Racconto finalista al PREMIO LETTERARIO “La Serpe d’Oro” riservato ai Medici Scrittori. Ferrara 1988

AVVERTENZA: Il presente racconto è la libera elaborazione letteraria dell’esperienza realmente vissuta da un mio giovane paziente; nomi e ambientazione sono, ovviamente, fantastici.

“Come vedi non è successo assolutamente nulla: quell’’”acido” è cartone purissimo, altro che LSD! E dire che ne ho persino presa una dose doppia!”. Avevo appena pronunciato queste parole quando il muro ultracentenario del rudere che sormontava la radura dove ci trovavamo comincio a respirare.
Prese pian piano a respirare solo il frammento di pietra a contatto con la mia mano, come se gli infondessi la vita.
Lentamente; un discreto appena percepibile respiro, accompagnato da una fugace espansione. Rimasi impietrito, in ascolto.
Ero tutto concentrato su quel minuscolo frammento di cosmo inanimato ora finalmente vivo sotto la mia mano.
La mia mente, intanto, faceva il suo lavoro. E’ bello avere un cervello che si guadagna il pane quotidiano. Parlò con la mia voce: “Pensa a che punto può arrivare la suggestione, Cris: abbiamo talmente parlato di questa esperienza, sono stato così attento a percepirla che ora, a quattro ore di distanza dal momento in cui ho ingoiato quel ridicolo cristallo, sono riuscito a farmi tesso. Quel muro respira, capisci?” Il tono smaccatamente isterico della mia risata tradì il fallimento di questo misero tentativo di neutralizzare l’angoscia che, all’improvviso, si era impadronita di me.
Non mi sentivo affatto tranquillo, ora.
Un istante, un solo infinitesimale frammento di esistenza, mi rivelò della tremenda lotta che in quelle quattro ore si era consumata tra la mia mente che rifiutava di essere messa in un cantuccio, e questo essere onnipotente e spietato materializzato da quel minuscolo ammasso di molecole chimiche.
Ancora per un po’ la resistenza del mio io ebbe la meglio su quell’incontenibile torrente di emozioni. La mente riuscì a godersi ancora pochi istanti di onnipotenza e di sarcasmo: “Ridicolo ! E pensare che ho soppesato per anni la decisione di fare questa esperienza con l’LSD !”
Poi quello che provai fu tremendo: d’un tratto vissi l’invasione inarrestabile e terrificante di un’altra presenza dentro me. L’essere si infilò nelle mie scarpe e velocemente si drizzò in piedi dentro il mio corpo, finché non occupò, invincibile, anche il mio cranio. Io, in un angolo sconosciuto di me, potevo ora solo osservare ciò che rammento.
Il respiro del muro, intanto, era diventato affannoso.
Un vecchio, decrepito, muro asmatico! E insieme a questo ansimare tubercolotico avvertivo il battere tumultuoso del suo cuore. Improvvisamente fui invaso dall’orrore più totale. Dimentico di tutto, di Cris che immobile, pallidissima, mi osservava tradendo tutta la sua angoscia, provai a fuggire.
Capii subito che l’inferno era appena cominciato: ora anche il terreno, e poi l’intero prato, e il mondo intero respiravano. Respirava tutto sotto i miei piedi e le precipitose espansioni del terreno sincrone con quel terribile lacerante ululato rantoloso, mi fecero inciampare.
Rotolai in terra e sbattei violentemente il capo su una pietra aguzza. Sul mio zigomo sinistro si aprì una breccia vermiglia e mentre l’unico incessante suono che percepivo, come un disco rotto, era quello del fragore delle ossa che si scheggiavano, l’occhio destro, quello si, indenne, mi informava che un torrente abbondante, quasi irrefrenabile, di sangue e di materia umorosa, sgorgava dal mio cranio squarciato.
Dio! Dio! fa che questo orrore finisca! se mi aiuti ti correrò incontro ogni giorno! Portai le mani al volto urlando a squarciagola ma emisi un vuoto, inutile silenzio. Ero diventato assolutamente muto.
Tutto finì di colpo, come era cominciato, quasi fossi uscito dopo una violenta, difficoltosa rincorsa, dal sipario di un teatrino maledetto.
Solo allora avvertii di nuovo la voce di Cris e mi accorsi che asciugava le grandi gocce di sudore che scorrevano sul mio volto. Anche sul mio zigomo sinistro, perfettamente indenne.
