Sommario
Nella storia della psicoanalisi l’ipotesi di una trasmissione di moduli psichici da una generazione all’altra si è posta più volte, come sottolinea D. Marenco. 1
Già Freud in “Totem e tabù” (1913) parla di trasmissione filogenetica di gravi e ripetuti traumi. Freud considera sia l’ipotesi di una trasmissione tramite il trasferimento inconscio di identificazioni, sia l’ipotesi di una trasmissione ereditaria: “I divieti si sono quindi conservati di generazione in generazione forse soltanto a causa della tradizione, rappresentata dall’autorità dei genitori, o della società, o forse, invece, si sono organizzati nelle generazioni successive come patrimonio psichico ereditario”.
Nel 1923, definisce le istanze psichiche come Es, Io e Super-Io e definisce l’eredità psichica come patrimonio di esperienze ripetute, depositate all’interno dell’Es: “Quando (le esperienze dell’Io) si ripetono con sufficiente frequenza e intensità per molti individui delle successive generazioni, esse si trasformano per così dire in esperienze dell’Es, le cui impressioni vengono consolidate attraverso la trasmissione ereditaria. In tal modo l’Es, divenuto depositario di questa eredità, custodisce in sé i residui di innumerevoli esistenze di Io.” 2
Negli ultimi decenni diverse scuole di psicoanalisi hanno affrontato il tema della trasmissione dei traumi, particolarmente in riferimento alla transgenerazionalità, cioè al passaggio di sintomi, meccanismi di difesa, organizzazione delle relazioni oggettuali, sensi di colpa da una generazione all’altra.
Per Bowlby le esperienze interpersonali mantengono elementi di continuità ed elementi di trasformazione lungo tutto il corso della vita. Gli aspetti di continuità dipendono dall’elaborazione delle prime esperienze infantili con le proprie figure genitoriali.
Queste esperienze vengono codificate in sistemi di rappresentazione definiti da Bowlby come modelli operativi interni (MOI) (Bowlby, 1969, 1973, 1980, 1988) che influenzeranno le successive relazioni fino a divenire l’elemento di trasmissione intergenerazionale delle modalità interpersonali genitoriali. Infatti, i genitori esercitano un influsso lungo tutta la vita poiché il bambino interiorizza le prime interazioni con la figura d’accudimento, nei tre aspetti: l’immagine di sé, l’immagine dei genitori, e l’immagine della relazione. Nel corso dello sviluppo il bambino formerà i modelli rappresentativi dei genitori, i modelli rappresentativi di sé che riflettono l’immagine che i genitori hanno di lui, e i modelli della relazione tra il bambino e il genitore. Successivamente, nel corso della vita, ogni qualvolta il bambino dovrà confrontarsi con esperienze di relazione e con l’attivazione di emozioni di legame quali l’affetto, la paura di perdere la persona, il dolore per la perdita e la gioia di un legame, confronterà i nuovi dati con le precedenti esperienze e tenderà ad attribuire ad essi un significato coerente alle proprie strutture di significato, o più semplicemente, interpreterà le situazioni nuove alla luce delle precedenti esperienze. 3
Fainberg (1993) nota che nel materiale clinico di molti analizzati rintracciamo elementi transferali e ripetizioni il cui significato non è depositato nella vita del soggetto ma piuttosto nelle generazioni precedenti. Anche lei come Freud si rivolge ai processi di identificazione per cercare una spiegazione di queste trasmissioni inconsce.
Schützenberger (1993), riporta numerosi esempi riguardanti la ripetizione in più generazioni di moduli comportamentali: si tratta soprattutto di atti mancati che conducono ad incidenti autolesionisti in grado di riproporsi con inquietante somiglianza di padre in figlio. L’autrice premette che la comprensione del meccanismo psichico preposto alla trasmissione filogenetica non è ancora soddisfacente. Tuttavia presenta alcune ipotesi. Sin dalla vita uterina e poi lungo tutta la prima e seconda infanzia, il figlio diviene oggetto di molteplici proiezioni da parte dei genitori e di tutti i membri della famiglia: aspettative, fantasie, ruoli, rassomiglianze con antenati, assegnazione del nome di un defunto, ma anche inquietudini, angosce, ostilità.
