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Tiger! Tiger! burning bright
In the forests of the night
What immortal hand or eye
Could frame thy ferful symmetry?

W. Blake, Songs of Experience

1. Nella vallata di Susfanna, a occidente dell’Atlante sahariano, una grande roccia a picco su un sepolcreto reca inciso un suggestivo bestiario. Vi compaiono, dall’alto verso il basso, un leone, alcuni elefanti, giraffe, bufali e antilopi. Il felino, che sovrasta tutti gli altri animali -e che per primo viene illuminato dal Sole nascente-, è l’unico a presentarsi col muso frontale. Cosa piuttosto rara nell’arte rupestre.

Lastra di Jaschu-Sahara-Atlante
Rilievo di Leo Frobenius

Le immagini zoomorfe delle culture preistoriche e arcaiche sono, infatti, per lo più di profilo o presentano una curiosa prospettiva ritorta: le corna di certi bovidi, ad esempio, possono essere frontali mentre la testa e il corpo sono di profilo. Certamente non mancano le eccezioni e queste riguardano soprattutto, anche se non esclusivamente, i felini. Già nella grotta paleolitica di Les Trois Frères, troviamo due leoni che guardano fisso negli occhi chi si inoltra nell’ultima sala del santuario sotterraneo.
È una particolarità destinata a ricorrere lungo tutto il corso della storia rappresentativa di questi animali. Dall’età antica all’età moderna, passando attraverso le belle iconografie del Rinascimento, gli occhi immoti di un numero infinito di leoni ci fissano, attraverso il tempo, dai bronzi degli scudi e dai marmi delle fontane, dai cotti degli edifici e dai fregi degli arazzi. C’è una ragione in tutto ciò? Alcune tribù africane raccontano che i leoni erano in passato uomini pazzi e selvaggi dediti al malocchio. Per questo era necessario, imbattendosi in uno di loro, coprirsi immediatamente il fallo per scongiurare che il loro sguardo potesse paralizzare quella sorgente di energia. Secondo i Borgu, se un cacciatore colpiva un leopardo, perdeva i genitali. È interessante, a questo proposito, il ricordo, ancora vivo presso alcune popolazioni fra il Niger e il lago Ciad, delle cerimonie rituali dei cacciatori Magussaua. Nel momento di passaggio dalla pubertà alla maturità, gli iniziati, che fino ad allora non avevano “conosciuto” la donna né erano andati a caccia, venivano condotti nel fitto della foresta. Qui si lasciavano andare a una danza frenetica ritmata da una musica ossessiva. A questo punto, sopraggiungeva un leone o un leopardo – un uomo mascherato da leone o da leopardo possiamo supporre – che azzannava i genitali dei giovani infliggendo delle piccole ferite e, in alcuni casi, la stessa perdita di un testicolo. Dopo questa prova, gli iniziati, tornati al villaggio, potevano finalmente andare a caccia e accoppiarsi. Presso le tribù dell’Adamaua, chi praticava la circoncisione portava una maschera di leopardo, mentre tra i Tschamba gli strumenti per questa operazione rituale erano conservati in una bisaccia ricavata da una zampa di felino. Il medesimo “rito di passaggio” prevedeva, in alcune tribù australiane, la presenza di un grande mostro divoratore dal “ruggito” spaventoso. Il rumore era, in realtà, provocato da uno strumento di legno il bull-roar, assai simile al rombo, che veniva fatto girare velocemente con una cordicella dagli anziani del villaggio. I giovani atterriti entravano nel ventre del “grande essere” che li attendeva con le fauci spalancate guardandoli fisso negli occhi. Solo in un secondo momento sarebbero ritornati alla vita. Ora, le fauci del mostro erano le porte aperte di una capanna nascosta tra il fogliame. Anche in questo caso, la circoncisione era considerata una “piccola morte”, mentre presso certe popolazioni africane il bull-roar, veniva chiamato “leone”. In tutti questi riti, pur lontani nello spazio e nel tempo, si viene, dunque, a creare una relazione stretta fra una creatura leonina e l’iniziazione alla sessualità, una iniziazione che implica un rito in cui si mescolano l’angoscia di castrazione e il potere perturbante dello sguardo frontale. Anche nell’antico Egitto, le cerimonie di circoncisione comportavano prove assai rischiose e l’uso della maschera per i sacerdoti. Non sappiamo se, alle origini, il travestimento avesse a che vedere con i felini, ma è interessante rilevare qui che, nelle più antiche culture della valle del Nilo, alla fine del periodo di Gerzeh, mentre il leone è del tutto assente dalle decorazioni vascolari, ricorre invece nei coltelli, come ad esempio, sul manico del coltello Carnavon, sul coltello Piett-Rivers o sul coltello di Brooklyn. Coltelli che possiamo ben associare a un uso rituale. Che nei riti africani la circoncisione fosse affidata a uno stregone-leone e in Egitto implicasse una pratica di mascheramento, fa correre il pensiero sia ai leoni frontali della Grotta di Les Trois Frères che a una delle più antiche statuette preistoriche, quella di Höhlenstein-Stadel.
