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estratto dalla relazione presentata al VI Congresso Nazionale della Lega Italiana Salute Mentale Donna, Roma, aprile 2001

“Farmaco ladro!” griderebbe Malena una grande maniacale così spesso ospite del nostro reparto.
Non lo fa perché ha trasformato l’imprecazione in lode al suo psichiatra di fiducia che continua a farle sospendere le terapie farmacologiche: “mi ha salvato dalla depressione!”, declama.
E ciò è vero! Sostituendo al farmaco quelle brevi e fluttuanti presenze che alcuni chiamano in gergo “psicoterapia”, la donna è stata salvata dal vuoto divoratore al quale il paziente bipolare sfugge con la ricerca della maniacalità.
La sospensione della terapia farmacologica (e di qualsiasi altro intervento) libera Malena da quell’insopprimibile tormento del rapporto col vuoto: il senso d’inutilità, la distanza dal mondo; le riapre l’accesso ai colori della mania, alla pienezza di sentirsi l’unica, la più desiderabile, la più desiderante; la rende all’anelito continuo, teso a un appagamento peraltro irraggiungibile, l’espone ai rischi di chi non può valutare i limiti delle situazioni, alla guida in stato di ubriachezza, agli incidenti, alla frequentazione forsennata di emarginati, al ridicolo sul posto di lavoro, al susseguirsi dei ricoveri. La respinge nella malattia.
Il prologo, deliberatamente paradossale, ma fedele ai dati clinici, non vuole perdere di vista l’oggetto di questo scritto: il disturbo del pensiero a contenuto delirante, individuato fra gli altri della sfera psicopatologica, sia perché comune a molte forme morbose, sia perché accompagnato quasi sempre (e in particolare nelle fasi floride) a quel catastrofico corollario della psicosi che è l’incoscienza di malattia.
Occorrerebbe soffermarsi un momento su questo fenomeno con il quale conviviamo abitualmente e che determina gran parte delle quotidiane attività dello psichiatra clinico.
Il fatto che il paziente (schizofrenico, tossicodipendente, maniacale, alcolista, depresso grave, demente, oligofrenico, caratteropatico) si trovi spesso a non avere coscienza di essere malato, lo espone a situazioni di grave rischio, può necessitare di cure obbligatorie stabilite per legge, invalida molti trattamenti, anche se correttamente avviati.
“Mentre salivo la scala, vedendo il ballatoio dell’altra rampa, ho pensato che potevo arrivarci con un salto…no, le droghe non c’entrano niente, voi dottori tirate sempre fuori ‘sta storia”.
“Quando sono fatta, sento il respiro della natura, sento l’anima della foresta, gli gnomi dei boschi…le droghe sono sostanze naturali che l’uomo ha sempre usato, mi fanno stare bene e posso lasciarle quando voglio”.
Questo è materiale di due giovani tossicodipendenti ascoltati in sedi diverse: il primo era in rianimazione, politraumatizzato dopo aver fatto un volo di circa 5 metri e vivo per miracolo; la seconda era in seduta, alla prima tranche di micropsicoanalisi dopo che aveva interrotto gli studi e viaggiava sfiorando il carcere per i suoi comportamenti sociopatici.
Potrei fare esempi di pensiero delirante con completa o parziale incoscienza di malattia in ognuna delle patologie precedentemente citate, ma sarebbe tediante;
sottolineo soltanto lo stretto rapporto fra il materiale e le definizioni classiche di delirio:
– “falsa credenza…insorta senza motivazione adeguata, conservata malgrado le evidenze, non accettata dagli altri membri della cultura o subcultura del soggetto” (Hinsie-Campbell)
-”Convinzioni erronee che di solito comportano un’interpretazione non corretta di percezioni o esperienze” (DSM IV)
-”Opinione sostenuta e mantenuta dalle percezioni deliranti e dalle intuizioni deliranti persistenti”. Esso insiste su uno “stato d’animo delirante”, un campo di preparazione” che può essere sinistro”, mentre “la percezione delirante può colmare di felicità” (Snheider).
La definizione micropsicoanalitica apre alla spiegazione dinamica e alla possibilità d’interpretazione definendo il delirio come una rottura con la realtà esterna in cui l’io e il Super-io sono agiti dal binomio es-inconscio. Il delirio è inteso come manifestazionedella psicosi. In tal senso esso non sfugge alla funzione ben nota in semeiotica: il sintoma è un segnale e non la malattia, pertanto esso non va eliminato tout court, ma interpretato.
Esattamente come quando, nel corso del tirocinio di chirurgia, si era diffidati dal sedare un dolore addominale prima di aver fatto la diagnosi, se non si voleva rischiare di mandare in peritonite un’affezione appendicolare.
Ma lo psicotico acuto può arrivare in un tale stato di marasma somatopsichico da dover essere sedato: egli rifiuterà le cure, non solo al primo approccio, ma ancor più ai successivi, dopo aver provato l’effetto della “camicia chimica’. Occorreranno più giorni perché si faccia spazio una relativa adesione alle cure ricevute e la tendenza a rifiutarle sarà in agguato. Insomma, particolarmente, se in assenza di interventi integrati, la sospensione delle cure incombe e la ricaduta è un dato statistico rilevante: colpisce il 10% a un mese dalla sospensione e il 50% a sei mesi.
