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Presentato al XXII Valcamonica Symposium “L’arte rupestre nel quadro del Patrimonio Culturale dell’Umanità”.
Darfo Boario 18-24 maggio 2007.
Pubblicato sui Pre-atti editi dal Centro Camuno di Studi Preistorici

Introduzione

S. Freud definì la psicoanalisi una combinazione tra metodo d’indagine dell’apparato psichico e metodo terapeutico per curare le nevrosi.  Se in un primo tempo il suo interesse fu concentrato sulla cura dei casi di isteria e dementia praecox, successivamente rilevò che gli stessi meccanismi psichici presenti nei pazienti nevrotici o psicotici, che erano alla base della formazione dei sintomi, erano riscontrabili, sebbene in grado diverso, pure  nei sogni, nei lapsus e negli atti mancati delle persone normali.
La psicoanalisi divenne così uno strumento d’indagine e d’interpretazione di molte altre manifestazioni dell’agire dell’uomo e tra queste l’arte, la poesia, la religione, i fenomeni sociali.
Inoltre, la psicoanalisi rintracciò nella vita psichica del bambino, le tracce di quella dell’adulto ed estese il campo d’interesse ai primordi della civiltà, individuando nell’ontogenesi la ripetizione in forma abbreviata della filogenesi dell’uomo. Tutto ciò valse a
Freud l’appellativo di “archeologo della psiche”.
Ho fatto questa breve introduzione per rammentare l’origine delle affinità tra il lavoro degli archeologi e quello degli psicoanalisti e per dare una semplice spiegazione del perché, tra consensi e dissensi, esiste tra queste due discipline un proficuo spazio di confronto.
Ovviamente la condizione necessaria affinchè il confronto sia produttivo consiste nella reciproca accettazione dell’alterità che, per usare i parametri della psicologia cognitiva, equivale al passaggio dal linguaggio egocentrico a quello socializzato e pertanto allo sforzo di trovare uno strumento di comunicazione condivisibile.
In psicoanalisi, questo passaggio richiede il superamento di una resistenza che avviene (non sempre) grazie all’instaurarsi, nella relazione analitica, di un transfert positivo. In caso contrario, qualsiasi scambio o acquisizione avrà il carattere temporaneo della compiacenza formale, dettata dalle regole della buona educazione.

La collaborazione ormai consolidata tra il Centro Camuno di Studi Preistorici e l’Istituto Italiano di Micropsicoanalisi, nata dall’incontro tra il Professor Anati ed Il Professor Peluffo, che ha dato vita in questi anni a frequenti momenti di confronto, in occasione di Convegni a carattere nazionale ed internazionale, è la dimostrazione dei vantaggi dati dal superamento di posizioni narcisistiche.