Il corpo è antropomorfo ma la testa è di leone. Di che cosa si tratta? È un talismano? È la rappresentazione dello sciamano e della sua metamorfosi estatica o la materializzazione del suo animale custode? O è forse un’immagine legata ai riti iniziatici della pubertà e alle cerimonie di circoncisione? Di un certo interesse sono anche due incisioni del Paleolitico Superiore francese: una rinvenuta in Dordogna, nella Grotta di La Madeleine, l’altra nell’Ariège, all’interno della Grotta Maussat. Già Leroi-Gouhran le aveva avvicinate, indicandole come esempio di uno stesso motivo iconografico, rappresentato una volta in modo naturalistico e una volta in forma schematica.

Rilievi di Leroi-Gourhan

Secondo lo studioso francese, si tratterebbe del tema “dell’orso, del falco e della vulva” .
La difficoltà di lettura di queste incisioni ci suggerisce però anche un’ipotesi diversa, cioè che non si tratti della rappresentazione di un orso, ma di un leone. In questo caso, le fauci dell’animale avvicinate all’organo genitale maschile (Grotta di La Madeleine) e alla sua forma schematica (Grotta Maussat) potrebbero ben adombrare un antico rito di circoncisione. Molto suggestiva, anche se non possiamo dire fino a che punto pertinente con queste riflessioni, è la denominazione che nella Britannia antica aveva una divinità arcaica: Llew Llaw Gyffes, il Leone “dalla mano ferma”. È evidente che le ragioni di questo appellativo non rimandano necessariamente all’atto della circoncisione rituale anche se potrebbero giustificarlo. Dietro questa divinità si nascondeva probabilmente il dio goidelico Lugh che veniva chiamato in Irlanda “Lugh dalla lunga mano”, una divinità solare che aveva vinto gli “Africani”, primi abitatori dell’isola con una lancia che durante il combattimento emetteva terribili bagliori e potenti ruggiti. Questo “aiutante magico” che fa pensare alle armi degli antichi invasori dell’Età del Bronzo, potrebbe rimandare però anche a un contesto precedente, alle zagaglie dei cacciatori arcaici e ai loro riti d’iniziazione. Certamente siamo dinanzi, anche in questo caso, a espressioni cultuali diverse e lontane. Da una parte c’è l’Africa -il grande “paese dell’oro e della notte al di là del chiaro giorno della storia”, come scrive Hegel-, dall’altra ci sono le culture nordiche, nate fra i ghiacci e le tundre eurasiatiche, le stesse che hanno prodotto la statuetta leontocefala di Höhlenstein-Stadel.
Se procediamo però nel tempo, figure antropomorfe con la testa leonina e la spada affilata sono presenti nel pántheon anatolico, su quell’altipiano fertile che intratteneva, ancora in età protostorica, stretti legami con le zone caucasiche e danubiane e con le loro mitologie arcaiche e che è stato, da sempre, un grande ponte naturale con l’Africa.
Anche a Roma – ci informa Macrobio – Crono, il dio con la falce che “castra” il tempo, un dio che proveniva da oriente, era chiamato Deus leontocefalus.