“Come sei pallido, Marco! Cosa è successo? Il tuo urlare era agghiacciante e non facevi che ripetere: – Respira tutto qui intorno: scappa, per carità! Portami via!-“.
Sembrava tutto perfettamente normale, non fosse stato per uno strano, continuo, appena percepibile rumore di sottofondo.

Un rumore indefinibile. Come se mi trovassi all’interno di un mulino gigantesco ridondante di suoni indistinti fusi nella nota vitale di un assoluto meccanismo fatto di mille e mille ingranaggi. Mi sentivo sotto pressione. Avevo la sensazione di essere sottoposto all’azione di un’energia, una possente forza sconosciuta e purtroppo sapevo che prima o poi si sarebbe di nuovo manifestata. Approfittai di quell’istante di respiro per rassicurare Cris e darle i miei ultimi consigli di assistenza: “Ora più che mai sono contento che ci sia tu vicino a me. Ho proprio bisogno di una mamma esperta! Credo che la cosa più importante che tu possa fare per me è di non mostrarmi mai la tua preoccupazione: i bambini si smarriscono quando percepiscono l’insicurezza di chi li ama. E ricorda che non devi assolutamente preoccuparti del mio pallore, del sudore e delle labbra aride: sono l’effetto dell’anfetamina mischiata all’acido lisergico e a giudicare dalle palpitazioni che avverto e dai tremori che cominciano a scuotermi, sono stati di manica larga.
E poi, se proprio dovessi giudicare preoccupante la situazione, hai sempre il numero di telefono del dottor Manenti, lo strizzacervelli. Ora mi preoccuperò di dirti tutto quello che provo e che vivo e vedi bene di ricordarti tutto perché ho idea che questa sarà la prima e l’ultima volta che mi farò mettere in ginocchio da un cristallo di LSD.”
Mi sedetti su una roccia, in attesa. Scese un pesante, ingombrante silenzio. Avevo la sensazione di trovarmi sul bordo dell’oceano e di poter seguire il cammino inarrestabile delle sue onde imponenti fin dall’istante della loro formazione, li, oltre l’orizzonte.
Fissavo, come un robot disinnescato, il muro che ormai aveva esaurito il suo disperato tentativo di prendere vita.
Davanti al muro riposava da centinaia di anni una enorme quercia. All’improvviso! Eccoli!, mandria assatanata di cavalieri dell’Apocalisse! “Cristina! ci siamo di nuovo, stammi vicino, non mi lasciare mai! sto andando alla deriva…”
I rami della quercia presero a ruotare vorticosamente seguendo delle sequenze ritmiche ben precise; poi, dopo aver disegnato sullo sfondo le loro parole esoteriche si immobilizzarono su un’immagine. La vista, annebbiandosi, fece l’ultimo tentativo di proteggermi. Ma ecco, ancora lì, assolutamente riconoscibile. Una sensazione mista di nausea e languore, di terrore e di estasi mi invase quando i contorni dell’apparizione, definendosi ancor meglio, esplosero la pienezza del simbolo: un’enorme, buia, carnosa, vibrante, accogliente vulva pulsava vita da quel muro formidabile.
Mi accasciai svuotato, cercando di pensare ad altro, ma ora tutto il mondo viveva solo in funzione di quel sesso traboccante di energia, delle gocce di linfa che emetteva: se avesse voluto avrebbe ingoiato tutto e tutti in una spirale vorticosa. Rimasi almeno due giorni in questa contemplazione (due o tre battiti di ciglia ?) e mi sentivo smembrato, disperso, nel più completo, irreparabile abbandono.
Quando le labbra adorabili di quella dolcissima ferita tornarono a fondersi con il muro circostante qualcuno dentro di me pensò che niente più avrei potuto condividere. Si sbagliava.
“Sono spossato, Cris portami a casa tua. Guida tu la mia macchina e ti prego, non mettere in funzione lo stereo: ora ho paura di tutto, anche delle note, che potrebbero trafiggermi le carni.”
Lentamente, con le mie carni di piombo riuscii ad entrare nella macchina. Mi sentivo leggermente più sicuro ma sul momento non mi resi conto che la mia mano destra massaggiava energicamente il braccio sinistro che pendeva abbandonato lungo il mio fianco. Scendevamo dalla montagna lentamente, mordendo i suoi fianchi rocciosi. Avevo chiuso gli occhi e con le mie mani tappavo le orecchie perché i miei sensi non nutrissero i sogni della belva acquattata nel mio corpo.
