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Commento introduttivo della Dott.ssa Manuela Tartari

In questo breve testo Nicola Peluffo offre alcuni ricordi del suo primo analista, Charles Baudouin, e lo fa nel suo solito modo, al tempo stesso semplice e profondo, intimo e riflessivo.  Inizia il racconto con due frammenti di episodi in cui il pensiero del maestro si era manifestato in lui in modo indiretto ma gli aveva comunque permesso di avvertirne la presenza. La spiegazione proposta evoca il concetto micropsicoanalitico di continuità del vuoto ma subito si avvicina alla riformulazione orginale di Peluffo, nella quale ciò che conta è che “… nel processo primario non ci si lascia mai”, a patto di poter usufruire di immagini filo-ontogenetiche che facciano da tramite. Per Baudouin, un’Immagine tramite fu la figura di San Cristoforo, il pescatore traghettatore di uomini e di Cristo, per il nostro autore l’analista prese il posto di figure parentali positive e capaci di prendersi cura delle persone, come più tardi prese a fare lui in seduta e fuori seduta.

Un’altra spiegazione, vicina al pensiero di Baudouin, che aveva coniugato Freud e Jung, mi sembra ricavabile dal concetto di sincronicità, qualcosa di cui Peluffo parlava spesso: in esso, due eventi che avvengono contemporaneamente, sono uniti tra loro ma non secondo un principio causale. Un evento può riguardare un’informazione inconscia pronta ad affiorare alla coscienza come immagine onirica, fantasia o altro, per incontrarsi con un fatto esterno, in qualche modo coincidente. Jung lavorando con il fisico Pauli estese la portata di questo concetto fino a circoscrivere una vasta area di fatti che si uniscono in modo significativo senza essere vincolati da un rapporto di causa-effetto.

Mi piace pensare che anche il ritrovamento del tutto fortuito di questo scritto di Peluffo appartenga a questo insieme, a riprova del fatto che non ci si lascia mai.

Manuela Tartari

 

Incontri con Charles Baudouin

Intervento del Prof. Nicola Peluffo dell’Università Di Torino

 

Quando la professoressa Tilde Giani Gallino ed il dottor Luigi Monticini mi hanno proposto di fare un intervento in questi “incontri con Charles Baudouin” ho accettato con entusiasmo. Era trascorso il venticinquesimo della sua morte ed io avevo sentito la necessità di scrivere un articolo che lo ricordasse. Anzi, per essere precisi, la cosa si era svolta nel modo seguente.

Nell’estate del 1988 ero, come quasi sempre in estate o autunno, a Couvet in Svizzera, dove si trova la sede della Società Internazionale di micropsicoanalisi e la casa del suo fondatore, il dottor Silvio Fanti. Non mi rendevo conto in modo netto che erano trascorsi venticinque anni dalla morte di C. Baudouin però pensavo spesso a lui e all’Istituto di Psicacogia. Feci delle ricerche sull’elenco del telefono di Ginevra e telefonai a madame F. Palmare che gentilmente mi diede le informazioni che desideravo e mi disse che il dottor Luigi Monticini, italiano, si sarebbe messo in contatto con me. Il fatto avvenne, misi bene in luce la ricorrenza del venticinquesimo della morte e decisi di scrivere un articolo da pubblicare sul Bollettino di Micropsiconalisi col titolo “Charles Baudouin: un Maestro”.

Charles Baudouin

Lo spirito di Baudouin (nel senso di “esprit”), la sua immagine, si era manifestata in me, ancora una volta in modo indiretto attraverso il pensiero “chissà cosa sarà oggi l’Istituto di Psicacogia” come molti anni prima, in un momento molto difficile della mia vita si era manifestata per mezzo di un fatto che avrebbe compiaciuto Jung e fatto sorridere Freud. Qualche anno dopo la sua morte ero seduto alla mia scrivania, stavo pensando ad una serie di problemi personali e di lavoro che causavano in me un senso di angoscia e di solitudine, quando udii un suono metallico sul pavimento. Raccolsi l’oggetto e mi accorsi con grande emozione che era una medaglia portachiavi con incisa la raffigurazione di San Cristoforo che porta sulle spalle Gesù bambino. Chi conosce Baudouinsa bene il significato di questa raffigurazione. (“Christophe lePasseur”è il suo testamento spirituale, un libro che il maestro non volle fosse pubblicato durante la sua vita ed infatti uscì postumo nel 1964.

