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Introduzione

La cronicità è una condizione morbosa che si protrae indefinitamente nel tempo (dal latino chronĭcus, dal greco χρονικός, derivati di χρόνος, «tempo»). Una condizione patologica non guaribile ma suscettibile della conquista di uno stato di equilibrio più o meno stabile compatibile con una relativa fruibilità di vita. In medicina organica esempi calzanti sono la malattia diabetica, le malattie metaboliche, molte cardiopatie, la malattia reumatica.
Le malattie acute sono invece malattie che esitano in un sostanziale ristabilimento dello stato di salute pre-traumatico.

Per tantissimo tempo si è pensato alla psicoanalisi come ad una metodica terapeutica che ponesse fine ad uno stato di malattia: si pensava che una volta individuato il conflitto inconscio “es versus io”, liberate le cariche energetico-pulsionali incarcerate nel conflitto, il nodo patologico si sciogliesse e le energie vitali fluissero nell’Io, libere per nuovi, fisiologici, investimenti: “La dove era l’Es deve subentrare l’Io” (Freud, 1922)
In larga parte ciò è stato vero, poiché per decadi la psicoanalisi si occupò quasi unicamente delle normonevrosi, nelle quali con un trattamento oculato e profondo, si può accedere ad un nuovo equilibrio ove il sintomo non sia più necessario come difesa psichica.
Ma con la scoperta delle metodiche di psicoanalisi intensiva, la fece da pioniere la micropsicoanalisi, si vide che era possibile approcciarsi a patologie prima di esclusiva pertinenza psichiatrica e psicofarmacologica: alcune psicosi di fresca insorgenza e gli stati border-line di personalità.

Questi pazienti, con un trattamento intensivo, sovente quotidiano, riuscivano a scoprire e rivivere nuclei traumatici veramente molto arcaici con scioglimento di deliri e spettacolari miglioramenti clinici. 
 Furono le innovazioni tecniche della micropsicoanalisi che offrirono la possibilità di recuperare tracce traumatiche risalenti al periodo intrauterino e di poterle, in parte, sciogliere. Come ci ricorda Daniel Lysek in un magistrale studio pubblicato sulla Rivista “Psicoanalisi e Scienza”: “certe esperienze del feto sono memorizzate perché riecheggiano con esperienze simili avvenute nella storia famigliare del soggetto. In altre parole, c’è un fenomeno di risonanza tra presente e passato, e sarebbe questa risonanza a far sì che l’essere in sviluppo memorizzi una determinata cosa. Questo elemento diventa così un vissuto, che avrà un effetto psichico destrutturante e fonte di ripetizioni dolorose se è traumatico, o strutturante se si rivela permeato di benessere.” (Daniel Lysek, Alcuni effetti dei vissuti del feto sulla vita adulta, in “Psicoanalisi e Scienza”, aprile 2019).
Il problema era che questi soggetti inevitabilmente mostravano una ripresa della sintomatologia non appena abbandonavano per lunghi periodi il trattamento psicoanalitico, finendo per chiedere nuovi cicli di sedute.

Credo che tanti di noi oggi qui in presenza o on line abbiano avuto, accanto a pazienti che poi sono stati riconsegnati ad una vita piena, che possiamo reputare, con un termine ipocritamente demonizzato dalla psicoanalisi dei primordi, come “guariti”, pazienti che invece “ritornano”, i cosiddetti “revenants”, e li seguano da decenni.

Un caso clinico

Cito un esempio di un uomo che incontrai giovanissimo in preda ad un feroce e tormentoso delirio di persecuzione erotomaniaco che lo faceva soffrire enormemente, rendendolo praticamente invalido, quasi recluso in casa, impossibilitato ad una vita di relazione, inabile al lavoro ed agli studi.
Facemmo con lui una micropsicoanalisi classica, ora quasi impossibile da realizzare, con sedute quotidiane, a volte due al giorno, con tranches fuori dal paese di residenza, come sanamente era possibile e si usava negli anni 80.
Il giovane era letteralmente paralizzato da un terrore di svuotamento, del resto aveva perso sua madre all’età di tre anni, dopo una lunga malattia: prima l’orribile trasformazione somatica, poi la scomparsa. Lo svuotamento libidico dato dalla scomparsa dell’oggetto avvenuto in uno stato simbiotico gli aveva lasciato un terrore insuperabile: ogni volta che la spinta sessuale lo avvicinava ad una donna il suo vissuto era quello di volatilizzarsi nell’altra.

Fu proprio nella vicina Couvet che il giovane fece una seduta rimasta nella sua storia personale in cui vi fu un’abreazione drammatica ed un senso di liberazione e possibilità vitali prima inconcepibili (negli anni 80 era frequente e possibile programmare una tranche intensiva di sedute che venivano condotte fuori dalla nazione di residenza: il cambio dei riferimenti percettivi, in primo luogo la lingua, aveva l’esito di enucleare in modo totale l’analizzato dalla suo campo situazionale). Fu così che un invalido psichico totale che probabilmente sarebbe andato incontro ad un progressivo deterioramento psichico si aprì al mondo, incontrò una donna di spessore, ostruì una famiglia, ebbe dei figli, una casa, un lavoro, in una parola una vita.

