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Nel film “Manuale d’amore 2” si assiste a una scena di sesso fra un giovane temporaneamente handicappato ed una giovane in buona salute. L’occasione ha aperto un dibattito mediatico che, trascurando alcuni aspetti troppo riduttivi per un problema così delicato, ha posto l’accento su uno degli ultimi tabù: la sessualità nei portatori di handicap.

In questo lavoro, elaborato prevalentemente su dati clinici, mi soffermerò sulle difficoltà determinate dalla maturazione psicosessuale di questi soggetti e sulle difficoltà di adattamento dei gruppi nei quali sono inseriti, cioè, in genere, delle famiglie.
In base all’inadeguatezza del processo maturativo, è possibile accogliere, sotto la definizione di handicap, quei disturbi solitamente diagnosticati per la prima volta nell’Infanzia o nella fanciullezza, ivi comprendendo anche quelli secondari a danno neuromotorio o psicosensoriale, che hanno avuto un’incidenza nello sviluppo successivo del soggetto con esiti psicopatologicamente diagnosticabili.
Nello sviluppo fisiologico, come nei soggetti portatori di handicap, “la maturazione biologica spinge il giovane a rivivere in forma abbreviata ma violenta tutto il suo sviluppo psicosessuale e aggressivo, dalla nascita fin verso i sei-sette anni, cioè sino al periodo in cui entra in latenza” (Peluffo).
Il completamento dello sviluppo psicosessuale, che costituisce il crinale dell’adolescenza, ripropone le problematiche di differenziazione-identificazione e i fantasmi dell’Edipo. I tentativi di elaborazione della tensione che ne deriva debbono fare i conti con due meccanismi specifici: la rimozione e la fissazione, un travaglio che dura anni già in condizioni fisiologiche. Ma in quei soggetti, i cui strumenti percettivi e cognitivi sono deficitari, e i meccanismi di difesa solo parzialmente efficaci, si verificheranno difficoltà molto maggiori nel rispondere alla tensione innalzata dai desideri sessuali e dalle difficoltà ralazionali incontrate nel tentativo di soddisfarli. Su questi temi, il portatore di handicap incontrerà una serie di problemi di non facile soluzione e rischierà di scompensarsi sotto la spinta delle esigenze della sessualità la cui meta resta l’abbassamento della tensione (cioè il piacere) attraverso la soddisfazione del bisogno-desiderio di penetrare-essere penetrato e di riprodursi.
“Mi piace la sessualità degli handicappati“ dice un’analizzata che, per varie circostanze della vita , ha dovuto occuparsi del problema, “perché è più semplice”.
Queste parole esprimono l’idea di una sessualità più diretta e primaria, che tende, quindi, a rimanere fissata ai primi oggetti d’investimento e mantiene una connotazione endogamica, potenzialmente incestuosa.
La fissazione alle fasi precoci e alle immagini più arcaiche, con frammentaria strutturazione della relazione d’oggetto, può attivare atteggiamenti regressivi anche nei familiari che hanno la cura di questi soggetti, in genere un genitore o altro congiunto stretto.
La dipendenza del bambino deficitario tende a non risolversi o a procedere più lentamente e il genitore o educatore affrontano, non senza difficoltà, il persistere della condizione di dipendenza: non di rado capita che l’ambivalenza o la tendenza a prolungare il legame di possesso filiale siano ancora più accentuati nel caso di figli portatori di handicap.
Entrano in gioco in queste variabili di rapporto, l’Edipo, elementi sado-masochistici, la relazione simbiotica e fusionale: come dire le espressioni più dirette degli stadi classici dello sviluppo psicosessuale e dello stadio iniziatico.
Un esempio emblematico del persistere della relazione simbiotica madre-figlio è questo primo caso, K., una cerebropatica grave, che vive materialmente abbarbicata alla madre.
Durante le sporadiche e mal tollerate visite dei Servizi, richieste solo nella prospettiva di qualche vantaggio economico, si presentava una situazione gravissima: la paziente emetteva grida disperate, si lanciava sull’estraneo strappando quello che poteva, afferrando arti, vesti e quanto a sua portata con forza e tenacia, senza mollare; la madre cominciava una lotta per liberare il malcapitato dalla morsa della figlia. Eppure il rifiuto di una qualsiasi terapia farmacologica era totale: per la madre le medicine facevano male, perché sopivano la ragazza che dormiva nel suo letto e dipendeva in tutto da lei. Una notte però la situazione divenne, se possibile, ancora più grave e intervenne il Servizio di Emergenza che portò K. al suo primo ricovero in ospedale. Era accaduto che la sorella, anche lei minus, fosse rimasta incinta a seguito di una relazione con un bracciante extracomunitario che il padre aveva assunto al podere per un lavoro stagionale. L’evento aveva rotto un precario equilibrio nella famiglia composta dai genitori e dalle due figlie e distratto la madre dal vincolo con K.: questo aveva immediatamente riverberato sulle condizioni della poveretta. Ma il ricovero fu brevissimo: la madre non accettava di lasciar la paziente in ospedale, pretendeva di accudirla e il richiamo alle regole del reparto la faceva infuriare. All’indomani accusò i medici di averle drogato la figlia, rifiutò la proposta di inserimento in una comunità specialistica per la riabilitazione dei pazienti gravi, pretese ed ottenne le dimissioni della paziente che, peraltro, non era considerata caso da trattare in psichiatria se non per la gestione dell’acuzie.
L’esempio rappresenta un bel paradigma di quella stretta dipendenza reciproca madre-figlio cronico, di cui scrive Andolfi.
Nella catastrofe di questa situazione si ritrovano molti degli elementi descritti nell’interessante raccolta di colloqui clinici di Carla Gallo Barbisio, ove sono illustrati limpidi e coscienti rapporti fusionali fra madri e figli handicappati.
