Dalla Prefazione:

Scrivo con molto piacere la breve prefazione a questa “opera prima“ del mio caro amico e collega Quirino Zangrilli.
Un lavoro agile e nello stesso tempo solido e ricco di contenuti in cui l’Autore sintetizza le sue esperienze professionali di medico e micropsicoanalista sino a farne un utile strumento di lavoro per coloro che praticano la micropsicoanalisi e una piacevole e istruttiva lettura per chi, pur non praticandola, si è avvicinato ad essa come analizzato, oppure, più semplicemente, come studente o studioso.
La collana di micropsicoanalisi, che Vincenzo D’Agostino propone ai lettori con le sue edizioni Borla, si arricchisce così di un nuovo volume che va ad aggiungersi agli altri cinque titoli pubblicati, sino a formare un bell’insieme rotondo: la mezza dozzina.
Forse non sono molti ma la micropsicoanalisi è una scienza relativamente giovane che con il suo procedere sinergetico (nel senso di Hermann Haken) non permette una teorizzazione veloce.
Nei libri di Silvio Fanti, specialmente in La micropsicoanalisi e in Dizionario di psicoanalisi e di micropsicoanalisi (entrambi in collana) il metodo e la teoria sono sviluppati così a fondo in tutte le loro implicanze che, almeno per il momento, è ben difficile aggiungere qualche cosa di nuovo. Tuttavia uno sviluppo originale di dati ricavati dalla pratica professionale è un tentativo, non solo possibile, ma anche auspicabile. Quando esso sia ben ancorato agli elementi fondamentali di questa nostra scienza, pur dimostrando un ricupero originale dell’esperienza di lavoro pratico, è uno dei criteri che distinguono il professionista maturo (anche se giovane di età) da quello che, pur essendo bravissimo, è ancora “allievo“. E, come diceva Sigmund Freud, attraverso la voce di S. Blanton (La mia analisi con Freud, Feltrinelli, Milano, 1974) a proposito di coloro che iniziavano a praticare la psicoanalisi: “ … Sono convinto che i metodi della tecnica non si possano insegnare con degli articoli. Questo deve essere fatto con l’insegnamento personale. Naturalmente i principianti hanno con ogni probabilità bisogno di qualcosa con cui cominciare, altrimenti non avrebbero niente su cui basarsi. Ma se seguiranno alla lettera le direttive, si troveranno ben presto nei guai. Devono quindi imparare a sviluppare le proprie tecniche personali”.
Un’affermazione in sé pericolosa (non dimentichiamo che allora esistevano degli psicoanalisti che non avevano fatto un’analisi personale) ma che dimostra la grandezza d’animo e la saggezza scientifica e umana di Freud.
In scienze induttive come la psicoanalisi e la micropsicoanalisi, è proprio il nuovo tentativo tecnico che permette l’avanzamento del riferimento teorico e metodologico. Tutte le scoperte di Melanie Klein vengono dalle modifiche di tecnica imposte dai suoi piccoli pazienti psicotici, e lo stesso Silvio Fanti ha scoperto la micropsicoanalisi nel momento in cui, costretto ad adeguarsi alle necessità di un suo cliente “a rischio“, ha deciso d abbandonare la prassi consueta dei cinquanta minuti quattro volte la settimana, e ha iniziato a fare delle sedute giornaliere, senza limite di tempo per quanto concerneva la durata della seduta.
Si è aperto un nuovo mondo, quello dell’infinitamente piccolo, quello dei nuclei rappresentazionali-affettivi quello dei tentativi elementari su un supporto generale di congiunzione-separazione. E poi la conclusione geniale che ha introdotto lo spirito della microfisica moderna nello studio della vita psichica: il conflitto tra il vuoto e la sua organizzazione energetica.
É questa la scoperta di base che ha permesso la riformulazione del concetto di eredità psichica in termini di conservazione di impronte qualitative e quantitative dell’interazione tra energia e movimento che continuano a mantenersi istintivamente.
Ora, Quirino Zangrilli, pur non facendo alcuna modifica di tecnica (e questo sta a suo onore) mi sembra che diriga il proprio interesse precipuamente sull’aspetto filogenetico della micropsicoanalisi, specialmente nell’interazione tra ereditarietà e tentativi. In definitiva rispetto alla dinamica dell’istinto.
L’istinto è uno solo, quello di tentativo, cioè quello del “fare“: trasformare l’energia in lavoro. Le tracce dell’esperienza qualitativa (rappresentazione) e quantitativa (affetto) di tali trasformazioni si mantengono e formano un insieme istintivo quindi ereditario: l’Immagine.
