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Parecchi anni prima che il fenomeno migratorio verso l’Europa assumesse le caratteristiche attuali di spostamento di grandi masse, avevo iniziato a lavorare, seppur sporadicamente, con persone di altre nazionalità, grazie ad una buona conoscenza di alcune lingue straniere. Fin da giovanissima, infatti, la pulsione epistemofilica si era manifestata attraverso la spinta a viaggiare ma, fino a quando per età e condizioni economiche non mi fu possibile farlo, la pulsione trovò un oggetto utile alla distensione, nello studio delle lingue, prima quelle tradizionali, il francese e l’inglese e poi il russo. Si era trattato di un buon adattamento che, successivamente, nell’incontro con la psicoanalisi, si espresse nell’indagine sulle vicende esistenziali dell’uomo e le sue basi istintuali. Come ci ricorda N. Peluffo, per la micropsicoanalisi l’Istinto di tentativo è il motore che spinge gli animali e tra questi l’uomo, a fare per cercare di diseccitarsi e abbassare la tensione. Questo fare può essere di carattere motorio e/o ideativo: l’uomo si sposta, e pensa. L’attività motoria nel bambino è indice di intelligenza: nella fase senso-motoria, per l’appunto, egli esprime la curiosità, il desiderio di conoscenza, attraverso il movimento ed il contatto con l’oggetto da conoscere. Questa curiosità, scrive Anati, ha spinto l’Homo Sapiens a spostarsi per scoprire nuovi paesaggi e territori, riuscendo, in questo modo, anche a trovare modi e luoghi più adatti alla sopravvivenza.
Va detto che l’Italia non ha mai brillato nell’insegnamento delle lingue straniere, a differenza di altri paesi europei, per secoli possessori di vasti imperi coloniali, come la Francia, l’Inghilterra e la Spagna. Basti pensare che l’inglese entrò in fase sperimentale in alcune scuole primarie all’inizio degli anni settanta; fino ad allora la lingua straniera era il francese.
L’incontro con la psicoanalisi, ma soprattutto nello specifico con la micropsicoanalisi, costituì il connubio ideale tra pulsione viatorica e pulsione epistemofilica. (Gerand Haddard definisce con il termine “pulsion viatorique” la pulsione fondamentale dell’uomo, quella di camminare e quindi viaggiare. Citato da N. Peluffo nello scritto “Le steli e i santuari come palcoscenico delle manifestazioni dell’immagine”). Innanzitutto, per fare le sedute fu necessario spostarmi dal mio luogo di residenza a quello/i del mio psicoanalista; una particolarità del tutto micropsicoanalitica che, a prescindere dalla necessità (irreperibilità di micropsicoanalisti nella propria città), prevede, in alcuni casi, la possibilità di spostamento dell’analizzando e talvolta anche dell’analista: una condizione che consente di limitare al minimo le interferenze dell’ambiente familiare e lavorativo (certo, nell’era di internet non è esattamente così) e stimola l’instaurazione del transfert. Lo spostamento dello psicoanalista, invece, oltre a facilitare lo svolgimento della micropsicoanalisi a persone che, per ragioni lavorative o familiari, non possono allontanarsi dalla propria città, consente all’analista di conoscere l’ambiente in cui l’analizzato ha vissuto e vive, le tradizioni e le usanze di una determinata etnia. Nella mia esperienza professionale, la plasticità del modello micropsicoanalitico che consente, in alcuni casi, di prendere in analisi più membri della stessa famiglia, ha stimolato alcune riflessioni sulla relazione tra soggetto e ambiente, tra traumi etnici e coazione a ripetere filogenetica.
Pur non essendomi mai dedicata allo studio dell’etnologia, fin da giovane avevo iniziato a chiedermi quali fossero le caratteristiche del popolo russo che avevano consentito la sopportazione, apparentemente passiva, di così tanti soprusi e sofferenze. Successivamente, una volta iniziata l’attività clinica, mi sono interrogata sulla possibile prevalenza di alcune forme psicopatologiche. Infine, mi sono trovata a confrontare il quadro teorico di riferimento e la tecnica micropsicoanalitica, con il contesto sociale e culturale russo, nel quale lavoro da diversi anni, sia come psicoanalista che come libero docente in alcune università della capitale.
