alle calamità dei secoli precedenti, ci ha obbligati ad un cambiamento radicale dello stile di vita. Sono andati in crisi i nostri sistemi di riferimento, le nostre abitudini ed i sistemi economici che consideravamo consolidati, siamo stati privati dei rapporti sociali. E poi, forse anche in qualche modo collegata alla pandemia, è tornata anche la guerra nel nostro continente con tutte le conseguenze ben note: distruzione, morte, imponente migrazione di genti in cerca di luoghi meno ostili, crisi energetica, inflazione, ecc.

In questa situazione, come psicoanalisti, siamo chiamati a dare una risposta ad un disagio crescente che ci pone diversi quesiti. Io ritengo che i sintomi lamentati dai pazienti sono apparentemente diversi rispetto a quanto osservato in passato. La novità è la diffusione del disagio che, in alcune fasce di età è addirittura raddoppiata, ma la parte più complessa per uno psicoterapeuta e psicoanalista consiste nella comprensione dell’eziologia del disturbo, al fine di intervenire in modo efficace.

Tanto la pandemia quanto la guerra attivano pensieri e paure di morte, con un corollario sintomatico che varia da soggetto a soggetto, ma che riguarda sempre il corpo. Un corpo minacciato, invaso e infettato dal virus, ma anche dai vaccini e che può sviluppare diverse malattie o soccombere; un corpo minacciato dall’invasione del nemico con bombardamenti tradizionali e nucleari, che può essere ferito, sottoposto a stenti o distrutto.

Sottolineo che queste minacce richiamano in ognuno di noi le memorie filogenetiche dei traumi vissuti dai nostri antenati.

Come ci ricorda Anzieu (1984), noi utilizziamo delle immagini corporee per rappresentare il nostro Io, cioè la nostra identità, la nostra soggettività.

Cosa lamentano le persone:

  • –  Dolore al petto, senso di oppressione, fame d’aria, palpitazioni, tachicardia, associate allapaura di morire d’infarto o di altre malattie cardiologiche.
  • –  Astenia, mal di testa, difficoltà di concentrazione e della memoria, tendenza a procrastinare icompiti, disturbi del sonno, depressione del tono dell’umore, ritiro sociale a cui si associa lapaura della morte, della perdita delle persone care, della solitudine e della follia.
    C’è poi l’ampio spettro dei disturbi del comportamento alimentare, l’abuso di alcol e sostanze,

ma questi “segreti” spesso emergono dopo parecchie sedute e non costituiscono l’aspetto manifesto della richiesta di aiuto.
Come distinguere in queste manifestazioni sintomatiche le normali preoccupazioni per la propria

salute, talvolta legate alle situazioni contingenti o all’età, dalle fobie, dalla conversione isterica o da disturbi più gravi come l’ipocondria, o le somatizzazioni? Mi pare che questo quesito possa creare dei problemi allo psicoanalista anche nella scelta del modello di intervento da utilizzare. In questo mio contributo cercherò di illustrare, attraverso esemplificazioni, gli elementi raccolti nella pratica clinica e alcune proposte operative.

ESPOSIZIONE

Comunemente si definisce ipocondria la preoccupazione costante per il proprio stato di salute, senza che vi sia riscontro clinico di uno stato di malattia. Il soggetto ipocondriaco risulta essere ipersensibile a qualsiasi segnale proveniente dal proprio corpo o da un organo in particolare, ingigantisce i segnali che provengono da esso e vi attribuisce la valenza di malattia grave. Da qui ne deriva molto spesso una sequela di indagini mediche dalle quali non ottiene nessun riscontro, oppure l’atteggiamento opposto, cioè l’evitamento degli accertamenti che evidenzierebbero l’infondatezza delle preoccupazioni.

La definizione dell’ipocondria è piuttosto controversa, trova in disaccordo i clinici che oscillano tra due posizioni:

1. l’inquadramento della sindrome come un’entità nosografica a sé stante, da far rientrare o nei disturbi di tipo paranoideo o nelle nevrosi;

2. la considerazione dell’ipocondria come un sintomo presente in diverse forme psicopatologiche, anche parecchio distanti tra loro.

