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“A differenza degli altri mammiferi, siamo riusciti a crearci
una moltitudine di fantasie  allucinatorie, foriere di consolazione”
Nicola Peluffo

1. La scoperta delle immagini

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Amigdala acheuleana, deserto Occidentale, Egitto
(foto Ida Mailland)

Le più antiche testimonianze figurative ci rimandano a un tempo remoto quando l’uomo di Cro-Magnon, un individuo ormai sostanzialmente identico a noi per potenziali cognitivi, giunge in Europa seguendo gli spostamenti dei grandi erbivori. È in questa fase finale del Pleistocene che il mondo inizia a popolarsi di strane presenze: gli animali che vagano liberi nelle tundre e nelle steppe si sdoppiano nelle cavità sotterranee. Nascono le immagini, create sulle superfici rocciose da un gesto esperto della mano che segue i tracciati della memoria con un grado di approssimazione ai dati della percezione sensibile molto elevato. Fin dalle prime scoperte di fine Ottocento, l’arte visiva delle origini ha posto una sfida interpretativa densa di interrogativi ancora irrisolti intorno ai quali si è sviluppato un dibattito che ha teso sempre più a coinvolgere ambiti disciplinari diversi. Il contributo che qui segue intende limitarsi ad alcune questioni riconducibili alla psicologia della percezione artistica e ai suoi legami con le dinamiche emozionali della vita psichica. È necessaria però una premessa. Oggi sappiamo che la nostra specie è emersa in Africa nel Paleolitico Medio, intorno a 150.000 anni fa, mentre i primi dipinti di cui abbiamo conoscenza risalgono all’Aurignaziano intorno a 35.000 anni fa. Per una lunghissima fase, l’uomo è dunque vissuto senza conoscere le immagini e il loro potere evocativo. Si è parlato di una sorta di big-bang, di esplosione improvvisa del comportamento simbolico. Oggi però, alla luce delle più recenti acquisizioni, questa idea non è più   condivisibile. La creatività dell’uomo non nasce dal nulla, quasi fosse l’illuminazione di una mente anatomicamente moderna dopo la notte buia di infinite generazioni di Ominidi. Tutto il nostro percorso evolutivo è costellato di indizi sempre più marcati della sua emergenza a partire dal momento in cui la produzione dei manufatti litici, attivata  dall’azione della mano e destinata a esaurirsi nel gesto strumentale, inizia a caricarsi di valenze che vanno al di là della pura funzionalità. Pensiamo alle prime amigdale acheuleane di Homo ergaster (1.4 milioni di anni fa). La loro bella simmetria intorno a un asse centrale sembra rispondere più a esigenze di equilibrio armonico che a una praticità strumentale. In fondo, i choppers potevano funzionare altrettanto bene. Con l’amigdala siamo probabilmente dinanzi alla prima testimonianza “fossile” di quella propensione all’ordine e alla semplicità delle forme che, secondo Ernst Gombich, caratterizzerà le avventure estetiche della nostra specie. Pensiamo agli ornamenti di piume e di conchiglie del Neanderthal o ai primi monili di denti animali. Un canino affilato può certamente servire come punteruolo, un uso ancora tutto interno a un codice funzionale suggerito dalla forma. Ma il suo impiego come monile, per nulla implicito nella forma, istituisce un nuovo ordine di senso trasformandolo, potremmo quasi dire, in uno “strumento dell’immaginario” dotato di una efficacia del tutto particolare. Anche le prime immagini figurative dovevano avere una particolare efficacia. Ma se il monile animalistico è ancora “un corpo”, le immagini sono visioni che hanno preso corpo in cui l’esserci dell’animale sta tutto nel gioco percettivo della corrispondenza delle forme. Entrambe le operazioni appartengono al medesimo orizzonte simbolico: presentificano una assenza. Il dente animale appeso al collo è però ancora un dato materiale. La parte potrebbe stare per il tutto, caricandosi di una valenza “metonimica” in cui il processo di astrazione resta ancora all’interno di un medesimo “orizzonte semantico”: una parte (il dente) sta per il tutto (l’animale). La raffigurazione esige invece un’operazione diversa, potremmo quasi dire “metaforica”: estrarre la forma isolandola dal suo ambito di appartenenza (tridimensionale, dinamico, organico) e trasferirla in un contesto diverso (bidimensionale, statico, inorganico) senza che ne vada della sua identità. Un’operazione che chiama in causa complesse connessioni associative fra le strutture cognitive della mente e le modalità percettive. Ora, la presenza, all’interno del nostro sistema visivo, di apparati fisiologici specializzati nella individuazione dei contorni giustifica ampiamente il nostro interesse ancestrale per le forme. Sviluppare dei recettori che consentano allo sguardo di orientarsi nella varietà degli stimoli esterni appartiene a quelle strategie messe in campo dalla natura dense di ricadute sul piano delle pressioni selettive. La capacità di riconoscere il profilo di un predatore nel continuum fluttuante del campo visivo o di cogliere, in una variazione di luminosità o di tessitura, una forma dotata di una specifica autonomia, è indubbiamente una abilità votata al successo. Ma questo vale anche per l’artificio delle immagini? La “bolla percettiva”dell’uomo – per usare la felice espressione di Jakob von Uexküll – contiene in sé, accanto agli oggetti, anche le loro raffigurazioni? O le immagini esigono un particolare processo formativo che consenta all’occhio di riconoscere in un insieme di linee e colori, organizzati su un piano bidimensionale, una realtà sensibile tridimensionale? Su quale sintassi del linguaggio visivo può fondarsi il riconoscimento della vero-simiglianza figurativa?