A mia insaputa, mi sono trovata sulla stessa strada di quegli psicoanalisti che, già ai tempi di Freud, e alcuni da lui stesso stimolati (primo fra tutti Geza Roheim), lasciarono il proprio studio, per intraprendere un viaggio che aveva lo scopo di verificare l’attendibilità delle ipotesi freudiane sul trauma originario, espresse in Totem e Tabù e in Sintesi delle nevrosi di traslazione. Con l’unica differenza, a mio parere di non poco conto, che io mi ero dotata preventivamente dello strumento comunicativo: la lingua di quel popolo che ho cercato di conoscere, muovendomi e ascoltando le storie delle persone che, nelle lunghe sedute di micropsicoanalisi, hanno ricostruito le vicende esistenziali personali e della propria famiglia. In questo modo ho potuto verificare che i conflitti psichici, dai quali scaturiscono le sintomatologie, traggono origine da serie traumatiche individuali, connesse a vicende filogenetiche, a loro volta intrecciate con le vicissitudini del popolo.
Per riflettere sulle mie esperienze “etnopsicoanalitiche” faccio riferimento agli scritti di N. Peluffo e soprattutto alle elaborazioni di M. Tartari, sulla definizione di cultura. Tartari si situa nella tradizione etnopsicoanalitica che considera la cultura un sistema difensivo. Per Tartari il tema della cultura “comporta un’attenta analisi di concetti limitrofi, quali quello di trasmissione filogenetica, di trauma ed infine di realtà psichica”. Tartari intende la cultura: “…come una sedimentazione di esperienze pulsionali, le quali lasciano le loro tracce nella dinamica psichica degli investimenti-disinvestimenti …”. “La mia ipotesi – sostiene l’autrice – è che esistano insiemi difensivi, che in ultima analisi sono dei nuclei rappresentazionali-affettivi specializzati, stabilizzati all’interno di un dato gruppo umano, i quali possono venire riattivati nell’ontogenesi degli individui al fine di arginare i conflitti psichici.
Questi insiemi difensivi culturali caratterizzano in un senso o nell’altro certe etnie; avremo così delle culture a forte impronta iniziatico – anale, altre a forte impronta orale-depressiva, nel senso che queste culture condividono un patrimonio di difese relative a quelle specifiche fissazioni. All’interno di ciascuna cultura, ogni individuo elabora in modo specifico i propri conflitti in armonia o discordanza dal proprio patrimonio etnico.” Il concetto che esprime Tartari demarca un’interazione tra traumi ontogenetici, filogenetici e traumi etnici.
Alla luce di queste premesse passo ad esporre la mia esperienza sul campo, partendo da due elementi: un film ed un’usanza avvalorata, o forse non contrastata, dalla legislazione vigente.
1. “L’ironia del destino” è un film sovietico molto famoso, tuttora estremamente popolare.
2. In Russia è molto semplice cambiare nome, patronimico e cognome, non è richiesta alcuna motivazione, né documentazione particolare.
L’ironia del destino è una commedia tragicomica, apparsa sugli schermi televisivi il 1° gennaio 1976. Il film ebbe immediatamente un successo straordinario; ci furono 100 milioni di telespettatori e già il mese successivo lo rimandarono in onda. Si potrebbe dire che la sua popolarità fosse dovuta all’esiguità della scelta: a quei tempi in Unione Sovietica (ma non solo lì) non c’erano tanti canali e l’alternativa avrebbe potuto essere, al limite, un film sulla Grande Guerra Patriottica!
In quel periodo ne furono prodotti molti che venivano regolarmente proiettati sia sul piccolo che sul grande schermo. Ciò nonostante, sarebbe riduttivo ritenere che i film patriottici avessero solo uno scopo propagandistico; piuttosto bisogna ricordare la portata traumatica che la seconda guerra mondiale ebbe per il popolo russo, quello tra tutti che ebbe il maggior numero di vittime tra militari e civili: morirono (wikipedia) 26 milioni di persone (circa 10 milioni di militari e 15 milioni di civili) 90 milioni furono i feriti, dei quali 28 restarono invalidi. A questi vanno aggiunti 1.700.000 morti per le repressioni di Stalin che videro l’apice tra il 37 e il 43. Eventi traumatici di portata colossale, che s’inseriscono nella serie dei traumi sofferti dal popolo russo.
Il film ruota attorno a due personaggi: Jenia di Mosca e Nadia di Leningrado che si conoscono casualmente la notte dell’ultimo dell’anno. Jenia, è un ragazzo, non più imberbe, nonostante abbia superato la trentina, è ancora un bambinone, impacciato con le donne che non si decide a chiedere in sposa la sua fidanzata. Nadia, il personaggio femminile, è malinconica, ha un aspetto rassegnato, ha avuto una lunga relazione con un uomo sposato ed ora sembra non credere più nella possibilità di vivere una storia d’amore a lieto fine. Entrambi i personaggi vivono in casa con le rispettive madri.