Si tratta del Kronos mitraico rappresentato in piedi, col corpo stante, rigido e ieratico, le gambe strettamente unite e la testa di leone. Spesso è rappresentato fra le spire di un serpente e accompagnato da un pannello su cui figurano delle tenaglie. Da quali remote profondità del tempo vengono queste curiose connessioni? Si tratta forse di un’immagine ancestrale destinata a evocare, dopo millenni, nelle nostalgie misteriche di una Roma imperiale ormai laicizzata, l’archetipo della circoncisione e del travestimento leonino?
Tutto questo è ovviamente meno di un’ipotesi, ma forse più di una semplice fantasia. Certamente può apparire poco opportuno avvicinare simbologie che appartengono a culture così diverse ed è evidente che, in questo modo di procedere, le cautele devono superere di gran lunga ogni possibile suggestione.
Sta di fatto però che le iniziazioni degli adolescenti presso le popolazioni dei cacciatori-raccoglitori, dal Nord America all’Australia, dalla Terra del Fuoco all’Africa e all’Oceania, prevedevano una circoncisione rituale o comunque mutilazioni nelle zone genitali messe in relazione, per lo più, col graffio di un felino mentre, ancora presso molte culture “calde”, nelle loro fasi protostoriche, la lotta col leone – o il leopardo, o il giaguaro – aveva il significato di un’iniziazione rituale. Come scrive Eliade “la circoncisione simbolizza la distruzione degli organi genitali da parte di un animale Maestro d’iniziazione”.
Dunque un animale “maestro di iniziazione”, soprannaturale e carnivoro, uccide la sua vittima per poi farla resuscitare. L’iniziato che rinasce dopo la morte rituale riveste, in alcuni casi, la stessa spoglia dell’animale che lo ha restituito alla vita acquisendo, in tal modo, i tratti della vittima e insieme quelli del suo carnefice.
Siamo forse dinanzi alla ritualizzazione del desiderio proiettivo del cacciatore che attribuisce all’animale quel potere – di uccidere e richiamare alla vita- che vorrebbe detenere per sé allo scopo di garantirsi, in eterno, la sua riserva energetica? O per esorcizzare il suo ancestrale senso di colpa?
In età storica, questa stessa ritualità arcaica tenderà a riproporsi in forma eroicizzata. In diverse aree culturali, il giovane eroe inizia la sua carriera domando o uccidendo un leone. Pensiamo alla figura centrale dell’epopea babilonese, a Gilgamesh, il re semidivino che doma i leoni o al greco Eracle che fa della pelle del leone nemeo il suo trofeo e la sua caratterizzazione tipologica.
Le rappresentazioni di Gilgamesh del palazzo di Sargon II a Khorsabad ci mostrano l’eroe in piedi, che ci fissa intensamente mentre nella mano destra stringe un leone col corpo di profilo e il muso frontale e nella sinistra impugna un’arma tagliente e ricurva (harpe).
È Gilgamesh, il mitico re di Uruk, o il sacerdote che giunge per il rito antico? O è lo sciamano-leone che viene a uccidere la stagione dell’infanzia per inaugurare il tempo nuovo della giovinezza?
Anche nell’area ebraica, la lotta col leone doveva assumere una valenza particolare.
Davide prima di uccidere il gigante Golia aveva abbattuto numerosi leoni (Re 1,17), mentre Sansone aveva salvato il padre e la madre dall’assalto di un leone inferocito con la sola forza della sue giovani braccia, dilaniando poi e sbranando la fiera senza bisogno di alcun coltello (Giudici, 14).
Se allarghiamo ulteriormente il campo, arriviamo a consonanze ancora più azzardate, ma altrettanto suggestive in cui la lotta con il leone e il controllo dell’angoscia di castrazione, quel controllo che legittima il salto dall’infanzia alla maturità, sembrano coniugarsi in modo diretto.