Fin qui la Schützenberger sembra muoversi ancora nel campo delle identificazioni e proiezioni ma poi aggiunge qualcosa che ci porta un poco più lontano: “Come le fate intorno alla culla della bella addormentata nel bosco, i membri del gruppo familiare dicono e predicono cose, ruoli, ingiunzioni, scenari futuri, ma anche tacciono, mostrano con il loro silenzio l’inquietante presenza di non detti, aree della vita familiare a cui il bambino non deve avvicinarsi, pensare. Ed è per questa via, questo gioco di scambi e relazioni del gruppo familiare che il bambino viene formato, gli si assegna un posto nel sistema, vengono orientate le sue scelte, gli interessi, le relazioni, il destino.” 4
L’elemento nuovo è l’accenno ai non detti, ad aree di pensiero vietate, spazi mentali apparentemente vuoti ma le cui periferie sono così affollate di segnali intessuti di silenzi e ingiunzioni, da caricarsi di un intensità in grado di suscitare molti fantasmi in coloro che ne vengono attirati. Ricordiamo che il fantasma psichico è uno scenario inconscio nel quale viene rappresentato un conflitto e per organizzarsi necessita appunto di uno spazio vuoto, ad esempio, una carenza di dati di realtà, o di coerenza negli scambi relazionali.
Entriamo più all’interno della sua riflessione: l’autrice riprende il pensiero di un suo maestro, Boszormenyi-Nagy, secondo il quale le risposte mentali di ogni individuo sono determinate dalla sua psicologia ma anche dalle regole del suo sistema familiare, regole implicite, in grado di orientare le condotte di ciascun membro del gruppo familiare secondo modelli, quali la vendetta, la diffidenza verso l’estraneo, il tradimento, lo sfruttamento, oppure l’attitudine generosa, l’investimento sulle generazioni successive, la spinta a esplorare, ecc. Ancora, modelli familiari complementari: alcuni curano e altri sono curati, oppure modelli simmetrici: chi cura, verrà curato a sua volta.
Tali modelli funzionano come gestalt inconsce tese ad equilibrare le diverse spinte del gruppo: troppa chiusura viene bilanciata da un altro modello, orientato diversamente, ecc. Ma in alcuni casi le gestalt incrementano il loro modello che diviene unico, come forse accade quando un gruppo è vittima di un trauma importante.
L’autrice porta un esempio positivo, racconta come da giovane studente accettò senza alcun problema una somma di denaro offertale da una sua cugina in un momento in cui era in difficoltà. I suoi colleghi si erano stupiti sia per la facilità con cui la cugina le aveva proposto il prestito sia della sua nell’accettarlo.
E a spiegazione di questo modello familiare che spinge al sostegno reciproco, porta la storia di suo nonno che, orfano a 14 anni, aveva lavorato duramente per allevare i fratelli e farli studiare. Successivamente uno di loro aveva fatto fortuna ed è la figlia di questo zio che le aveva tranquillamente offerto del denaro: sua cugina discendeva da questo fratellino del nonno, e da qualche parte c’era un modulo di azione, un modello, che spingeva i familiari non solo ad aiutarsi ma anche a mantenere in equilibrio i gesti di cura e generosità, da e verso chi ne aveva beneficiato nelle generazioni precedenti.
L’autrice commenta: “Esiste una contabilità familiare implicita che non riguarda soltanto il denaro….. ma anche l’affetto, il sostegno, la sicurezza… Ci sono anche delle ingiustizie subite che fanno male. Lo vedo molto spesso nello scatenarsi di un tumore legato allo stress o al risentimento, oltre che ad altri fattori…. Le persone non arrivano a perdonare l’ingiustizia subita. La malattia è legata (anche) a questa contabilità complessa, a ciò che è dovuto e a ciò che si deve in famiglia..” (op. cit.)