Si tratta di una situazione assolutamente tipica. I russi sono “figli delle madri” da generazioni: rivoluzioni, guerre, deportazioni, genocidi e alcolismo sono stati la causa di perdite immense di uomini o del loro allontanamento per lunghi periodi, durante i quali le donne/madri hanno dovuto provvedere alla sopravvivenza della prole. Il tema è trattato da un altro film sovietico dal titolo “Senza padre”.
Per riuscire a fare un tentativo di differenziazione/separazione, Jenia dovrà ubriacarsi e finire, per sbaglio, su un aereo che lo porterà da Mosca a Leningrado, cioè, dovrà allontanarsi dalla mamma.
la sera dell’ultimo dell’anno, Jenia va a fare la sauna con i suoi amici e qui bevono fino ad ubriacarsi.
A proposito della piaga dell’alcolismo, desidero ricordare che secondo i dati dell’OMS 2000, un russo su cinque muore per problemi legati all’abuso di alcolici, 20 milioni di russi sono alcolizzati, su una popolazione complessiva di 140 milioni.
A oggi, ci sono state solo due campagne anti-alcol di una certa ampiezza in Russia, entrambe durante l’Unione Sovietica, una sotto Lenin e l’altra con Gorbaciov.
Malgrado i tentativi di Gorbaciov, alla fine dell’era sovietica l’alcolismo era un fenomeno ancora ben saldo.
Dopo la caduta dell’Unione Sovietica, fu abrogato il monopolio statale sugli alcolici e i russi sono diventati il popolo più alcolizzato del mondo.
Jenia, non è un bevitore abituale, fa parte di quel restante 80% della popolazione che prende sbronze occasionali. Completamente ubriaco s’imbarca quindi al posto di un amico sul volo per Leningrado e qui finisce a casa di Nadia che abita in un quartiere assolutamente identico al suo di Mosca, nella stessa via, allo stesso numero civico, in un condominio e appartamento altrettanto identici. Anche la serratura di casa è uguale, e così pure il mobilio. Jenia non ha difficoltà ad entrare, si butta sul letto e si addormenta.
Fin dalle prime battute il regista sottolinea ironicamente gli aspetti della realtà sovietica e le caratteristiche dei personaggi: nelle scene introduttive, una voce fuori campo illustra lo sviluppo edilizio, assolutamente identico, di tutte le città. Senza contare le case di coabitazione: un piano di politica economica che se da un lato aveva garantito a tutti un alloggio, aveva comportato un appiattimento delle differenze individuali e il soffocamento della creatività. Si era trattato di una vera e propria crociata per indurre ad uno stile di vita più comunitario, facendo scomparire gli spazi e le proprietà individuali. (Orlando Figes, 2002 La danza di Natashia. Storia della cultura russa XVIII-XX secolo, Torino: Einaudi).
Tuttavia, negli anni ’70, dopo essersi un po’ ripresi dalle grandi perdite della guerra, delle persecuzioni e delle carestie, la gente iniziava ad essere insofferente all’omologazione e all’annullamento di ogni individualità: le persone, cercavano come potevano di caratterizzare il proprio appartamento o la camera (se vivevano in coabitazione con altre famiglie), il cappotto o il colore dei capelli, con qualche piccolo dettaglio che gli desse quel tocco di diversità che consentiva di distinguersi dalla massa indifferenziata. Un’analizzata, ripercorrendo la sua adolescenza, ricordava il piacere di indossare un paio di stivali polacchi che sua madre era riuscita miracolosamente a procurarle. Non comprare, bensì procurare, il verbo russo è “dostatz”, che ben indicava le difficoltà della vita quotidiana del popolo e lo stato della produzione e della distribuzione all’epoca dei piani quinquennali, anni in cui, viceversa, noi vivevamo il boom economico.
La massa, scriveva Freud, (S. Freud, 1921 Psicologia delle masse e analisi dell’Io) “è un’entità provvisoria, costituita da elementi eterogenei, saldati assieme per un istante”. In essa c’è l’appiattimento della personalità e l’assenza della coscienza di sé. Uno stato di tipo ipnotico, in cui, alle spinte verso l’indifferenziazione si alternano spinte alla differenziazione/individuazione.