 2. Immagini mentali e impulso figurativo

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Formazione stalagmitica, Pech-Merle, Francia
(foto R. Laborie)

In The Mind in the Cave. Consciousness and the Origins of Art (2002), David Lewis-Williams, avanza un’ipotesi suggestiva. Le immagini non appartengono naturalmente alla nostra esperienza sensibile. Una particolare condizione della percezione deve aver preceduto la loro “scoperta”. Perché la mano si decida a dipingere degli animali e lo sguardo sia in grado di riconoscerli è necessario che l’occhio abbia già osservato questo bestiario fantasmagorico proiettarsi in due dimensioni, come in una sequenza filmica, sulle superfici minerali. Ma come è possibile? La risposta va cercata, secondo Lewis-Williams, all’interno delle più antiche pratiche rituali: l’uomo del Paleolitico non si inoltrava nelle viscere della terra per dipingere gli animali-empirici che catturava nelle battute di caccia, ma per “avere delle visioni”. I recessi della terra dovevano probabilmente essere avvertiti come luoghi intermedi di una topografia stratificata del cosmo in grado di mettere in comunicazione il mondo in superficie con  l’aldilà degli animali-spiriti. Le apparizioni della trance, osservate sulle pareti in uno stato allucinato, farebbero da battistrada all’impulso figurativo. La sua nascita segnerebbe il momento straordinario in cui un individuo dal cervello anatomicamente moderno, ormai in grado di controllare e rielaborare nel tempo le proprie percezioni, decide di socializzare le sue visioni, cristallizzandole nelle immagini. È una ipotesi che offre elementi di interesse, riconducibile a quel “paradigma sciamanico” che in questi ultimi anni – pur fra mille polemiche – ha avuto il merito di porre al centro del dibattito dell’archeologia preistorica il problema dell’intenzionalità dell’arte delle origini dopo la crisi dei paradigmi interpretativi forti messi in campo nel secolo scorso. L’idea che una dimensione visionaria possa aver stimolato l’impulso figurativo lascia però aperte anche altre strade. I primi studiosi dell’ “Età delle renne” avevano già sottolineato l’importanza delle morfologie minerali sulle scelte figurative: le immagini tendono a sfruttare le accidentalità delle rocce sviluppandosi a partire dai volumi. L’andamento di una protuberanza può trasformarsi con rapidi ritocchi, nella curva cervico-dorsale di un quadrupede. La cascata stalagmitica, che ha la stessa forma di un mammut, diventa un mammut. Ma, prima ancora, è la stessa scenografia naturale di queste foreste pietrificate a trasmettere una inquietante presenza animale: tutto un mondo visionario sembra muoversi fra le fenditure sotterranee in un gioco illusionistico di luci e di ombre in cui le irregolarità e i salti cromatici diventano altrettanti campi morfogenetici dell’immaginario.