Il dio Mitra, ad esempio, è spesso rappresentato con la testa leonina. Durante la celebrazione dei suoi misteri, gli iniziati portavano una maschera di cervo o di leone, mentre sugli affreschi che ornavano i Mitrei di Roma, il dio solare appariva nell’atto di uccidere il toro sacro Lunare al quale uno scorpione stringeva i genitali. Al di là di tutte le connessioni zodiacali che è lecito avanzare sulla simbologia di questi particolari edifici cultuali, torna qui di nuovo la relazione iconografica fra una figura leontocefala e la pratica della castrazione-circoncisione.
Anche in queste immagini, la caratteristica frontale dello sguardo permane, come frontali – nonostante il corpo sia di profilo – sono i leoni dei sarcofagi etruschi, degli stendardi di Ebla e dei fregi delle briglie degli Sciti. I leoni, dicevano gli antichi, attaccano a viso aperto, vis à vispotremmo pensare.
Un epiteto ricorrente del leone nella letteratura greca -a partire da Esiodo- è charopós, cioè “dagli occhi ardenti”. In un noto scritto del 1919, Freud, commentando un noto racconto di Hoffmann, riconduce la paura della perdita degli occhi all’angoscia di castrazione.
“Uno studio sui sogni, le fantasie e i miti ci ha insegnato che l’apprensione per gli occhi, la paura di rimanere ciechi, spesso è un sostituto della paura di castrazione” (Il perturbante).
Potremmo quasi pensare che lo sguardo frontale “balza agli occhi” e li cattura nel medesimo modo in cui la zampata improvvisa dei leoni africani aggredisce i genitali dei cacciatori e se ne impossessa.
La stessa schematizzazione grafica del volto umano in “occhi-naso”, assai presente negli stilemi iconografici del neolitico, sembra rimandare in maniera evidente ai genitali maschili secondo una tipologia ricorrente che evoca il volto della Gorgone, la dea nefasta “con la morte negli occhi”.
Del resto, una relazione stretta fra sguardo e perdita del fallo è presente nella curiosa leggenda intorno a Tiresia, l’indovino che divenne donna per aver visto due serpenti che si accoppiavano e per averne ucciso la femmina. Si tratta, come è noto, dello stesso Tiresia che rivela a Giocasta la verità su Edipo, l’eroe tragico vincitore della Sfinge. Questa “massa di libido incestuosa”, come Jung definisce il mostro egizio, con la sua terribile facies leonina, era infatti portatrice di morte, una morte che, come condizione d’impotenza radicale, poteva ben adombrare la fantasia estrema della castrazione.

2. Alla luce di queste considerazioni, andiamo a ritroso nel tempo fino a raggiungere le prime, favolose testimonianze delle nostre origini.
Il rapporto fra sguardo frontale, leone e sessualità è presente in una delle immagini più enigmatiche e suggestive di tutta l’arte preistorica. Siamo agli inizi del Paleolitico superiore nella Grotta Chauvet di Vallon Pont d’Arc. Scoperta nel dicembre del 1994, questa grotta francese che corre dentro la montagna per quasi cinquecento metri, modellata nella sua lunga storia geologica dalle acque dall’Ardèche, è straordinariamente bella: gigantesche colate di calcite bianca simili a immense meduse segnano l’imbocco di lunghe gallerie dalle pareti lucide e trasparenti come cristalli, mentre stretti corridoi si alternano a sale dalle grandi cupole fitte di concrezioni lattiginose e iridescenti nelle zone più vicine all’entrata, opache e striate di rosso-arancio nei drappeggi più interni.
Non sono però le particolarità naturali a fare di questo luogo sotterraneo un unicum magico e irreale, quanto piuttosto le testimonianze, al suo interno, delle nostre più antiche frequentazioni. Alla memoria geologica si mescola qui la memoria delle origini 1, di quel tempo remoto in cui insieme ai primi riti si sono plasmate le matrici della nostra spiritualità.
Dal piccolo mammut rosso, non lontano dall’ingresso, al gufo che pende dalla volta del corridoio centrale, fino ai rinoceronti e ai grandi felini neri dell’ultima sala, un gran numero di animali di ogni specie si affolla sulle pareti delle stanze più interne provocando in chi guarda un impatto emotivo forte.