Esposizione

Nella pratica clinica, ho potuto verificare che, per alcune persone (non solo bambini), è particolarmente difficile, se non impossibile, seguire la regola delle libere associazioni. In questi casi il superamento di posizioni narcisistiche e quindi la comunicazione del materiale preconscio/conscio, deve necessariamente passare attraverso un supporto percettivo come le fotografie e/o espressioni di tipo grafico come  disegni, piantine, diari, ecc.
Le riflessioni che vorrei condividere riguardano l’origine e la funzione delle rappresentazioni grafiche, nell’ipotesi che ci sia una relazione tra quelle prodotte dai nostri antenati e i disegni studiati dagli psicoanalisti nei loro laboratori.
Scrive Malde Vigneri: “La domanda che lo studioso deve porsi non deve riguardare la sopravvivenza in sé di ciò che è passato, ma vedere come una sopravvivenza rivive… Ciò diviene particolarmente condivisibile per i prodotti artistici.” (1)
L’interpretazione delle iscrizioni rupestri ha condotto gli studiosi di varie discipline a formulare ipotesi sui possibili significati, rintracciando stili di vita, abitudini, abilità pratiche e capacità cognitive.
Tra le tante ipotesi, in alcuni psicoanalisti si è fatta strada l’idea che le tracce lasciate dai nostri antenati rispondessero al bisogno, precipuo dell’essere umano, di differenziarsi dal resto dell’ambiente, inclusi gli altri primati ed i suoi simili; uno strumento per lasciare delle tracce riconoscibili da se stessi e dagli altri.
Scrive N. Peluffo: “Un’ipotesi che non mi dispiace è certamente quella che ha a che fare con i processi defusionali che portano al riconoscimento di se stessi come entità separata da altre simili o diverse. Per esempio, la mia mano impressa sulla parete mi permette, in un mondo senza specchi, di riconoscerla e di paragonarla con quelle degli altri per fattura e dimensioni. In un mondo in cui la sensibilità, la percezione, la motricità e l’azione, sono i principali metodi cognitivi, mi dà la possibilità di conservare in un luogo che conosco la mia “fotografia”. Io-mano sono nella caverna.”(2)
E’ interessante notare come lo stesso tema dell’impronta della mano come segno identificativo sia ripreso nelle leggende e nelle favole.
Citerò alcuni esempi. Uno lo troviamo sulla costa Tirrenica meridionale a Gaeta nella “Montagna spaccata”. La credenza popolare fa coincidere il fenomeno tellurico, che creò la profonda fenditura della roccia a picco sul mare, con la morte di Cristo.  Su uno dei lati della roccia si scorgono cinque solchi: “l’impronta di una mano”. Un’iscrizione in latino rammenta la leggenda secondo la quale un turco, sentendo attribuire lo squarcio della montagna all’intervento divino e non credendo al miracolo, avrebbe appoggiato con disprezzo la mano alla pietra. Allora per nuovo prodigio, la mano del miscredente vi sarebbe “affondata” lasciandovi l’impronta.
E che dire poi della mano di Fatima, un monile in filigrana d’argento o d’oro, diffusissimo in Oriente ed ispirato alla leggenda della figlia di Maometto che, addolorata per il tradimento del marito, mise distrattamente la mano nell’acqua bollente.
In entrambi i casi suddetti la mano dovrebbe simbolicamente rappresentare la traccia di un evento traumatico: il terremoto ed il tradimento.
Pochi anni fa la Disney Production ha prodotto un cartone intitolato “Coda fratello orso” ambientato alla fine dell’era glaciale che, in estrema sintesi, racconta la storia di un clan e del rapporto tra l’uomo e l’animale/totem. Anche qui, in alcune immagini del film in cui sono rappresentate le incisioni delle mani sulle rocce, ritroviamo il riferimento ai meccanismi di separazione/identificazione: i ragazzi, nel rito di passaggio all’età adulta, lasciavano la loro impronta sulla roccia per sancire la loro identità di uomini e distinguersi dal mondo animale.
Una notte dello scorso anno, a Bergamo, un adolescente ha tappezzato la città con impronte di mani, realizzate con una bomboletta spray rossa. Il giovane teppista arrestato ha confessato il fatto, ma nessuno, probabilmente neppure lui stesso, è riuscito a capire il senso di quel gesto. Un modo per segnare il territorio (“la città è mia”) o la traccia di un tentativo di ricerca della propria identità?

La nascita biologica non corrisponde temporalmente a quella psicologica che richiede dei requisiti ed un certo lasso di tempo durante il quale si svolge il processo di “separazione/individuazione”.
I pionieri della psicoanalisi infantile e tra questi M. S. Mahler(4), sostengono che tale processo avviene tra il 4/5 mese di vita ed il 36° e procede attraverso l’esperienza del proprio corpo e quella del corpo della madre fino alla costituzione di un’identità personale dotata di caratteristiche proprie. Sul piano percettivo la mano è senz’altro la prima parte del corpo che il bambino inizia a percepire fin dalla vita intrauterina, prima attraverso la suzione e poi lo sguardo.
Lo psicoanalista, soprattutto se lavora con bambini ha spesso l’opportunità di osservare le produzioni artistiche dei suoi pazienti.
Il disegno ha una parte di primo piano sia in fase diagnostica che durante la psicoterapia perché, quanto più il bambino è piccolo, tanto più esso costituisce il canale privilegiato di comunicazione del proprio mondo interiore.
In una raccolta di disegni dei suoi piccoli pazienti, intitolata “Chi sono io?” Masal Pas Bagdadi(5) scrive: “Paragono il disegno infantile al sogno. Come il sogno non ha attinenza con la realtà anche se prende spunti da essa…i bambini non riproducono la realtà esterna ma quella interna…spinti dalla curiosità di conoscersi…”.