Molti malati non riescono ad accettare le ingiustizie subite, un riconoscimento mancato, un affetto negato, e tale rifiuto può depositarsi nei modelli familiari, anche nel suo aspetto speculare, ovvero per coloro che sono stati beneficiati sul piano della salute, del successo o della sopravvivenza, i quali si sentono debitori. Esiste un senso di colpa del sopravvissuto, ad esempio tra coloro che sono tornati vivi dai campi di concentramento o dalla guerra o dalla febbre spagnola che intorno al 1920 fece 20 milioni di morti in Europa devastando paesi, città e famiglie.
I chirurghi di Napoleone, durante la devastante ritirata dalla Russia nel 1812, avevano osservato gli effetti di uno shock traumatico nei soldati sopravvissuti assistendo al massacro dei loro compagni e al “vento di proiettili” che li aveva sterminati. Alcuni ne avevano cancellato il ricordo, altri erano profondamente segnati e per alcuni le conseguenze di questo shock si erano trasferite ai loro discendenti che mostravano una importante sintomatologia post traumatica durante i periodi di anniversario del trauma, per una sorta di collisione spazio temporale tra le generazioni.
L’autrice propone di studiare sempre attentamente le dinamiche familiari dei pazienti e presenta uno strumento di indagine utile a tracciare una mappa sincronica degli avvenimenti familiari, ossia ciò che capita nello stesso periodo ai diversi membri del gruppo. Una specie di albero genealogico, o genogramma, completo dei fatti significativi e dei legami importanti, e anche dei traumi: abbandoni, morti premature, danni subiti. L’elaborazione di questo genogramma consente spesso ai pazienti di verificare la presenza di importanti non detti riguardanti sia i fatti che sono stati nascosti – come ad esempio una nascita irregolare – sia e soprattutto la trasmissione delle risposte affettive – come l’angoscia – passate dai genitori ai figli senza un supporto percebilie che renda il bambino consapevole dei motivi di quelle emozioni.
I clinici che hanno curato la generazione dei bambini nati dopo l’olocausto – e l’autrice ricorda in Francia F. Dolto, N. Abraham, M. Török, e altri – hanno ipotizzato l’agire di una rimozione da una generazione all’altra, un non detto organizzato nell’arco di più generazioni: alla prima generazione entra nel rapporto dei genitori con i figli sotto forma di segreto taciuto, capace di generare una sofferenza rappresentata psichicamente ma non esprimibile. Nella generazione successiva, quella dei figli, il segreto si incista nell’inconscio, fino a che, alla terza generazione, i figli dei figli, il non detto, non dicibile, diventa non pensabile, non rappresentabile psichicamente per convertirsi così in un fantasma inconscio che perseguita i discendenti con la potenza della spinta traumatica, senza conservare il ricordo dell’evento scatenante.
I segreti, il non detto, minano o disturbano la coerenza psichica inconscia. Nelle generazioni successive, le ripetizioni si manifestano senza alcuna presa di coscienza da parte dei soggetti coinvolti.
In molti casi, i passatempi delle persone derivano dai segreti di famiglia e ne conservano l’intensità della spinta. Ad esempio, un uomo che ignorava la storia di suo nonno materno, era un geologo dilettante molto appassionato e ogni domenica andava a raccogliere sassi,
li spaccava e catalogava. Nello stesso tempo cacciava farfalle, le catturava e le uccideva con il cianuro. Per una sua crisi esistenziale iniziò una psicoterapia e fece il suo genogramma. Si rese così conto che di questo nonno non aveva alcuna notizia. C’era dunque un segreto!