Coi suoi oltre cinquecento dipinti, databili fra 32 e i 20 mila anni fa, la Grotta Chauvet doveva costituire, fin dagli inizi dell’aurignaziano, uno dei più antichi e importanti luoghi di culto di tutto l’occidente.
Lungo le gallerie e le volte, grandi immagini -per lo più dipinte, raramente incise- mescolano una gran varietà di animali: rinoceronti, leoni, orsi, cervi, mammut, cavalli, iene, renne si sovrappongono confusi in branchi o isolati nelle nicchie e sui pendenti naturali.
L’organizzazione spaziale di queste figure, apparentemente caotica, è destinata a ritornare nelle pitture successive caratterizzando lo stile compositivo di tutta l’arte visiva paleolitica: gli animali vivono in queste profondità senza tempo creando -in chi guarda- l’effetto illusionistico di un’immersione mimetica in un branco selvaggio. Di molti è abbozzata solo la testa, di altri sono accennate soltanto alcune parti del corpo.
Questa “incompiutezza delle forme”, una particolarità già sottolineata da Leroi-Gourhan, accresce -e non diminuisce- l’effetto di realtà dell’insieme. In particolari condizioni di illuminazione, il “non finito” concorre a potenziare il dinamismo vitale delle figure: lo sguardo scorre con maggior velocità sulle rappresentazioni incompiute che sembrano muoversi con la stessa rapidità dell’occhio.
Ma questa caratteristica formale racchiude probabilmente un senso più profondo. Sulle pareti di argilla, lungo le protuberanze della roccia, più che “incompiuti” gli animali paiono sul punto di uscire dalle cavità sotterranee o di rientrarvi attraverso le crepe e le fenditure.
Prima ancora dell’atto del dipingere, doveva essere la fantasia visionaria dei nostri progenitori a scorgere nelle morfologie di questi ambienti minerali straordinariamente belli la curva cervico-dorsale di un bisonte, l’avantreno di un cavallo o le corna di un bovide.
Custodi di culti ancestrali legati forse ai misteri della morte e della rinascita, le antiche grotte dovevano presentarsi, fin dagli inizi, come i magici luoghi dei grandi incontri con gli esseri mitici.
A questi primi appuntamenti col divino, si recavano probabilmente individui particolari, in particolari momenti della loro storia o della storia del loro gruppo.
Una traccia di queste discese magiche nelle profondità della terra -e insieme dell’anima- è ancora lì, intatta nei millenni, in attesa delle nostre domande.
Si tratta delle impronte di uomini e di animali ancora visibili sul terreno di calpestio preistorico, orme di adulti ma anche, in molti casi, di adolescenti.
Nella Grotta Chauvet, le uniche tracce umane finora rilevate sono quelle di un bambino (o di una bambina) fra gli otto e i dieci anni. È una testimonianza commovente.
Possiamo ancora seguire il suo percorso, con la torcia in mano per farsi luce nel buio: una luce di fiamma che doveva accendere sulle pareti il sortilegio di uno schermo di ombre semoventi e nella fantasia lo scenario irreale di presenze arcane. I passi ci indicano ancora la strada: dalla “Gallerie del Crosillones” coi suoi cavalli incisi verso la “Salle di Crâne” dove un cranio d’orso era deposto in modo intenzionale su una sorta di altare di pietra.
“La piste des empreintes humaines suit un passage obligé où la voûte se relève sensiblement. L’efant y a régulièrment mouché sa torche au-dessus de son chemin. Ces marques charbonneuses, datées de 26.000 ans, paraissent intentionnellment placées à rebours du sens du cheminement, à la façon d’un balisage de retour “. 2 Era forse in queste sale interne, claustrofobiche e insieme fascinose, che era necessario apprendere da un maestro d’iniziazione, forse mascherato, i misteri della sessualità? Era in questi luoghi sotterranei che un rito doveva incidere sul corpo fisico per poter aver effetto anche sul corpo sociale?