Come già accennato, talvolta anche in adolescenti o adulti, a causa di inibizioni nell’ espressione del pensiero in forma astratta, il materiale grafico può costituire lo strumento principale di cui dispone lo psicoanalista, per stimolare la proiezione di quelle sfaccettature poliedriche che compongono l’Io della persona e facilitare la ricostruzione/re-introiezione di un’immagine più integrata.
E’ il caso di Valentina, una giovane studentessa universitaria, che trascorse diverse sedute accovacciata in un angolo dello studio chiusa in atteggiamento diffidente ed oppositivo.
Un giorno mi disse che si aspettava da me una spiegazione del perché lei avesse sempre disegnato cavalli. Spontaneamente le offrii il materiale per disegnare, fornendo ad entrambi uno strumento di comunicazione che avrebbe scavalcato l’intralcio costituito dal linguaggio. Sebbene non avesse mai frequentato una scuola d’arte, la ragazza mostrava di avere un certo talento artistico. Il soggetto prediletto e che riusciva a rappresentare meglio, era proprio il cavallo, mentre aveva difficoltà nella figura umana, fatta eccezione per quelle che non avevano un connotato francamente sessuale, come i personaggi leggendari o le immagini sacre.
Viene spontaneo il riferimento alla successione temporale con la quale compare la figura umana nel disegno dei bambini e nell’arte rupestre. E’ possibile che negli scarabocchi dei bambini di due/tre anni ci sia già un tentativo di rappresentare parti del proprio corpo o del corpo della mamma, ma affinché esso diventi un qualcosa di identificabile come figura umana, dovrà passare ancora qualche anno e l’acquisizione di un maggiore controllo della motricità fine.
Secondo i criteri diangostici del DSM IV, la mia paziente era portatrice di un disturbo schizotipico di personalità; aveva scarse relazioni sociali, un comportamento eccentrico con posture e sguardo che scoraggiavano l’approccio. Riferiva strane esperienze percettive (pseudo-allucinazioni), difficilmente descrivibili sul piano verbale che facevano pensare a  stati oniroidi. Talvolta assumevano connotati riconoscibili. Si trattava di immagini idealizzate che assumevano alternativamente carattere rassicurante o persecutorio; su di esse Valentina vincolava la sua sessuo-aggressività.  Poterle disegnare in seduta consentì alla ragazza di dar loro una rappresentazione tangibile e quindi di poter identificare una sfaccettatura del proprio Io.
Consegnarle all’analista sul piano grafico o verbale, ha forse la stessa valenza che aveva per gli artisti nostri antenati, incidere in una grotta le proprie immagini.  Lì, al sicuro dagli agenti atmosferici, si conservavano intatte e nei momenti di depersonalizzazione potevano consentire il confronto.
Valentina, infatti, dopo una lunga interruzione del lavoro analitico, tornò a vedere i suoi disegni, in un momento in cui il disturbo di personalità aveva assunto la forma del dubbio sull’identità sessuale.  Nel disegno, oltre al cavallo, si sforzava di rappresentare il suo ideale dell’Io sotto sembianze umane. Si trattava di un’immagine ibrida tra l’uomo e la donna e lo definiva “butch”. Il termine, derivante dalla parola inglese “butcher”, che vuol dire macellaio, è usato da certe associazioni di donne omosessuali, per fare riferimento ad un tipo di maschio molto forte, con capelli a spazzola e l’aspetto del Marines.
Il lavoro sui disegni, congiuntamente a quello sulle fotografie, consentì la rievocazione di  ricco materiale infantile. Sin da piccola Valentina era stata ossessionata dal dubbio sull’identità sessuale e sulle sue origini. Pensava che se fosse stata davvero figlia di sua madre avrebbe dovuto essere maschio. I personaggi delle sue fantasie, oggetto di identificazione, erano eroi delle fiabe, dei romanzi letterari, dei testi e delle immagini sacre. Il protagonista della sua favola preferita si chiamava Valentino, che sul suo cavallo alato salvava un villaggio dalla minaccia di un’enorme balena e sposava la principessa.
Il confronto tra i disegni di questi eroi, dei cavalli e le fotografie che ritraevano la nonna di Valentina, rivelarono somiglianze impressionanti. I suoi disegni erano la testimonianza dei tentativi di identificazione con l’immagine di un personaggio dell’infanzia al quale  Valentina attribuiva le doti della persona forte, invincibile, detentore della verità e della giustizia.
Con molta probabilità, la situazione psichica della ragazza traeva origine da un evento traumatico che aveva segnato la famiglia: diversi anni prima della nascita di Valentina, sua madre aveva dato alla luce una bambina morta subito dopo il parto. Il fatto era diventato un segreto di cui non si poteva parlare, ma continuava a gravare come senso di colpa sulle donne della famiglia. Una specie di fantasma errante di un defunto in cerca di degna sepoltura. Non a caso la neonata morta non aveva ricevuto il rito funebre.
Valentina, nata alcuni anni dopo, si sentiva come il povero Edipo, l’involontaria responsabile di un omicidio e l’usurpatrice di un posto che non le spettava. La fantasia di essere un maschio le consentiva di cancellare con un colpo di spugna il grave misfatto; la realtà della sua identità di genere la metteva di fronte al senso di colpa e al fantasma della castrazione.
L’oscillazione tra le due posizioni ed il dubbio assillante sulla sua identità trovavano brevi ma benefici momenti di tregua quando Valentina riusciva a produrre un disegno sufficientemente simile al suo ideale.