Certo non potevo ordinare alla mia pelle una breve vacanza e fu proprio al tatto che l’acido lisergico si rivolse.
Improvvisa, totale, una allagante sensazione di liberazione: non toccavo più nulla e nulla mi toccava. Ė impossibile immaginare quanto pesi il fardello della instancabile percezione del proprio corpo. Pluff! un tuffo senza fine nel vuoto liberatore. Lo sbaglio?: aprire gli occhi. Ancora non ero del tutto uscito dalla macchina che continuava a viaggiare lentamente guidata da Cristina che ogni tanto rivolgeva delle occhiate cariche di pena al fantoccio che un attimo prima era me stesso. Poi mi liberai anche del tettuccio e seguii per qualche chilometro la piccola utilitaria che scendeva prudentemente a valle. E infine su, sempre più su, tra gli spazi infiniti, finché la macchina, Cris, e quello sconosciuto che ero io non divennero un puntolino. Oh beatitudine, oh onnipotenza e libertà infinite, oh felicità senza confini, appagamento totale, pace incomparabile! Dio sono io, se esisto. ma che dico? Dio? il mondo? la vita? sono parole incomprensibili. L’unico evento da quando esisto à il mio volo! Ma perché mio se esisto solo io? di chi altri potrebbe essere?
Il secondo errore? Guardare in basso, quando ancora, se pur debole, la parola conservava il suo significato.
La terra, le rocce, la carne, il sangue pulsante, il suo odore dolcemente nauseante e una forza di attrazione solo un attimo fa rarefatta, ora vertiginosamente sempre più potente; una spirale senza fondo, una notte buia che non conoscerà mai l’alba, un sarcofago inamovibile, e di nuovo, selvaggiamente implacabili, il tempo e lo spazio: istanti che si susseguono, regioni che si avvicendano in un nauseante vortice senza fine. Infine nuovamente dentro me stesso, con il peso dolorosamente insopportabile del mio corpo.
E subito, sentendo l’attività della mia vita, il sangue pulsante nelle vene, i muscoli accomodarsi nelle loro posture, gli odori distribuirsi al mio interno, lo sgomento, la sorpresa di non sentire più il mio braccio sinistro. Dio! Il mio braccio sinistro! Diooo! – urlai disperato – il mio braccio… non sento più il mio braccio! Nessuno di voi sa cosa significa non sentire più un arto. Ne avrete una pallida idea pensando a quelle rare occasioni in cui dopo una notte ai sonno disordinato, vi siete addormentati su un braccio ed al risveglio avete sentito quella fastidiosa, quasi intollerabile sensazione di una parte del vostro corpo che non vi obbedisce, che non risponde agli impulsi del vostro cervello e che, al contrario, osa bombardarlo con quella estenuante sensazione di formicolio interminabile. Ecco il punto!
Quell’ammasso disordinato di cellule con quel formicolio punzecchiante Vi comunica per lo meno qualcosa. E’ una parte di voi che funziona come non dovrebbe. E’ un moccioso ribelle che ha alzato la cresta e farà per un po’ i capricci. Ma sapete, siete certi, che quanto prima tornerà ad ubbidirvi. Anzi, i più smaliziati, vincendo il disagio, prendono a massaggiare l’arto alla deriva: il sangue che affluisce abbondante, come un vecchio giudice autoritario, ristabilisce ben presto l’ordine.
Il mio braccio sinistro invece era morto. Morto: come avere una sacchetta di sabbia inerte attaccata ai tessuti della spalla. Né dolore, né fastidio, nemmeno un senso di mancanza. Una parte di me è morta. Provo a sentirmi.
seguo me stesso dalla punta dei capelli alle unghie dei piedi e per ultimo, con una residua, vana speranza, dirigo tutta la mia energica attenzione verso il braccio sinistro.
Io finisco alla spalla! Lo devo onestamente riconoscere.
E cos’è allora quell’immondo peso a forma di braccio che pende dalla mia spalla ?… Un’ondata nauseante di rigetto.
Un senso ubriacante di estraneo, di minaccioso, di sconosciuto. E questo mostro è attaccato a me. E per ora, per fortuna, è morto.
L’orrore si stempera in una parentesi vuota.
Voglio svegliarmi da quest’incubo. Mi sembra una punizione troppo sanguinaria per il mio peccato di onnipotenza… voglio svegliarmi… per raccontarlo a qualcuno… vorrei tornare indietro, per gettare quel maledetto cristallo nella spazzatura..•

© Quirino Zangrilli