Dalle grotte in cui erano entrati bambini, gli iniziati ne uscivano maturi per la caccia e la procreazione, due momenti essenziali della sopravvivenza, così terribilmente uniti dalla stessa angoscia di morte e dallo stesso desiderio di rigenerazione. Nella sala più interna della grotta Chauvet – la Sala del Fondo- proprio dinanzi a una fitta schiera di leoni, su un pendente roccioso che si innalza a 1,20 m. dal suolo, uno strano essere ibrido e cornigero guarda di scorcio la parete dipinta che ha dinanzi. Alcuni lo hanno chiamato lo Stregone della Grotta. Colpisce il suo occhio dalle pupille tonde come ocelli di insetto.
Il suo corpo, tozzo e ricurvo, è vagamente antropomorfo. La testa, con le corna frontali, sembra quella di un bisonte.

Stregone della Grotta
Grotta Chauvet

” Cet être occup tout l’espace disponible et fait face au grand panneau. C’est lui que l’on voit en premier lorsque l’on arrive dans la salle. En avant du corp a été peint une sorte de trianagle plein, pointe vers le bas, à base fortement concave, soulignée d’un trait. Cet exstraordinaire personnage ne manque pas d’évoquer les “sorciers” des Trois- Frères dans l’Ariège et de Gabillou en Dordogne “. 3
In effetti, questa figura ibrida e gibbosa – troppo animalesca per essere umana, troppo umana per essere animale- sospesa tra una animalità non ancora oltrepassata e una umanità non ancora dispiegata, sembra emergere dagli abissi più bui dell’anima, prototipo di tutti quegli infiniti demoni destinati a dominare il nostro immaginario per migliaia di anni, giungendo, attraverso una fitta schiera di diavoli, spettri e coboldi, fino ai nostri incubi moderni. Le più recenti ricerche hanno evidenziato la complessa figurazione che orna i quattro lati del pendente. La documentazione fotografica finora fornita non ci pone però in grado di coscere il quadro preciso delle linee e delle sovrapposizioni; mancano ancora gli elementi necessari per una ricostruzione attendibile dei segni e questo rende particolarmente difficoltosa una analisi indiretta fondata, per forza di cose, sul materiale visivo messo attualmente a disposizione degli studi. 4
Alcuni dati appaiono però chiari. Per prima cosa, il carattere fallico del pendente istoriato che viene a trovarsi proprio dinanzi a una cavità della roccia la cui forma rimanda, in modo inequivocabile, all’apertura vaginale. La casualità di questo accostamento isomorfo deve aver contribuito a far assumere a questa zona della grotta una valenza del tutto particolare. Alla destra della cavità si trova un bisonte frontale mentre sulla sinistra una teoria di leoni pare uscire dalla fenditura.
Se poi concentriamo l’attenzione sulle immagini del pendente -almeno su quelle visibili all’entrata della sala- queste sembrano dare vita a una sorta di enigmatica metamorfosi visiva, potremmo quasi dire a una anamorfosi, osservando le linee da angolature diverse e sotto diversi tagli di luce.
Il profilo dell’ibrido viene a formare, con la sua linea curva, la gamba destra di una figura femminile “incompiuta” di cui sono evidenti solo gli arti inferiori allungati sotto un grande triangolo pubico, sfumato e fortemente naturalistico. Le forme opulente dei glutei e delle cosce che vanno assottigliandosi verso le caviglie presentano la medesima deformazione delle Veneri dei siti gravettiani europei, dalla Spagna alla Francia, dalla Germania alla Russia.
Delle statuette femminili a tutto tondo -che venivano probabilmente conficcate nel terreno forse nelle zone perimetrali delle capanne- questa immagine dipinta ha la stessa particolarità: i piedi sono assenti.
È probabile che, in questa distorsione ottica, il corpo antropomorfo dell’ibrido venga a delineare, proprio sotto il triangolo scuro, una lunga mano dalle dita affusolate.
” Le bras est humain, prolongé par une main avec de longs doigts qui pendent vers le bas “. 5
Se così effettivamente fosse, non potremmo non pensare qui al valore magico-sacrale degli antropomorfi “dalle grandi mani” delle incisioni rupestri successive o alla dimensione “manipolativa” di certi riti di passaggio e di iniziazione alla maturità sessuale.
