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Non credo mi sarei occupato di questo argomento se una domanda postami da una studentessa di liceo non mi avesse portato a riflettere che in tanti anni di lavoro i concetti di bello e di sublime non avevano mai risvegliato la mia curiosità. Eppure mi ero occupato di arte e avevo anche scritto qualche cosa al riguardo.

L’argomento in questione è un classico studiato in modo diretto dalla storia dell’arte e dalla filosofia ma di non facile definizione.
Da psicologo che ha guardato tante opere più o meno d’arte, io direi che il bello tocca il campo delle sensazioni-percezioni; il sublime, passa il confine, va verso l’alto, in senso figurato, e tocca le corde del sentimento individuale, forse universale.
In Francia nel XVII e XVIII secolo, la parola “sublime” conservava gran parte dell’etimologia latina (sublimis = elevato, superiore) e quando Leibniz nei “Nouveau essais ” (IV, cap. XVII) scrive: “Je vois bien que ce que apportez appartient à une logique plus sublime” intende una logica di ordine superiore. In quell’epoca sublime indica elevato; il sublime segnala una bellezza nobile, elevata, la bellezza nella grandezza.
Un pollo può essere bello, difficilmente sarà sublime, a meno che non evochi associativamente una situazione del passato ricca di affetto e che richiami un momento in cui l’energia della pulsione è stata sublimata . Sublimare in definitiva, dal punto di vista psicologico, significa spostare le spinte pulsionali (istintive) dal loro obiettivo originario e riversarle, trasformate, in campi di attività socialmente accettati.
Dato che la spinta pulsionale nutre energeticamente il desiderio, la trasformazione del desiderio sarà molto ricca di energia e avrà quindi la forza di assumere una forma stabile e ben “formata”. Per esempio il desiderio infantile di conoscere il proprio corpo e quello altrui può trasformarsi in una grande passione e abilità per la riproduzione del “nudo”, sia in fotografia che in disegno, pittura e scultura.
Lo studio dell’anatomia è stato uno degli obiettivi di Leonardo da Vinci e possiamo senz’altro dire che le forme dei suoi disegni che trattano l’argomento sono “belle”. Quando queste forme sono poi trasposte in situazioni in cui scorre il sentimento diventano “sublimi”: basta guardare la Vergine delle Rocce specialmente nella versione che si trova in Francia al Louvre.
Una considerazione che si può fare, in se banale, è che se un’opera bella e sublime, supponiamo il Mosé di Michelangelo, viene copiata oggi, alla perfezione, forse potrà essere classificata “bella” (una bella copia) ma certamente non sarà sublime.
Evidentemente nello stato d’animo che noi descriviamo con la parola sublime non esiste solo la perfezione della forma ma anche la traccia della relazione dell’artista con la sua opera che incontra la sensibilità del fruitore dell’opera stessa. In parole povere chi guarda o ascolta (musica) o legge (prosa o poesia) si identifica all’artista e ne rivive lo stato d’animo.
S. Freud nelle prime pagine del suo “Il Mosé di Michelangelo” si sofferma sul fatto assurdo che le opere artistiche più belle e sublimi rimangono oscure alla nostra comprensione e che i critici o comunque chi le studia, difficilmente dicano la stessa cosa di un altro. Cito le sue parole (Freud, Opere, pag. 300, vol. VII, ed. Boringhieri, Torino): “Ciò che ci avvince con tanta forza non può essere a mio modo di vedere, se non l’intenzione dell’artista, nella misura in cui egli sia riuscito ad esprimere tale intenzione nella sua opera e a renderla intelligibile ai nostri occhi. Mi rendo conto che non può trattarsi di una comprensione puramente intellettuale: deve destarsi in noi la stessa disposizione affettiva, la stessa costellazione psichica che ha sospinto l’artista alla creazione”.
Per fornire un esempio molto chiaro, Freud parlando della statua marmorea del Mosé di Michelangelo, innalzata nella chiesa di S. Pietro in Vincoli a Roma (doveva far parte del gigantesco monumento funebre commissionato a Michelangelo dal Papa savonese Giulio II) scrive: “Quante volte ho salito la rapida scalinata che porta dall’infelice via Cavour alla solitaria piazza dove sorge la chiesa abbandonata! E sempre ho cercato di tener testa allo sguardo corrucciato e sprezzante dell’eroe, e mi è capitato qualche volta di svignarmela poi quatto quatto dalla penombra di quell’interno, come se anch’io appartenessi alla marmaglia sulla quale è puntato il suo occhio, una marmaglia che non può tenere fede a nessuna convinzione, che non vuole aspettare né credere, ed esulta quando torna ad impossessarsi dei suoi idoli illusori”.
Difficilmente, di fronte al Mosé, una persona potrà dire “bello” e andare oltre. Se lo fa è perché non ha sintonizzato la sua psiche con l’opera oppure perché ne è troppo coinvolta e scappa.
Edmond Burke, il filosofo e uomo politico irlandese che nel 1757 scrive la sua, poi famosa,”A philosophical inquiry into the origin of our ideas of the sublime and beautiful “avrebbe trovato nella descrizione di Freud, conferma alle sue idee quando afferma che il sublime è legato alla paura, perché è ciò che minaccia la propria autoconservazione. Se uno scappa ha paura; io penso però che non sia paura per la propria vita, bensì la sensazione della perdita dei propri confini, cioè di entrare in una dimensione troppo vasta per un piccolo essere umano; che poi è ciò che scrive Kant. .
Dal punto di vista della letteratura italiana, la più classica illustrazione di questa filosofia è contenuta nella poesia di Leopardi “L’Infinito”. Anche il Pascoli in poesie come “Il Bolide” tratta questo stato d’animo del Sublime che, come scrive un altro poeta, Angelo Barile, è presente nel suo Sentimento Cosmico che lo mette in contatto con l’Universo.
A questo punto direi che il “bello” è terreno, è tranquillizzante, cioè induce un sentimento di distensione a volte contemplativa; il “sublime” va oltre al bello ed è diverso dal “bellissimo” poiché contiene quella spinta che dirige l’essere umano oltre i suoi confini e lo confronta con l’inconoscibile.
Potremmo dire che nella percezione del sublime l’essere umano avverte la traccia dei processi che lo formano, così come formano tutto ciò che esiste. Entra in contatto con la continuità del suo vuoto costitutivo che lo lega con altri fenomeni dai quali però resta separato dai confini della sua forma specifica. Ecco, la percezione della forma definisce il bello; la percezione della dinamica energetica che spinge l’uomo a superare i confini di tale forma e a conoscerne i processi strutturali definisce il sublime. E’ appunto in questo passaggio che insorge l’angoscia, un’angoscia di destrutturazione, del “non poter più tornare indietro” e di perdersi nell’indifferenziato

© Nicola Peluffo