Le sue indagini lo portarono a scoprire che costui aveva fatto cose assai malvagie per le quali era stato inviato in un battaglione di punizione a “spaccare sassi” in Africa, in seguito era stato condannato alla camera a gas, cosa che anche sua figlia, madre del nostro geologo dilettante, ignorava. Dunque, raccogliere sassi, spaccarli, uccidere farfalle con il cianuro avevano un forte senso simbolico completamente rimosso nella realtà familiare, che tuttavia lo spingeva a proseguire, per coazione a ripetere, i gesti del suo avo e, sempre per coazione ripeterne, la fine tramite il sostituto delle farfalle. In sua madre, figlia del condannato, il trauma aveva cominciato a perdere le parole con le quali essere ricordato, ma aveva conservato la spinta disorganizzatrice, trasferita in seguito al figlio, sospinto a proseguire a sua volta il compito di attenuare la portata energetico – affettiva del trauma.
La Schützenberger richiama diversi studi clinici, a partire da quelli di Bowlby, condotti sui bambini abbandonati; essi hanno dimostrato che la grande maggioranza di questi bambini reca le ferite psichiche del trauma sotto forma di disadattamento, problemi psicologici, malattie psichiatriche, ecc. ma un certo numero di loro manifesta una tale capacità di resistenza da riuscire a superare il lungo periodo traumatico e costruirsi un futuro equilibrato.
Ne parla in diversi libri Cyrulnik (2009), un figlio di ebrei morti in Germania, che riuscì e diventare psichiatra ed occuparsi delle sofferenze di altri.
La cosa incredibile è che i figli dei bambini sopravvissuti in modi a volte incredibili, stanno peggio dei loro genitori, perché ‘il trauma trasmesso è più forte di quello ricevuto”. (p. 108) Tale affermazione è stata verificata a livello biochimico con la constatazione che in un campione significativo di discendenti i livelli di cortisolo erano ben più alti che nei loro genitori che avevano subito il trauma.
Se ne conclude che anche questi figli avrebbero avuto bisogno di elaborare un trauma non vissuto personalmente e ben superato dalla generazione precedente. Così si registra una presenza statisticamente significativa di incubi ricorrenti nei nipoti di deportati, guerriglieri, naufraghi e in generale nei discendenti di coloro che hanno vissuto un trauma senza la possibilità di elaborarlo completamente.
UN ESEMPIO CLINICO
La situazione clinica presentata da O. Greco 5 mostra l’agire transgenerazionale di un modello relazionale disfunzionale, trasmesso per coazione a ripetere. L’evento traumatico originario fu una gravidanza al di fuori del matrimonio e la conseguente della necessità di mantenere segreta l’origine del figlio. L’ipotesi clinica intorno a cui l’autrice ha lavorato è la presenza di un trauma “non-narrabile” all’inizio del meccanismo familiare di ripetizione.
Una giovane donna, che chiameremo Meg, si rivolge allo psicoterapeuta perché il suo figlio di quattro anni, nei disegni della famiglia raffigura due papà. Le educatrici della scuola avvisano la madre che si spaventa e chiede aiuto. In un primo colloquio con i genitori, emerge l’effettiva esistenza di “due papà”, perché Meg, ha avuto il primo figlio, Alex, dalla relazione con un giovane che non aveva riconosciuto il bambino.
Due anni dopo la nascita del figlio, Meg conosce l’attuale marito, che dopo il matrimonio adotta il figlio della moglie. I coniugi decidono di tenere segreta la diversa origine del figlio maggiore. Ma, come si è visto, in qualche modo misterioso la presenza di due papà circola nella famiglia.
Il terapeuta propone allora alla madre di lavorare per comprendere perché si sia spaventata così tanto per il disegno del bambino. Si evince un grave senso di colpa verso il suo primo figlio, inoltre si rivela una situazione particolare, perché quando Meg aveva diciotto anni e sua sorella trenta, in pochi mesi morirono prima il padre poi la madre. In quel frangente Meg venne a sapere che il padre appena morto era solo suo padre, non della sorella. La notizia la sconvolse, ma le sorelle non parlarono insieme della loro storia familiare e non riuscirono ad aiutarsi reciprocamente. Un anno dopo, Meg resta incinta del primo figlio, Alex.