Ora, l’ambivalenza visiva di queste figure, distinte ma nello stesso tempo mescolate, non si esaurisce in questa suggestiva fusione di forme maschili e femminili, animalesche e umane, ma si sviluppa verso la parte alta del pendente, in una nuova evoluzione di linee che viene a formare una figura autonoma, forse dipinta successivamente.
Certo non riusciamo a comprendere le ragioni di queste complesse intersecazioni, ma non è irrilevante costatare che questa terza figura, che allungandosi raccoglie e unifica sotto di sé la Venere e l’ibrido, è quella di un leone.
Del resto, molti sono i felini rappresentati nella grande parete che fronteggia il pendente: leoni in corsa, straordinariamente potenti, carnivori, portatori di morte, ma destinati anche a popolare l’immaginario di una cultura arcaica in cui la morte non segnava la fine assoluta, ma la condizione prima di rigenerazione della vita. Qui il circolo sembra chiudersi in un coerente significato.
Siamo dunque dinanzi al grande archetipo della iniziazione, alla simbolica di un rito ancestrale -di circoncisione o di deflorazione- in cui la sessualità si coniuga con la morte e la rinascita?
Certamente quanto detto sopra non consente deduzioni così azzardate, ma non è forse casuale che, ancora nei Bestiari medioevali la presenza del leone sia legata al tema della morte e alla rinascita.
In queste grandi visioni allegorico-simboliche del mondo, i medioevali attribuivano al leone tre abitudini curiose: quella di cancellare con la coda le sue orme, quella di dormire con gli occhi aperti, ma soprattutto, quella paradossale di “venire alla vita”morto.
Quando la leonessa partorisce i piccoli – si legge nel cosiddetto Bestiario di Leningrado 6 – questi nascono morti; essa li veglia finché dopo tre giorni sopraggiunge il padre, che alitando sul loro muso, li riporta in vita. La chiave interpretativa di questa strana dinamica va, come è noto, ricercata nella valenza cristologica di questi straordinari codici medioevali..
Il leone è il simbolo della natura divina di Cristo rimasta sempre intatta sebbene il suo corpo sia stato messo in croce. Come i piccoli del leone dopo tre giorni dalla morte rinascono, così Cristo –il leone spirituale- risorge riportato alla vita dal Padre dopo tre giorni dalla crocifissione. Dunque, di nuovo il leone è accostato al tema della morte e della rinascita. È indubbio che la distanza che separa la spiritualità cristiana dalle prime ritualità delle grotte è abissale.
Eppure non sembra del tutto fuori luogo valutare l’eventualità che ci si trovi, anche in questo caso come già in altri, dinanzi alla migrazione di un archetipo figurativo che da remote lontananze temporali è potuto giungere, attraverso i secoli, fin alle soglie della modernità caricandosi, in questo lungo percorso iconografico, di valenze simboliche nuove, ma conservando una sua sostanziale solidarietà col significato originario.

© Gabriella Brusa-Zappellini

Note:

1 Emmanuel Anati, Origini dell’arte e della concettualità, Jaca Book, Milano1988.  torna su!
2 Michel-Alain Garcia, Les empreintes et les traces humaines et animales, in A.a.V.v., La Grotte Chauvet. L’art des origines, sous la direction de Jean Clottes, Paris, Seuil 2001; pp. 36-37.  torna su!
3 Chauvet J.M, Brunel-Deschamps E., Hillaire C., La Grotte Chauvet à Vallon-Pont-d’Arc, Postface par J.Clottes, Paris, Seuil, 1995.  torna su!
4 A.a.V.v., La Grotte Chauvet. L’art des origines, op.cit.  torna su!
5 Yanik Le Guillou, Les représentations humaines, in A.a. V.v. La Grotte Chauvet..., op.cit.p.170.  torna su!
6 Codice conservato presso la Biblioteca Pubblica di San Pietroburgo, composto da novantun fogli di pergamena rigida (20 x 14,5 cm.), scritto nei caratteri gotici della seconda metà del XII secolo – con 114 miniature, rilegato in 15 fascicoli.  torna su!