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Un film profondo, attento ai piccoli dettagli della sensibilità femminile, bellissimo.
Tenendo conto della preziosa filmografia dell’Autore (e segnatamente del suo ultimo Dolor y gloria) potremmo dire che Madres paralelas affronta, da una prospettiva gender fluid, la certezza della diversità fra i generi proprio sul dettaglio della maternità.
Due donne partoriscono contemporaneamente in un ospedale. Sono donne single, ma entrambe hanno voluto i loro figli. Una è matura e si vede alla soglia dell’età in cui non potrà avere più bambini, quindi allontana il partner che le chiede di interrompere la gravidanza
L’altra è minorenne, un’abbandonica lasciata sola dalla famiglia, con una madre narcisista e disempatica, il cui pensiero prevalente “è di piacere”. Ha concepito in stato di alterazione da sostanze, in una di quelle nottate libertarie che si fantasticano quando si parla di “Movida”, che non è più quel clima “di vitalità sociale, culturale e artistica“ che caratterizzò la Spagna appena tornata alla democrazia, ma che si è diffusa nelle realtà urbane in forma di attività per lo più notturne, in cui l’uso di alcolici ed altre sostanze viene comunemente e tacitamente tollerato.
Comunque nascono due bambine che hanno entrambe bisogno di cure e vengono sottratte alle madri nelle prime ore di vita.
Qui accade un evento tante volte descritto, noto nei miti e leggende di tutto il mondo (da Edipo, a Mosè, allo stesso fondatore di Roma): la sostituzione del neonato.
Le due bambine vengono sbadatamente invertite in neonatologia, ma nessuno se ne accorge fino a quando il padre va a visitare per la prima volta sua figlia.
Anche sugli uomini il regista riesce ad essere toccante, delicato, ma pur sempre marcatamente più succinto rispetto all’universo femminile al quale si sente più direttamente vicino.
Questo unico uomo del film si era accostato alla madre maggiore sulla base di un comune interesse intellettuale, storico e transgenerazionale: la ferita endemica della scomparsa di migliaia di dissidenti ad opera dei falangisti all’epoca dell’ascesa al potere del dittatore fascista Francisco Franco. Fra loro scoppia la passione, la gravidanza e l’innamoramento. Ma, alla comunicazione del concepimento, lui ha la testa altrove: un aborto gli pare semplice e, come facilmente dicono gli uomini, non sente di poter divorziare perché sua moglie è malata.
Per la donna la realtà è totalmente diversa: il bambino c’è ed è il vero profondo desiderio che la rende lontana anni luce dalle considerazioni maschili sul momento giusto, farne un altro dopo…. come se fosse possibile un evento di squartamento somatopsichico come l’aborto e la sostituzione di un figlio con un altro. Ma l’uomo non può capire.
Qui il regista stigmatizza un altro aspetto fondante delle differenze fa i sessi: quando il padre tornerà a conoscere sua figlia, noterà subito che la bambina è esotica (nel senso etimologico: ”esos”, esterno, straniero) e gli viene il consueto dubbio sull’incertezza della paternità, ossia che la donna abbia avuto un altro amante. L’uomo rappresenta, cioè, quell’incertezza tutta maschile di fronte al mistero e all’onnipotenza della sessualità femminile, che può sempre (copulare, concepire, manipolare, tenere il controllo) a fronte della fragilità maschile più impulsiva, sbrigativa, superficiale. Invece per la donna l’ambivalenza della maternità è a prescindere da quelle certezze: risponde al principio di conservazione della specie, ben al di là di quello dell’individuo. E Almodovar rappresenta questa ambivalenza fino all’accoglienza di un figlio non proprio (praticamente adottivo, ma potrebbe essere anche eterologo).
Tuttavia quella visita introdurrà nella madre il dubbio della sostituzione lasciando intatto il legame potente della maternità.
Dopo un breve e sofferto tentativo di negare questo pensiero, la donna ricorre all’accertamento genetico: deve ammettere che quella non è sua figlia e che il padre aveva ragione. L’altra giovane madre aveva la sua bambina, ma il fato ha voluto che morisse in culla, improvvisamente.
Molti sottili dettagli si susseguono su questo punto: la madre maggiore era angosciata dal controllo del respiro della neonata, specie nel sonno. Voleva che fosse sempre sul fianco, “perché non soffocasse con un rigurgito”, o aveva dei risvegli improvvisi in cui andava a prendere la piccola e se la teneva sul seno.
La giovane madre invece sembra più distesa/distante. Parlando del remoto fenomeno della morte in culla, dirà che “il cervello si dimentica di respirare”.
Questo punto potrebbe introdurre le riflessioni micropsicoanalitiche sulla vita prenatale e sulla sofferenza fetale determinata da stati patologici materni, sempre riconducibili al debito di ossigeno. Mente rinvio il lettore ad altri articoli pubblicati sulla Rivista, considero che oggi, spesso, queste condizioni sono correlate all’uso di sostanze psicotrope.

© Gioia Marzi