“Mi hanno portato qui che stavo bene, mi sentivo un leone e ora non ce la faccio più a camminare!” A queste proteste di primo impatto, se la dimensione di ascolto ha luogo, si aggiungono altre osservazioni: ”Prima di venire in ospedale che stavo male, è vero, vedevo che tutti ce l’avevano con me, ma era anche bello: ero al centro dell’attenzione, un complotto internazionale era ordito per uccidermi…ero importantissimo”.
Si avverte qui che il malato attraversa alcune fasi in cui si sente privato del suo delirio che lo fa sentire importante, al centro dell’attenzione, depositario di messaggi intergalattici o oggetto di un amore totale.
Il delirio, cioè, diventa un oggetto d’investimento e la relazione con esso viene erotizzata. Esso è anche un oggetto che non delude perché, in quanto prodotto del soggetto stesso, fatto a suo uso e consumo, si avvicina il più possibile alle esigenze dell’es.
Voglio subito precisare che non intendo sostenere la difesa di un disturbo tanto grave, invalidante e potenzialmente pericoloso per l’incolumità individuale; ritengo tuttavia che, data la sua funzione di segnale, bisogna guardare piuttosto al reale pericolo, a quello ‘stato d’animo delirante’ che può essere sinistro (vedi citazione precedente di Snheider) che costituisce il brodo di coltura del delirio propriamente detto, quello che “può colmare di felicità” (aut. cit.).
Mi esprimo con quello che ascolto riportando fedelmente materiale di una persona seguita in ambito istituzionale in un arco di tempo decisamente lungo (12 anni):
“Quando stavo male, quando entravo di notte in alberghi sconosciuti e gridavo che l’illuminazione della collina di fronte mi mandava messaggi illuminanti, che i responsabili dell’azienda emanavano onde elettromagnetiche che mi possedevano virtualmente… certo che stavo meglio… sì, quando mi metto a pensare, quei pensieri mi fanno compagnia, mi spiegano le cose…Sto meglio quando sto peggio…La follia è quando uno fa cose di cui è veramente convinto…Ora rifletto sulla mia vita: non ho un lavoro, non ho un compagno, i figli sono cresciuti lontano da me… che sarà quando moriranno i miei genitori?…”
Sono delle amare considerazioni di realtà, traccia del malessere che, quindici anni prima, aveva caratterizzato la fase prodromica.
Da qualche mese la stessa persona è entrata in terapia con antipsicotici cosiddetti atipici abbandonando con fatica la vecchia cura, ma intensificando i colloqui di supporto.
Rispetto ai neurolettici incisivi, ad azione prevalentemente antidopaminergica sui recettori nigrostriatali, le molecole di nuovo impiego sono più selettive per quelli mesolimbici e questo permette una minor incidenza di effetti collaterali sgradevoli, già essi stessi occasione di scarsa adesione ai protocolli.
L’impiego degli antipsicotici atipici, più modulanti e più attivi anche sui recettori della serotonina e sulle interazioni fra i due ceppi recettoriali, determina, in alcuni casi, anche un cambiamento del materiale di seduta, un suo arricchimento potenzialmente utile alle elaborazioni successive.
Il caso di poc’anzi dichiara di essere cambiato: “sa, io me ne accorgo, ma se ne accorgono anche a casa che sono più attiva e reattiva…non faccio mica la matta!… qualche volta mi è capitato di contraddire le affermazioni degli altri…prima non avevo pareri, cioè i miei pareri erano troppo distanti e non mi interessavano…ho un po’ ritrovato me stessa prima della malattia. Ho quasi paura a dirlo…”
Così parla la donna, che io ho ascoltato per qualche centinaio di ore. L’ascolto odierno mi fa fantasticare sulla guarigione, concetto ben distante dalle malattie croniche, ma questo caso, come anche qualche altro, sembra molto vicino a una stabilizzazione di benessere.
Da queste esperienze si può considerare che lo psicotico esprime, con il delirio, il tentativo di ristabilire un ponte sul baratro fra sé e la realtà. Demolire chimicamente questo “presidio” senza offrire un’ampia dimensione di ascolto ed elaborazione è una perdita che respinge il tentativo indietro, verso il recupero del sintoma. E’ quello che fanno i tossicodipendenti che abusano di sostanze dopaminergiche (vedi cocaina): ogni volta si avvicinano al delirio per stare bene e qualche volta possono strutturare una patologia virtualmente sovrapponibile alla schizofrenia paranoide.
Quelli che si sono giovati di un intervento così integrato e dell’impiego di molecole meno incisive e più modulanti aderiscono meglio al trattamento ed evitano le ricadute: sembrano, insomma, essere candidati ai migliori risultati terapeutici.

© Gioia Marzi