Lysek, (2016) in sintonia con l’eredità freudiana, inquadra l’ipocondria tra i disturbi somatoformi di cui soffrono le persone affette da difetto di mentalizzazione, incapaci a verbalizzare le proprie emozioni, incapsulate in vissuti arcaici. Zangrilli, (2001) d’accordo anch’egli con il pensiero freudiano, inquadra l’ipocondria nei disturbi borderline. Entrambi gli autori riconoscono la componente narcisistica e la precocità del vissuto traumatico.

In estrema sintesi, Freud (1914) distingue su base eziologica le nevrosi, con particolare riferimento alla conversione isterica, dall’ipocondria. Le nevrosi sono caratterizzate da un sovraccarico di libido investita sull’oggetto edipico che si scontra con il divieto d’incesto, determinando diverse formazioni sintomatiche: fobie, ossessioni, conversioni somatiche che esprimono, in modo mascherato, la realizzazione del desiderio rimosso. L’ipocondria, invece, è caratterizzata da un fallimento delle relazioni precoci fra il bambino e il suo ambiente che comporta il ritiro dell’investimento in senso narcisistico sull’Io ed un successivo re-investimento sul corpo.

A questa classificazione, dobbiamo aggiungere le manifestazioni sintomatiche attuali che sono causate da contingenze esterne (pericolo per la propria incolumità, perdita dei contatti sociali) e soggettive (l’età, lo stato di salute, la solitudine).

Ho ascoltato molte persone lamentare vari sintomi nel periodo pandemico. Ricordo, ad esempio, un’anziana signora, vedova, che, dopo tanti tentennamenti si sottopose alla vaccinazione anti Covid. Aveva vissuto nel totale isolamento il periodo del lockdown, con sporadici contatti telefonici con il figlio. Subito dopo la vaccinazione, iniziò a soffrire di dolori articolari che la costrinsero all’assunzione di forti dosi di antinfiammatori. La signora, ignorando i pareri dei sanitari e la sua età, che di per se avrebbe giustificato le deformazioni dell’apparato scheletrico e l’irrigidimento delle articolazioni, era convinta che la malattia fosse causata dal vaccino e non voleva sottoporsi alla dose di richiamo. In questo caso bastarono pochi colloqui, direi quel contatto emotivo di cui la signora era stata privata per diversi mesi, per eliminare l’angoscia.

Nel lavoro psicoanalitico possono capitare alcuni pazienti, particolarmente complessi. Può succedere che anche un esperto psicoanalista cada sotto l’effetto ipnotico dei racconti dei pazienti e delle espressioni corporee che li accompagnano. Potremmo dire che le storie traumatiche possono essere affascinanti.

E’ il caso di una donna portata in supervisione da una giovane collega che aveva accettato di lavorare online durante il lockdown ed aveva continuato il lavoro da remoto perché la paziente adduceva mille scuse pur di non recarsi presso lo studio.

La paziente presentava sensazioni di alterazione dello schema corporeo, con scissioni dell’immagine del corpo associate alla depersonalizzazione e alla perdita dell’immagine di sé, uno stile di vita caotico, cambiamenti improvvisi dell’umore, amnesie, disturbi della vista. Le ricostruzioni del materiale esistenziale erano contrastanti, generando confusione nello psicoterapeuta. Le espressioni corporee e la mimica del volto ricche di manierismi, l’eloquio connotato da lunghe pause, sospiri, come se cercasse sempre di colpire l’attenzione dell’interlocutore. La paziente rifiutava qualsiasi cura farmacologica, adducendo come giustificazione diverse malattie che le avrebbero provocato gravi effetti collaterali all’assunzione di psicofarmaci. Raccontava una storia di atroci violenze sessuali subite nell’infanzia dai familiari e vicende terrificanti vissute dalle generazioni precedenti, in cui l’elemento ricorrente erano le manipolazioni chirurgiche del corpo. La giovane collega, fece un tentativo di trattamento terapeutico con l’obiettivo di permettere l’integrazione delle parti scisse della personalità, attraverso la ricostruzione in seduta degli eventi traumatici e, in questo intento, interagiva con “i personaggi” che la paziente agiva in seduta. Fino a quando la paziente, che iniziò a lamentare sintomi fisici, attribuiti agli effetti del Long Covid, riprese il tema dell’intolleranza ai farmaci. Diceva di doversi rivolgere all’Istituto di ricerca delle malattie rare, ma temeva che non le trovassero niente, o che le diagnosticassero una malattia più grave e poiché, a suo dire, le persone come lei sono facilmente influenzabili (ipnotizzabili), meglio stare alla larga dai medici. A questo punto la giovane collega decise di fare il punto sul suo lavoro.