Il prolungarsi delle cure materne di tipo simbiotico, assimilabili a quelle fisiologiche delle prime settimane di vita, ferma la genitrice ad una fase di recupero della fusionalità da poco interrotta dal parto e alimenta la necessità oblativa di prodigare le cure al figlio sfortunato ad aeternum. Poco contano considerazioni di realtà sull’onnipotenza o la caducità della vita: tali posizioni attingono a necessità profonde sulle quali decede ogni ragione.
Del resto, se l’autonomizzazione è questione macroscopica dell’adolescenza, nel caso dell’handicap, essa diventa anche più difficilmente raggiungibile quando i genitori e le altre figure che circondano il giovane disabile, continuano a prediligere atteggiamenti di eccessiva protezione che mantengono la subordinazione passiva del figlio.
Il soggetto rischia così di rimanere un eterno bambino: dipende economicamente dalla famiglia, è poco addestrato a gestire da solo il proprio corpo; può giocare, guardare molto la televisione e può anche studiare per passare il tempo (lo studio è visto per lo più come un’area di parcheggio e non un modo di prepararsi alla vita).
Vengono a cristallizzarsi relazioni di dipendenza che costituiscono talvolta delle vere reti attorno al paziente: se ogni tanto qualcuno si sottrae al giogo, ripartono i rinforzi autoaccusanti e la forma si ripete
Nel caso seguente, questo desiderio di possesso, si esprime con il tentativo di perpetrarsi anche nella seconda generazione.
Dopo molti anni, ho ritrovato la famiglia di due pazienti con deficit grave dell’udito; questo gruppo aveva orientato tutta la vita attorno al problema della sordità, mentre le due bambine seguivano un corposo iter riabilitativo diventando due giovani autonome, il padre, nullafacente, veniva seguito per 20 anni dal CSM per sfumati disturbi nevrotici, accuratamente enfatizzati al fine di ottenere, come accadeva ancora negli anni 80, piccoli sussidi economici che arrotondavano il bilancio. Era evidente che le due ragazze rappresentavano anche una rendita per la famiglia in cui nessun altro membro aveva un reddito congruo. Ma, quando una delle due si sposò e decise di andare a vivere nella città del marito, il padre si dichiarò nuovamente scompensato: “gli sfuggivano i nipotini” diceva. Il rapporto di possesso inelaborato, rinforzato dall’handicap e misurabile in termini economici non molla l’oggetto: piuttosto si sposta sulla seconda generazione, i nipoti. Si potrebbe parlare di tentativo di possesso trans-generazionale .
In un altro caso si evidenzia come, talvolta, il persistere di tracce delle regole del clan sia funzionale alla risoluzione del problema posto dalla sessualità di un figlio handicappato. Nei suoi studi sull’arte pittorica rupestre, Anati ha illustrato la funzione di sopravvivenza svolta dal clan nelle società di cacciatori-raccoglitori, 30.000 anni fa, come nella nostra era (almeno fino agli anni “70 del secolo scorso, in alcuni territori australiani). Un caposaldo delle regole di questo clan è l’endogamia: un passo indietro rispetto alle regole della società totemica descritta in Totem e Tabù, ove l’interdetto delle unioni all’interno del Totem sancisce l’orrore dell’incesto e l’esogamia.
Siamo dunque in una dimensione ordalica: piccolissimi gruppi costituiti da un maschio, tre o quattro femmine e prole si aggirano nutrendosi del raccoglibile. Non coltivano e cacciano pochi piccoli animali giacché la grande caccia necessiterebbe di un minimo di organizzazione.
Nella contrada dove si svolge la vicenda attuale, vanno a caccia solo in pochi perché uccidere gli animali è considerata inutile ferocia; il primogenito della famiglia in questione è un professionista ed ha uno studio altamente informatizzato, tre automobili e vari altri indici di modernismo. Ma l’endogamia, anzi, proprio l’incesto, è ancora una soluzione possibile, a portata di mano: e mi spiego.
Il terzogenito è un cerebropatico grave vissuto con intensa vergogna da tutto il gruppo e in particolare dalla madre che, di fatto, lo ha respinto installandolo a casa della nonna materna per tutta l’infanzia. La situazione è stata gestibile fino alla pubertà, quando il bambino, relativamente tranquillo, è diventato un uomo vorace e incontenibile. A questo punto l’anziana nonna non poteva più provvedere alle nuove necessità e il giovane è rientrato in famiglia dove, nel frattempo, era entrata in pubertà l’ultima figlia alla quale fu affidato il fratello malato: questi, occorre dire, non era mai stato trattato proprio per quell’onta da celare che aveva spinto la famiglia. a tenere il più possibile segreta la sua presenza. Era quindi un insufficiente mentale grave, non riabilitato. E faceva delle richieste sessuali esplicite a chiunque non fosse in grado di contenerlo, cosa non semplice dato lo straordinario sviluppo fisico post-puberale. La ragazzina doveva vestirlo, lavarlo, pulirlo e occuparsi di ogni altra sua funzione quotidiana: una situazione di esposizione alla richiesta incestuosa che non poteva essere ignorata dai familiari, e non lo era.
Trascurando, in questa sede, l’inalienabile ambivalenza, consideriamo il tacito consenso del gruppo a che la sessualità del malato si esprimesse senza scandalo in ambito strettamente familiare. Una serie di figure familiari andavano sacrificate per la protezione-gestione del membro sofferente e, dato che la madre si era in gran parte rifiutata (in questo il caso si differenzia dal primo presentato) si chiamavano in campo la nonna e, alla vecchiaia di questa, la giovane sorella. I cosiddetti spunti deliranti persecutori di questa, per fortuna in gran parte rientrati, riguardavano l’idea che i vicini e i familiari controllassero la sua condotta, le impedissero di avere una vita sentimentale, le precludessero la vita sessuale