La tesi centrale del lavoro di Quirino Zangrilli è espressa nella frase “ … non siamo altro che una sorta di amplificatori di brillanza di un’emissione di immagini che vaga nell’illusione dello spazio-tempo servendosi di involucri”. Una bella definizione (anche poetica) che richiama la formulazione di pacchetto energetico contenuta nella definizione di vuoto data da Fanti nel Dizionario di psicoanalisi e micropsicoanalisi (Borla, 1984). L’essere umano, un pacchetto energetico fatto essenzialmente di vuoto in cui si ripetono le stesse dinamiche caotiche del cosmo. Un’idea un po’ inquietante per il lettore non abituato a queste “diavolerie“, ma si tranquillizzi, in natura esistono i meccanismi di auto-organizzazione spontanea. Noi micropsicoanalisti diciamo che è l’Ide (instinct d’essais), l’istinto di tentativo, che nella sua definizione individuale (cioè per esempio la mia, o quella dei lettori, anche quelli di giornali e riviste) è la risultante dinamica degli Ide elementari dei miliardi di antenati materni e paterni resi presenti sin dal momento della fecondazione (Fanti, 1984). Che in parole povere vuol dire che in noi esiste un meccanismo di auto-organizzazione spontanea, che, almeno in piccola parte, esprime in tentativi alcune potenzialità presenti nel DNV (dinamismo neutro del vuoto) dei nostri antenati, e che essendo anch’esso un tentativo è in parte, ereditario nel suo modo di funzionare. Certo gli psicoanalisti, e non parliamo dei micropsicoanalisti, sono in odore di misticismo e allora perché non usare le parole di H. Haken che Robert Graham riporta nel suo articolo “Il contributo di Hermann Haken alla conoscenza della coerenza e auto-organizzazione in natura“ (in Sinergetica, F. Angeli, Milano, 1988): “La questione centrale della sinergetica è se vi siano principi generali che governano la formazione auto-organizzantesi di strutture e/o funzioni sia nel mondo animato che in quello inanimato. Quando io risposi affermativamente a tale domanda per grosse classi di insieme… a molti scienziati è, probabilmente, sembrata un’assurdità. Perché mai sistemi composti di componenti assai diverse quali elettroni, atomi, molecole, fotoni, cellule, animali, o persino esseri umani, devono essere governati dai medesimi principi quando si organizzano a formare oscillazioni elettriche, modelli in fluidi, onde chimiche, raggi laser, organi, società animali o gruppi sociali? Negli ultimi dieci anni, tuttavia, si sono acquisite molteplici prove che la realtà è proprio questa, e che molti singoli esempi, da tempo noti alla letteratura, possono essere classificati nel concetto unificante di sinergetica.
Questi esempi vanno dalla morfogenesi biologica a certi aspetti della funzione cerebrale fino alle vibrazioni delle ali di un aeroplano, dalla fisica molecolare alle gigantesche trasformazioni stellari, dai congegni elettronici alla formazione dell’opinione pubblica e dalla contrazione muscolare alla deformazione delle strutture solide, temporali e funzionali“.
Parlare di filogenesi e di eredità ideica (energetica) non mi sembra quindi così assurdo, anzi durante l’indagine micropsicoanalitica i due personaggi dell’impresa vengono sovente a contatto con una fenomenologia che travalica l’ontogenesi. La dilatazione del dato osservabile conseguita con la seduta lunga fa apparire costantemente le determinanti genetiche di qualsiasi fenomeno. L’Autore, per esempio, verifica nel suo lavoro l’ipotesi micropsicoanalitica di una interpretazione delle psicopatologie come una anomalia nei processi di attualizzazione dello psichismo per cui l’involucro ontogenetico è una sorta di esecutore cieco di desideri ideici non perfettamente filtrati dall’Immagine.
Dal punto di vista ontogenetico l’Autore ipotizza che nel processo di attualizzazione dello psichismo che avviene durante la vita intrauterina non si sia verificata una sufficiente armonizzazione dei corredi iconici ereditari (la guerra tra il phylum materno e paterno è già in atto) e lo psichismo del soggetto diventa una sorta di scanner in perenne ricerca di reciprocità iconiche che fungono da nucleo di ancoraggio per le gittate proiettive e le susseguenti saldature costituite nel processo introiettivo. Si verifica così, negli psicotici, una attività proiettiva a vuoto: questi pazienti sono costantemente risucchiati dal loro passato filogenetico, sono dei “mai nati “.
Le idee di Quirino Zangrilli si rifanno a quelle di Silvio Fanti e cioè che una gran parte del ruolo di informatizzazione dell’involucro ontogenetico venga svolta dal sonno sismico fetale e dai suoi derivati nel sonno-sogno post-natale.