Un bell’episodio al quale ognuno può dare l’interpretazione che vuole. Io la do in termini di continuità del vuoto che mette in comunicazione le Immagini in quanto entità psicomateriali: insiemi geneticamente organizzati di rappresentazioni ed affetti che strutturano l’inconscio a partire dall’es. In altre parole nel processo primario non ci si lascia mai, purché esistano delle Immagini filo-ontogenetiche che facciano da tramite, nel caso di Baudouin, dal punto di vista filogenetico era quella dello spirito guida, Virgilio, da quello ontogenetico ero quello di mio nonno materno: “ou Megou”, cioè il dottor Francesco Danovaro. Medico ed ufficiale sanitario del comune di Sampierdarena, il mio luogo di nascita.

Quando andai da Baudouin la prima volta, nel suo studio della Tacconerie n° 3 (avevo trent’anni) avvertii subito un’atmosfera familiare da “prima della guerra”. Anzi già nella sala d’aspetto avevo avvertito quella sensazione. La prima volta non era facile trovare lo studio che era anche sede dell’Istituto di Psicacogia. Si trovava in una grande costruzione dall’aria abbastanza anonima vicina all’oratorio di Calvino e perpendicolare alla cattedrale di Ginevra. All’interno la costruzione era meno anonima e le scale di accesso all’istituto erano decisamente interessanti. Forse medioevali. La porta d’ingresso allo studio che Baudouin apriva dieci minuti prima che finisse la seduta di cinquanta minuti era abbastanza piccola e, se ricordo bene,in legno marrone. Baudouin mi aveva spiegato al telefono (81147) che avrei trovato la porta aperta, e quella della sala d’attesa socchiusa. Sarei dovuto entrare nella piccola sala d’attesa, socchiudere di nuovo la porta ed aspettare che lui avesse accompagnato il cliente precedente alla porta, avesse sbrigato le piccole cose che uno psicoanalista fa dopo la seduta (spesso una minzione) e avesse poi indicato che era pronto. Il salottino era minuscolo, con un caminetto che a me sembrava in uno stile non adatto al palazzo.all’interno del quale stavaun fuoco finto, cioè un fuoco elettrico stile anni venti, che negli anni sessanta era decisamente surreale. Un oggetto che mi ricordava l’arredamento del salone della casa di certi miei parenti, ed il cane Pechinese di una mia cugina, detto Cin-Cion.

Quando entrai nello studio e lo vidi bene (nel salottino la luce era fioca) anche Baudouin mi sembrò un po’ cinese, una faccia da “buona terra” un film degli anni trenta tipo “l’amaro tè del generale Yen”) tratto da un libro allora famoso. Prendemmo gli accordi sugli orari, gli onorari, e il materiale da portare e poi (mi sembra) ci salutammo. Quel “mi sembra” in parentesi è dovuto al fatto che sono passati quasi trent’anni e che anche per i “primi amori” certi particolari diventano incerti. Ciò che ricordo bene è che mi disse di portare qualche sogno (ma non troppi) scritto, possibilmente a macchina. in duplice copia, e se ne avevo, qualche altro prodotto dell’immaginazione, per esempio disegni, poesie, etc. Io sognavo e poi traducevo il contenuto manifesto dall’italiano in francese e diligentemente lo portavo al mio analista che nel frattempo diventava sempre più il mio adorato nonno “Checco”. Lui prendeva i fogli scritti a macchina, decifrava il mio povero francese, e poi me li leggeva ad alta voce in modo che io poi potessi fare le associazioni che insieme ai resti diurni avrebbero ogni tanto permesso una interpretazione. Era improbabile che Baudouin abbandonasse il lavoro su un sogno (o una serie onirica) per passare ad un altro, prima che se ne fosse raggiunta una interpretazione implicita o esplicita soddisfacente. Ogni tanto portavo anche qualche disegno e Lui, che amava tanto disegnare, mi diceva “vous avez la main facile!”. Il suo studio era affascinante. Di fronte alla porta c’era una finestra che dava in un cortiletto erboso ornato da un albero (forse due). Baudouin mi aveva spiegato il significato di conscio-preconscio-inconscio, e la differenza tra inconscio personale e inconscio collettivo con una metafora sulla struttura architettonica della casa. L ‘inconscio collettivo era ciò che si trovava ancora al di sotto delle mura romane che erano già seminterrati, e che sostenevano tutto ciò che si vedeva compreso lo studio in cui lavoravamo. Il divano messo in linea con la porta, era vecchio stile con una piccola poltrona appena dietro. Di fronte al divano c’era un tavolo ricoperto di manoscritti e carico di una pila di “dossier” dei suoi clienti passati e presenti. Ogni dossier aveva un numero ed io purtroppo persi il foglietto sul quale avevo trascritto il mio. Baudouin mi aveva detto: “Lo scriva. Non si sa mai”. Avevo capito benissimo cosa intendeva e protestai energicamente.