Conclusioni

Scrive Anati che con la comparsa del Sapiens, l’uomo divenne anche artista ed aggiunge: “….quella di produrre arte non è solo una capacità, ma piuttosto un’esigenza della natura stessa dell’uomo”. Nel novero delle esigenze l’autore cita quella di lasciare tracce,  quella di soddisfare un bisogno psico-fisico di scarica, quella di comunicare.
Lo psicoanalista, nel suo lavoro può riscontrare la veridicità e l’attualità di queste affermazioni.
Nell’esposizione del materiale clinico ho cercato di dimostrare che, fatta eccezione per i bambini, il ricorso alle espressioni grafiche (disegni, diari, poesie), è possibile quando l’accesso al linguaggio è reso difficoltoso da fissazioni a fasi precoci dello sviluppo.
In questo senso il disegno avrebbe la funzione di sanare una ferita: estroflettere l’Io parcellizzato e re-introiettare una struttura più unitaria.

© Bruna Marzi

Bibliografia:

E. Anati, 1995, “Origini dell’arte e dellla concettualità: alcune considerazioni”, Valcamonica Symposium, CCSP.
S. Freu , 1974, “Sulla psicoanalisi”, Opere Vol VI, B. Boringhieri, Torino
M. S. Mahler, 1978, “La nascita psicologica del bambino”, Boringhieri, Torino.
Malde Vigneri, 2005, Psicoanalisi e preistoria in “ Il centro dell’uomo”, a cura di François Sacco Georges Sauvet,  Flaccovio Editore, Palermo.
Masal Pas Bagdadi, 2006, “CHI SONO IO? La ricerca dell’identità attraverso ildisegno”, Franco Angeli, Milano.
N. Peluffo, 2004, “Memoria e arte preistorica”, in atti del XXI Valcamonica Symposium, CCSP,  Capo di Ponte.