Il destino ironico e beffardo di cui tratta il film, è quello dei personaggi, ma al contempo dell’intera popolazione, ed è per questo motivo che esso riscosse tanto successo e continua ad essere popolare. Esprime contenuti conflittuali che appartengono al popolo russo e consentono l’identificazione da parte degli spettatori: la spinta ambivalente verso la differenziazione/omologazione, fusione/defusione, manifestazioni dell’eterna oscillazione tra pulsione di vita e pulsione di morte, o per dirla in termini fantiani, tra il vuoto e la sua organizzazione energetica.
Il conflitto, quindi, potrebbe risiedere proprio nel desiderio ambivalente di differenziarsi.
E del resto, almeno dai tempi di Pietro il Grande (fine 1600) i tentativi di affermare la propria identità e supremazia in tutti i campi, sono sempre andati di pari passo con altrettanti tentativi di omologarsi alla cultura, lingua, e stili di vita europei. Il tutto accompagnato da un vissuto di inferiorità, mal celato dietro l’orgoglio nazionalista.
Il secondo punto mi conduce nel vivo della pratica clinica.
Il cambio del nome è una difesa a cui hanno fatto spesso ricorso le persone per nascondersi, per mettersi al riparo da discriminazioni e persecuzioni. Sul territorio della ex URSS gli ebrei e gli armeni. La stessa cosa è successa agli ebrei italiani, tedeschi, polacchi durante gli anni della dittatura nazi-fascista: per nascondersi e per tentare di cancellare il trauma delle persecuzioni e del genocidio, cercarono di cambiare la propria identità modificando il cognome.
In Russia è tuttora in uso che le donne prendano il cognome del marito. Spesso lo mantengono anche dopo aver divorziato, pur in caso di un altro matrimonio. Sui documenti ufficiali, eccetto l’atto di nascita, risulterà il cognome acquisito. Ma il cambio di nome, patronimico e cognome è un vero cambio di identità, le cui motivazioni consce non sono sufficienti a spiegarne la valenza, oltre a lasciare irrisolto il conflitto inconscio che soggiace alla decisione.
Nastia presentava un profondo nucleo abbandonico. Aveva cambiato nome, patronimico e cognome, perché la famiglia del suo ragazzo non avrebbe mai acconsentito al matrimonio del figlio con una ragazza di etnia e religione diverse. Ciò nonostante, per restare in quella situazione doveva continuare a fingere con i parenti e con sé stessa, di essere un’altra persona, rinnegando la sua identità e la famiglia d’origine. Nelle prime sedute le associazioni oscillavano costantemente tra l’idea di mantenere la famiglia e quella di divorziare.
Il lavoro analitico, in particolare con il supporto tecnico della ricerca genealogica, portò Nastia a ricostruire le vicende di 4 generazioni e a riconoscere che la decisione di cambiare nome era stato un tentativo di riparare la serie ripetitiva di traumi filogenetici che potremmo riassumere con l’espressione “perdita del padre”. A sua volta questi traumi sono intrecciati con le vicende storiche e i traumi etnici.
Seguendo questa linea, il primo trauma ontogenetico fu la perdita del padre, quando Nastia aveva pochi mesi. A quei tempi i genitori si separarono e il padre di Nastia tornò a vivere nella città d’origine che si trovava in un’altra Repubblica dell’Urss, a qualche migliaio di km di distanza. La bambina non lo rivide, finì per crescere con la nonna, perché la giovane madre era occupata a cercare un altro partner con cui condividere l’esistenza. Del resto, il destino di Nastia non era dissimile da quello di sua nonna e come lei stessa riconobbe, solo l’analisi l’aiutò a non cadere nel gorgo della coazione a ripetere, che aveva portato le donne ad affidare i figli alle proprie madri.
I trisnonni di Nastia erano ebrei benestanti. Si trasferirono dal Caucaso occidentale nell’estremo oriente siberiano all’inizio degli anni ’30 per sfuggire alla terribile carestia che colpì le zone di produzione del grano dell’URSS e portò alla morte milioni di persone. Tra le vittime anche le due sorelle della trisnonna di Nastia.
Inoltre, in quegli anni il movimento di colonizzazione di quelle terre lontane dell’Urss era promosso da Stalin che incentivava il trasferimento degli ebrei russi, garantendo loro il trasporto e la terra, con il duplice scopo di liberarsi di soggetti scomodi e popolare quelle zone di confine del Paese, sempre minacciate dai confinanti cinesi e dalle mire espansioniste dei giapponesi. Gli ebrei in un primo tempo aderirono volontariamente al trasferimento nella regione di Birobizhan della Siberia orientale, con la speranza di poter avere una loro autonomia, di poter professare la cultura e la religione senza dover sottostare alla pressante assimilazione agli ideali sovietici.