In questo contesto il libro contiene un approfondimento rispetto alle dinamiche transferali che vengono considerate un’occasione di vincolamento rispetto alle risultanti dei microtraumi filogenetici. La proiezione sull’analista e il suo mondo (reale o fantasmatico) dell’accumulo traumatico filogenetico consente di vincolare in una vicenda vissuta, storicizzabile e quindi intellegibile, affetti senza forma rappresentazionale, altrimenti inesprimibili. In questo modo a volte lo psicotico riesce con dei frammenti a ricostruirsi una protezione iconica.
La presenza nello psicotico di percezioni iconiche seppur momentanee è spiegabile facendo ricorso al concetto di “nastro psichico“. Per Fanti, nell’essere umano, c’è una continuità ed una interpenetrazione continua tra i tre stati psichici: normalità, nevrosi, psicosi. Questi tre strati del nastro psichico si infiltrano vicendevolmente e la presenza e la frequenza di manifestazioni normali, nevrotiche o psicotiche è messa in relazione con il lavoro di barriera energetica svolto dalle sfaccettature iconiche nei confronti dell’attrazione esercitata dal vuoto. Se l’essere umano non avesse la possibilità di rieditare tentativi filogenetici di organizzazione copulsionale, lo psicotico non potrebbe aggregare le tracce rappresentazionali-affettive atte a difendere il suo tentativo individuale di esistenza, che ha incontrato uno scacco disgregativo nell’ontogenesi intrauterina. Di fatto la possibilità che si offre ad un paziente psicotico, nel corso della micropsicoanalisi, è quella di poter riaggregare, in un insieme relativamente stabile, le tracce genealogiche delle esperienze co-pulsionali. Un lavoro quindi di ricostruzione dello schermo iconico frammentato che avviene nell’incontro tra il terreno psichico dell’analizzato e quello del suo micropsicoanalista.
Nel capitolo denominato “immagini e amore” l’Autore tenta di mettere in luce il ruolo determinante svolto dall’Immagine nel contatto e il suggello di un rapporto sentimentale, riconducendo l’attrazione amorosa all’ipotesi micropsicoanalitica di “iconotropismo”: parentela di sfaccettature iconiche. L’accettazione di tale ipotesi toglie molta della drammaticità che di solito viene attribuita alla fine di un amore o all’impossibilità di strutturare un rapporto soddisfacente tra genitori e figli: persone apparentate biologicamente possono essere così lontane dal punto di vista iconico che la sintonia risulta impossibile.
L’Autore studia con l’ausilio di numerosi casi clinici il pesante condizionamento ancestrale che guida gli incontri amorosi.
Uno dei più interessanti capitoli del libro è quello dedicato alla psicosomatica. Contiene una critica argomentata dei pericoli insiti nella moderna medicina tecnologica, ferma ad una concezione meccanicistica dell’uomo.
Per Quirino Zangrilli la visione micropsicoanalitica dell’essere umano inteso come entità psicobiologica, risultante di un insieme di tentativi la cui energia ideica si struttura in energia psichica e materiale, permette di concepire lo stato di malattia come tentativo transitorio (in corso di strutturazione) di vincolamento del surplus tensionale al fine di mantenere, in seno all’entità, il principio di costanza del vuoto. La vita (intesa come mantenimento per ripetizione di forme e strutture) e lo stato di “salute“ sono la risultante di un equilibrio dinamico-oscillatorio tra azione (ritorno al vuoto-pulsione di morte) e reazione (fuga dal vuoto-pulsione di vita). Queste condizioni di equilibrio dinamico sono assicurate da una plasticità dell’es nell’interazione con il terreno psicobiologico che modula la relazione tra l’energetica ideica e la motricità pulsionale e co-pulsionale deviando il surplus tensionale sulle entità psichiche e/o sulle cellule.
Se, con l’Autore, si accetta questo punto di vista dinamico-oscillatorio del fenomeno ci si rende conto che le strutture, per mantenere un certo livello di coesione vitale, devono costantemente assicurarsi una porta aperta al vuoto da cui trarre l’energia che ne alimenta il mantenimento e la spinta all’organizzazione energetico-pulsionale. In altre parole, una “pelle iconica“ della struttura, non sufficientemente plastica, può determinarne l’impoverimento energetico, e la rottura. Per questo il conseguimento di uno stato di benessere inteso come assenza di qualsiasi anomalia che il moderno modello biomedico sembra incessantemente ricercare, non solo è illusorio, ma non può che essere casuale, parziale e temporaneo.

NICOLA PELUFFO
Prof. di Psicologia Dinamica
Università di Torino

N.B.: il Volume attualmente è esaurito ed in attesa di una riedizione rivisitata.