Conclusioni

Come noto, in psicoanalisi, per processo primario s’intende il sistema inconscio di funzionamento secondo il principio di piacere e l’identità di percezione-realtà
Le situazioni cliniche esposte illustrano come, dal punto di vista del processo primario, i casi di soggetti portatori di deficit, originario o acquisito, siano sovrapponibili ai quelli non deficitari. Tuttavia le difficoltà di sviluppo determinano anche una diminuzione dell’efficienza dei meccanismi di difesa che, anche se con notevoli differenze da caso a caso, impediscono l’irruzione del primario nel secondario e quindi l’espressione di situazioni assimilabili alle psicosi funzionali.
Le rotture psicotiche dei soggetti portatori di handicap coincidono pertanto con il venir meno dell’abituale contenitore esterno (familiare, istituzionale o farmacologico) al quale è richiesto di vicariare le carenze dei meccanismi di difesa; nelle fasi, poi, in cui le esigenze del processo primario sono più pressanti, come nella crisi puberale, è ancora più facile che si producano delle vere sindromi psicotiche.
Si tratta di episodi di scompenso acuto da affrontare come le psicosi acute anche se la loro risposta ai comuni trattamenti può essere meno pronta ed efficace che nelle forme puramente funzionali. Notiamo, a margine, che il loro decorso è più assimilabile, per gravità e per anomalie della risposta alla terapia farmacologica, alle crisi acute nei casi di intossicazione alcolica o da psicotropi.
Quanto al problema dei familiari, distinguerei gli adulti dai coetanei o fratelli minori del malato:
– i primi, se diamo per assunta la loro buona salute iniziale, nell’impatto con il primario possono essere esposti alla regressione che stimola specularmente la riattivazione di fantasmi silenti.
– nei bambini, con particolare riferimento ai fratelli, ma anche, talvolta, a congiunti più distanti, lo sviluppo può essere segnato dallo stimolo dell’irruento processo primario del portatore di handicap, analogamente a come accade per un complesso traumatico: si possono determinare perciò delle fissazioni potenzialmente influenti sul processo maturativo e con espressività psicopatologica a volte conclamata.

© Gioia Marzi

Bibliografia

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