Lo reputo indubbiamente un successo, ma continuiamo a vederci, se pur con una frequenza minima (spesso una seduta di un’ora e mezza ogni 15 giorni). Accade spesso in queste sedute, che dopo aver parlato della inevitabile conflittualità del quotidiano, non bisogna dimenticare che nella vita stessa vi è conflitto, lui rivada ancora al rivissuto della perdita dell’oggetto primario, piangendo intensamente, come mai lo avesse fatto, soffrendo in una sorta di catarsi ciclica. Non è una pantomima isterica, ne sono certo. Dopo quaranta e più anni di attività clinica credo di saper riconoscere una simulazione. E’ come se rimettesse le mani in una piaga che non cicatrizza. Ecco siamo nel centro del mio discorso: la possibilità di riparare un Io deteriorato. Se facciamo una efficace similitudine con la chirurgia, il chirurgo si chiede sempre approcciandosi all’intervento se c’è sufficientemente “stoffa” (tessuto organico) per chiudere le lesioni.

Era il compianto ed amato Professor Peluffo che spesso nel corso delle nostre supervisioni mi diceva: “Ritieni ci sia stoffa sufficiente per riparare l’Io?”.
Io credo che, come nel caso fugacemente esposto, data la precocità e la violenza del trauma subito l’Io del soggetto non avesse avuto la possibilità di strutturarsi nella sua interezza, direi che addirittura il giovane, ora uomo maturo, non aveva acquisito la possibilità di storicizzazione degli eventi: la storia come tutti noi sappiamo, appartiene all’Io, nell’inconscio regna un perenne, caotico, Presente.
Le sedute di raccordo che facciamo sono ormai una sorta di richiamo immunizzante, probabilmente per identificazione all’analista l’analizzato struttura un Io a prestito che deve essere inevitabilmente nutrito. Forse i rivissuti catartici sono diventati una sorta di magica funzione religiosa, si potrebbe parlare di una sorta di trasformazione in una tiepida e disciplinata ossessione della sua dirompente paranoia iniziale.

Per me che sono medico, abituato all’esistenza della cronicità, tale intervento presumibilmente indefinito, almeno fino a quando la scienza non scopra una modalità di reset totale dello psichismo umano, ha una grande dignità. Pur soffrendo il paziente conduce una vita che tanti potrebbero invidiare. A lui non sembra, si lamenta, mancandogli la possibilità di storicizzare gli manca uno dei più grandi lenitivi dell’essere umano: la Rassegnazione. Rimane in uno stato di onnipotenza narcisistica, potremmo dire che il delirio megalomanico di reincontrare la madre si è come incistato, ma la sacca non si chiude totalmente.

La genealogia

il discorso, in realtà, è ben più articolato, poiché, usando la terminologia cara a Lysek, troviamo delle evidenti risonanze genealogiche.
Nel corso della ricerca genealogica condotta in uno stato avanzato del trattamento l’analizzato era riuscito a ricostruire la seguente vicenda familiare: una sua bisnonna, donna molto dignitosa seppur di umili origini, ebbe una relazione con un personaggio molto altolocato e facoltoso del suo paese, nel corso della quale rimase incinta. Rassicurata dall’uomo, la bisnonna portò a termine la gravidanza ma il giorno stesso della nascita della bambina (la nonna dell’analizzato di cui parlo) il novello padre fuggì abbandonando figlia e compagna, facendo perdere per sempre le sue tracce.
La bisnonna dell’analizzato, accecata dall’odio e dal dolore dopo poco tempo abbandonò la figlia in un brefotrofio. Quest’ultima, dopo una vita comprensibilmente difficile, sposò un uomo dal quale ebbe una figlia (la madre dell’analizzato).
Lo sposo morì a distanza di soli tre anni dalla nascita della figlia, come poi del resto accadrà alla stessa madre dell’analizzato che morì anch’essa quando questi aveva tre anni. Un grave, reiterato trauma genealogico abbandonico struttura un terreno in cui si vive in perenne attesa della perdita dell’oggetto.

La soluzione catastrofica è il ritiro narcisistico: vivere in se stessi, tessendo una vita di relazioni affettive fittizie che non scaldano l’anima. E’ la reiterazione genealogica dei traumi che crea il rinforzo e la cronicità. Le sedute riparano la tela, ma il terreno è troppo sfavorevole. L’analista deve accettare i limiti umani del suo intervento e lavorare, in questi casi, come valido Io di appoggio alla ricerca di un dignitoso equilibrio vitale assicurato dal minor numero di incontri ciclici possibili.

In conclusione la cronicità psicopatologica esiste e non deve essere diniegata.

© Quirino Zangrilli

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(estratto dalla relazione “La cronicità in psicopatologia: lettura psicoanalitica” tenuta al Simposio “Le psicopatologie attuali | 15 ottobre 2022” organizzato dagli Istituti Francofoni di Micropsicoanalisi e da Micropsy.Academy)