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Mammut, Pech-Merle, Francia
(foto R. Laborie).

Certamente, cogliere nella verosimiglianza un codice produttivo di senso è un auto-inganno. Individuare – attraverso una oscura corrispondenza formale – in una cascata stalagmitica un mammut è senza dubbio un errore svantaggioso sul piano del comportamento naturale, ma può diventare un abbaglio produttivo sul piano culturale: consente la riorganizzazione dei dati dell’esperienza percettiva a partire da un nuovo ordine mitogenetico. Una obiezione che qui si potrebbe avanzare è che lo sfruttamento delle morfologie è più evidente nelle fasi avanzate del Paleolitico, in particolare nel Madgaleniano, mentre non è poi così marcato nelle prime fasi aurignaziane. Pensiamo, ad esempio, ai dipinti più antichi (32410 ± 720 BP) della Grotta Chauvet-Vallon Pont-d’Arc.

La loro straordinaria maturità espressiva potrebbe però suggerire l’idea che non si tratti di un effettivo inizio, ma del risultato di esperienze figurative precedenti, a noi ignote. In ogni caso, la propensione visionaria va intesa più come elemento propulsivo della scoperta delle immagini che come elemento vincolante della loro effettiva realizzazione.

3. Un dinamismo immoto

Ora però, sia che all’origine delle immagini vi siano le allucinazioni della trance o le pulsioni di una creatività che riconosce nelle forme minerali una presenza animale, queste apparizioni non giustificano, di per sé, il gesto figurativo. Perché dare corpo alle visioni? Per quale ragione l’uomo decide, a un certo punto, di “voler toccare” le proprie “immagini mentali”? Lewis-Williams chiama in causa lo sviluppo delle strutture sociali. Rispetto alle immagini mentali, agganciate alle basi neuronali del funzionamento cerebrale moderno, le immagini figurative esigono un passaggio ulteriore, di carattere culturale, cioè la messa in campo di una intenzionalità comunicativa funzionale alle esigenze di società sempre più differenziate e conflittuali. Nelle prime culture del sapiens europeo, la fissazione delle visioni doveva contribuire a potenziare il prestigio di coloro che sapevano interagire, sulla membrana viva delle pareti delle grotte, con le creature soprannaturali del mondo degli spiriti. Una riflessione in sintonia con le più recenti acquisizioni che evidenziano, rispetto al passato, la maggior complessità della culture delle origini. Ma se esigenze sociali possono aver contribuito alla emergenza delle prime forme figurative, il potere universale di fascinazione delle immagini sembra attingere più in profondità ancorandosi alle dinamiche della vita psichica. Solo una forte emozionalità può aver spinto lo sguardo a riconoscere in una morfologia naturale un grande animale-spirito o a rielaborare nell’immaginario della trance un mondo soprannaturale popolato da creature zoomorfe. In questo senso, il paradigma sciamanico potrebbe rappresentare una declinazione particolare di un impulso più generale, dominato da una forte inquietudine interiore. Ora, tentare di estrarre l’emozione dalla sua espressione figurativa per comprenderne la natura è certamente un azzardo. Uno sguardo fenomenologico potrebbe però fornire alcune indizi. Fra i bagliori di fiamma, gli animali dipinti sulle pareti si agitano e si muovono, ma restano costantemente immoti. Nel loro dinamismo illusionistico, partecipano del calore del vivente e del freddo del minerale cristallizzando il fluire dinamico del vivente nella immobilità dell’inorganico. È una magia della visione che intreccia il tempo e lo spazio proiettando la mente in una dimensione mitica in cui la vita e la morte confondono i loro confini. Il potere delle immagini dunque come rivolta consolatoria contro il potere distruttivo del tempo?

© Gabriella Brusa-Zappellini