Correale (2019) parla di ipersensorialità, presente sia nello psicotico che nel borderline, ma mentre lo psicotico non riesce a fornire una narrazione di ciò che gli è successo perché le esperienze sono precoci e derivano dalla relazione con le figure primarie, il borderline ha vissuto un’esperienza traumatica che gli ha lasciato una potente traccia mnestica sensoriale. Il borderline cerca di trasformare l’esperienza traumatica vissuta passivamente, in attività, per esempio identificandosi con l’aggressore, ma è proprio questo movimento (passività-attività) che lo mette in contatto con le esperienze sensoriali insopportabili. Per lo psicotico il mondo è misterioso, dice Correale, per il borderline traumatizzato il mondo è cattivo e violento.

E veniamo all’ultimo caso che desidero presentarvi. Un giovane che ha sofferto di ipocondria per molti anni, durante i quali si è sottoposto ad un’infinità di controlli medici per scongiurare malattie fatali, senza mai trovare alcun riscontro.

Un’esistenza connotata da isolamento, poche amicizie, scarsissimi rapporti sociali. Con l’arrivo della pandemia ha sviluppato il terrore di contrarre il virus e al contempo la fobia rispetto ai vaccini. All’isolamento sociale si era associata la perdita di legami familiari importanti. Queste vicende attuali avevano riattivato ricordi infantili in cui riecheggia l’offesa. Il giovane vive tutto come un rifiuto, un affronto personale che gli provoca una reazione di rabbia devastante. Ne consegue l’isolamento, necessario a proteggere l’oggetto dalla furia omicida e il rivolgimento dell’aggressività sull’Io-corpo. Va detto che tale aggressività autodiretta non sempre è di carattere fantasmatico (l’idea di avere una malattia), talvolta può manifestarsi sotto forma di reale malattia organica.

La dinamica in atto è la seguente: pur vivendo in una capsula narcisistica di isolamento, in cui, nella maggior parte dei casi la pulsione mantiene solo un aspetto ideativo (il soggetto fantastica di agire sull’oggetto, di raggiungerlo), di tanto in tanto il paziente riesce ad uscire dal guscio. L’aspetto motorio della spinta pulsionale lo porta ad avvicinarsi realmente all’altro. Inevitabilmente, però, qualsiasi sia la risposta dell’oggetto, essa è interpretata come un rifiuto, e si ha il rinnovo dell’offesa.

La seduta micropsicoanlitica di più ore consecutive, facilita la riattualizzazione dei vissuti nella relazione transferale. L’analizzato immagina di subire un rifiuto dall’analista ed evita a lungo di contattarlo per chiedere le sedute.

Quando finalmente riesce a farlo è un fiume in piena: rievoca tutte le perdite recenti, vissute narcisisticamente come rifiuti, le offese dell’infanzia e le relazioni primarie in cui riecheggia il non rispetto dei confini corporei vissuti come violenza. Violento è sempre un dettaglio di un’esperienza sensoriale vissuta passivamente: un abbraccio troppo intenso, un pizzicotto… Ma la seduta lunga e frequente consente di andare oltre; lo studio del materiale genealogico mette ancor più in evidenza la componente energetica e soggettiva del trauma che, come stiamo vedendo, non deve necessariamente avere i connotati di una violenza grave, dello stupro, dell’incesto, del tentato omicidio, ecc. L’attenzione alle storie familiari e del gruppo etnico di appartenenza, può mettere in evidenza condizioni ambientali, sociali o politiche di isolamento che hanno avuto un riverbero nella costruzione dei modelli relazionali familiari fin dai primi legami di attaccamento. La necessità di difendere l’incolumità propria e del gruppo da minacce esterne, può rendere poco disponibili al contenimento dei bisogni emotivi del bambino. Un pattern relazionale che potrebbe richiedere molte generazioni di assenza del trauma reale per poter essere modificato.