Speranze che s’infransero presto: nel 1937/8 vennero chiuse dal governo tutte le principali istituzioni ebraiche e il trasferimento degli ebrei nella Siberia orientale non fu più su base volontaria. Si andò delineando una fase di deportazione in un vero e proprio ghetto a 6.000 km di distanza dal cuore politico dell’Urss. Gli anni del terrore non risparmiarono neppure queste terre lontane. Particolarmente invisi erano gli ebrei più benestanti: il trisnonno materno di Nastia fu deportato in un lagher in Kamciatka. Ma la storia delle perdite traumatiche non si ferma qui: il bisnonno materno morì durante la seconda guerra mondiale e la bisnonna, rimasta vedova con una figlia (la nonna di Natia) decise di risposarsi. Il padrino non amava la figlia di primo letto della moglie e fu così che la bambina, (la nonna di Nastia) finì per crescere con sua nonna.
A sua volta, la nonna di Nastia ebbe in prime nozze una figlia (la mamma di Nastia), ma dopo pochi anni si separò dal primo marito e la bambina perse i contatti con il padre, non lo rivide mai più. Anche lei finì per essere affidata alla nonna. Da questa ricostruzione lo stesso identico destino si è ripetuto per 4 generazioni.
Generazioni segnate dalla perdita degli uomini, di figli che hanno perso i padri, esattamente come per i personaggi del film “ironia del destino”.
Il cambio del nome è senz’altro la manifestazione di una difesa dall’aggressore: il soggetto si camuffa per non farsi riconoscere. Nastia doveva camuffarsi per compiacere il partner e la sua famiglia e scongiurare così la ripetizione dell’abbandono (CAR filogenetica). Al contempo, l’agito manifestava il diniego di appartenenza alla propria genia, attraverso cui si esprime il riconoscimento della propria identità. “Il nome, come l’immagine, è il sostituto interiorizzato del rapporto con l’oggetto” scrive Peluffo, “L’immagine del nome è come l’immagine del corpo, una fotografia…basta cambiare il nome di una persona per avere l’illusione di cambiare l’anatomia e il destino”.
Si esprimeva così il conflitto tra il desiderio di riparare il trauma ontogenetico e filogenetico fondendosi in una nuova famiglia, e quello di affermare la propria identità.
“Il trauma”, scrive Peluffo, “richiede più generazioni per esser abreagito…” “…l’ipotesi è che la coazione a ripetere si costituisca su brevi periodi (alcune generazioni) che sono (forse) il limite di durata della spinta energetica (fonte pulsionale filogenetica) dell’insieme traumatico che mantiene la tensione della coazione a ripetere”.
Le riflessioni di Peluffo sulle interazioni genetiche soggetto ambiente, mi consentono un’ulteriore riflessione. Nello scritto citato egli afferma: “…nell’interazione a caso dei tentativi genotipici, bisogna anche considerare la fenomenologia esterna e cioè che ammettendo metaforicamente che anche l’ambiente abbia le sue costituenti genetiche e che queste costituenti materiali abbiano un loro dinamismo che si muove a caso, qualora lo studio si concentri sui comportamenti umani siano essi fisici o psichici, sarà inevitabile constatare che gli accadimenti fenotipici sono regolati dal duplice dinamismo genotipo/ambiente….Se trasportiamo il ragionamento nel campo della psicopatologia, il discorso diventa: vi sono delle situazioni ambientali che sopportano e controllano meglio di altre le manifestazioni fenotipiche del genoma che trasmette delle informazioni che possono fare insorgere la necessità di adattamenti alterati.”
Le situazioni ambientali includono le grandi catastrofi che colpiscono la popolazione con portata traumatica.
E’ mia convinzione che alcune popolazioni siano più “sfortunate” di altre, sia per questioni geografiche che storiche e che l’incessante ripetizione di eventi traumatici a cui è stato sottoposto il popolo russo, rinnovi e rinforzi la potenza dei traumi ontogenetici, rendendo difficile l’abreazione e l’eliminazione della CAR individuale o familiare.
Come diceva l’analizzata a proposito della ripetizione attuale di un evento di carattere persecutorio “la paura di essere spiati, controllati ed arrestati, è una profonda paura nazionale, sempre presente durante gli anni dell’URSS ed ancor prima. Essa è diventata un patrimonio filogenetico ed ogni volta che si ripete una situazione simile, si riattiva l’angoscia persecutoria”.

© Bruna Marzi