I primi tempi, entrando o uscendo, davo un’occhiata ai libri posati intorno o in un armadio a vetri. Curiosavo. Baudouin, dopo qualche volta, mi disse: “le piace curiosare?” Gli risposi affermativamente e provai un po’ di imbarazzo. Nei giorni seguenti produssi un sogno in cui mi avevano regalato un bel cannocchiale, con cui potevo vedere anche le stelle più lontane nella notte, e che un vecchio mellifluo che mi seguiva voleva rubare. Con altro materiale e a prescindere dalle sovradeterminazioni, il lavoro associativo, la rievocazione ed il rivissuto, diedero la possibilità, a me di scoprire il mio rimosso voyeuristico e scoptofilico, ed a Baudouin di spiegarmi quello che lui definiva il complesso spettacolare derivato dalle spinte esibizionistiche rimosse. Questo fatto mi diede la possibilità di esprimermi meglio, cioè di nascondermi meno, e anche di vedere meglio Baudouin. Osai persino andare ad un paio delle sue lezioni all’università. Alla seconda volta, ingenuamente, lo aspettai all’uscita e gli chiesi se “je pouvais marcher un bout avec lui?”. Mi rispose con molta gentilezza e con una voce calma e benevolmente ironica: “dans le temps on aurait pu marcher, maintenant nous pouvons nous promener jusqua Georg”. (una libreria famosa a Ginevra vicino alla quale c’era una scaletta che portava alla salita che si doveva fare per arrivare alla Place de la Tacconerie). E aggiunse con un fare che mi sembrò leggermente critico: “Lei sa che analista e analizzato è meglio che non si frequentino fuori seduta”. Io lo sapevo ma lo avevo dimenticato. Il fatto di non aver frequentato Baudouin socialmente mi rende difficile di parlarne in una dimensione che non sia il ricordo di rivissuti transferali. Cioè di una situazione di ricordo di sentimenti, pensieri fatti, fantasie che non erano altro che una ripetizione di fatti e fantasie (affetti e rappresentazioni) di origine utero-infantile e filogenetica.

A proposito di “utero-infantile” vorrei ricordare ancora un fatto. Prima di conoscere Baudouin, molti anni prima, studiando un trattato di embriologia con annesso atlante, mi era balenata alla mente l’idea che la familiarità dell’essere umano per le forme ellissoidali e circolari (i primi disegni dei bambini, la forma di certi luoghi d’abitazione dei vivi e dei morti, i Mandala, etc. fase dovuta alla registrazione del movimento di rotazione del feto dovute alle esigenze dinamiche di una nascita il meno pericolosa possibile e forse anche all’influsso dell’attrazione lunare (vedi maree) sul feto galleggiante in un ambiente liquido. Eravamo negli anni ’50, l’ecografia non esisteva e neanche gli studi sui movimenti fetali.

Comunicai, durante l’analisi, questa idea a Baudouin che mi disse “potrebbe essere un’eccellente idea di una tesi di dottorato” (intendeva dell’Istituto di Psicagogia). Io, nel 1976, ho pubblicato Micropsicoanalisi dei processi di trasformazione, un lavoro sulle relazioni che intercorrono tra l’embrione-feto e la madre durante i mesi di gestazione (interazione psicobiologica tra tentativi di difesa psichici e immunitari) e anche se non l’ho scritto, mentalmente l’ho dedicato a Charles Baudouin. Chi conosceva e conosce la vecchia copertina di “Action et Pensée” l’ha certamente capito.

© Nicola Peluffo