In termini micropsicoanalitici è più corretto parlare di coazione a ripetere filogenetica. Mi piace qui ricordare l’intervento di N. Peluffo al II Congresso SIM (Società internazionale di micropsicoanalisi ) nel 1987 in cui formulò l’ipotesi che l’insieme traumatico che mantiene la tensione della coazione a ripetere richiede alcune generazioni per esaurire la spinta energetica, aggiungendo che l’impresa micropsicoanalitica offre la possibilità, a chi ne fa esperienza, di riconoscere ed esprimere nell’attuale situazioni traumatiche altrimenti inesprimibili.

CONCLUSIONI

Se siamo d’accordo con quanto sostenuto da Anzieu (1984) circa il fatto che l’Io si esprime attraverso il corpo, possiamo anche accettare che il sintomo ipocondriaco sia trasversale, cioè che sia presente in diverse psicopatologie. Come abbiamo visto, alcune manifestazioni legate a situazioni contingenti, sono di facile remissione, altre invece, hanno origine in esperienze arcaiche che trovano rinforzo nelle ripetizioni filogenetiche. Si tratta di traumi senza memoria e senza parola. Come affrontare questi vissuti arcaici? Noi micropsicoanalisti siamo stati tra i primi a riconoscere l’importanza delle primissime esperienze a partire dalla vita intrauterina, dotandoci dell’allungamento della durata della seduta e della frequenza. Negli anni ‘70 i colleghi di altre scuole ci prendevano per matti. Negli ultimi anni, invece, sempre più spesso si parla dei vissuti iscritti nella memoria implicita, quella attiva prima dei due anni e l’attenzione è rivolta anche ad un cambiamento di approccio nella relazione analista/analizzato. S. Bolognini (2021) suggerisce che ci debba essere una “condivisione profonda del vissuto di impotenza che fu dell’infante e che è ancora all’interno del paziente…certi pazienti, (così come certi infanti) hanno un assoluto bisogno che l’oggetto sperimenti quello che essi provano, non solo che sia interpretato; non può esservi empatia psicoanalitica senza un grado misurato e parziale di condivisione”. Correale (2019) dice che i neurolettici non bastano, bisogna riuscire ad avvicinarsi e a condividere quella ipersensorialità del paziente. Del resto Fanti (1983) non mancava di sottolineare che la neutralità analitica non deve essere confusa con la freddezza, la distanza emotiva.

Pur riconoscendo le difficoltà contemporanee nell’applicazione del metodo micropsicoanalitico con le sedute lunghe e frequenti, desidero ribadire qui la sua efficacia. Assieme alla presenza empatica dell’analista, esso consente a questi pazienti di ripristinare quel grado di fusionalità necessaria a rispecchiarsi nella figura dell’analista e progressivamente a concettualizzare l’esperienza in oggetti riconoscibili, pensabili, esprimibili ed infine elaborabili.

© Bruna Marzi

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Bibliografia

Anzieu D. (1984) L’Io pelle, Raffaello Cortina, Milano, 2017.
Bolognini S. (2021) Inconscio nascosto, inconscio sepolto, inconscio implicito, Rivista di psicoanalisi, 2021, LXVII, 2, Raffaello Cortina ed. Milano
Correale A. (2019)Psicopatologia, farmacologia e neuroscienze: incontri possibili, Youtube. Ferenczi S. (1919) Psicoanalisi di un caso di ipocondria isterica, Fondamenti di psicoanalisi, III,125, Guaraldi, Rimini, 1974.
Freud S. (1887-1904): Lettere a Wilhelm Fliess 1887-1904, Boringhieri, Torino, 1986.
Freud S. (1914): Introduzione al narcisismo, in: Opere, vol.7, Torino, Boringhieri.
Fanti S. (1983) La Micropsicoanalisi, Borla, Roma.
Lysek D. (2016) a cura di. Le parole del corpo. Nuovi orizzonti della psicosomatica, l’Harmattan Italia.
Peluffo N. (1989) L’immagine filogenetica nella relazione transfert-controtransfert, in Dalla psicoanalisi alla micropsicoanalisi, a cura di V. Caillat & D. Vigna, Borla, Roma.
Zangrilli Q. (2001) Ipocondria: paranoia nel soma. www.psicoanalisi.it