Mentre racconta, Meg sembra non essere consapevole di aver ripetuto la storia della madre. Il terapeuta decide di allargare il setting anche alla sorella di Meg che racconterà come la loro madre, negli anni cinquanta, si trovò ad avere un figlio senza essere sposata, con tutta la vergogna che questo comportò per l’intera famiglia che aveva recluso madre e figlia primogenita in casa, fino a quando la donna non si sposò prendendo con sé la figlia Rose, ormai undicenne.
Meg chiede a sua sorella se vuole parlare delle sue emozioni di allora ma Rose non vuole parlare di sé.
Il terapeuta propone allora che le due sorelle costruiscano insieme il loro Genogramma, nell’ipotesi che l’utilizzo di uno strumento grafico- proiettivo, apparentemente più indiretto, possa aiutarle a superare le difese costruite negli anni e permetta l’accesso ad una elaborazione della storia familiare.
E’ nella lenta costruzione del loro Genogramma che Meg ha un improvviso insight ed esclama: “ma nella nostra famiglia succedono sempre le stesse cose!” e la sorella mormora: “sembra una maledizione!”
Il terapeuta ha così lo spazio per introdurre il pensiero che non si tratta di destino o di colpa, ma forse una sofferenza rimasta senza parole che ha cercato di riproporsi per venire attenuata. Così le generazioni successive sono rimaste in un certo senso bloccate intorno all’area del trauma originario, che veniva ripetuto nel tentativo di arrivare più vicino alle emozioni rimaste imprigionate con il silenzio.
Allora Meg si fa coraggio e dice alla sorella: “allora anche l’aborto di tua figlia è la stessa storia che si ripete!” Anche la figlia di Rose, Mary, infatti, è rimasta incinta in una relazione precaria, che si è rotta al momento della gravidanza, e la stessa vicenda familiare non si è ripetuta per la terza volta, solo perché la giovane aveva abortito. Per la prima volta Rose si lascia andare e parla alla sorella delle umiliazioni vissute da bambina e aggiunge che non aveva mai potuto parlarne con la mamma, soprattutto dopo il matrimonio della mamma con il padre di Meg. Rose non aveva mai potuto parlarne con nessuno, perché la storia doveva essere tenuta segreta, anche a Meg.
Dopo alcuni mesi di terapia, Meg è decisa a parlare ai suoi figli, anche perché Alex continua a dire al fratello “io sono adottato, perché non ci sono fotografie con il papà quando io ero piccolo”. Second Meg, è impossibile restare passivi in quella situazione. Il marito appare non disponibile a svelare la verità ai due figli, e dice a Meg che è completamente pazza a mettere in pericolo l’equilibrio della loro famiglia.
Un giorno, Meg dice di aver parlato con Alex nell’ultimo weekend, e il bambino, con sua grande meraviglia, non è rimasto troppo sorpreso.
In una situazione difficile sia per lei che per i figli, Meg sembra aver acquisito la capacità di fare delle scelte autonome e di fronteggiare apertamente i problemi, rifiutando le vecchie modalità di occultamento.
L’autrice commenta il caso notando che in questa famiglia era impossibile stabilire relazioni fondate sulla fiducia speranza dopo un errore vissuto come imperdonabile attraverso le generazioni.
Nella prima generazione, il segreto è mantenuto contro la seconda figlia e lega in modo disfunzionale la madre e la prima figlia. Nella terza generazione, il segreto è mantenuto contro il padre divorziato, escludendolo dalla conoscenza della gravidanza della figlia e dal seguente aborto.
Ritengo molto utile indagare l’eventuale presenza di traumatismi lungo le generazioni di un gruppo familiare; noi micropsicoanalisti lo facciamo con uno strumento chiamato “studio dell’albero genealogico”. Notiamo sovente l’agire di correnti di tensione, moduli ripetitivi, comportamenti incomprensibili non spiegabili senza il ricorso alla storia familiare.
Ritengo che ogni trauma non elaborato lasci la sua impronta nel tessuto psichico e tuttavia i traumi possono seguire due destini differenti a seconda delle risorse della famiglia: gli uni non perderanno la loro carica energetico – affettiva e si trasferiranno anche senza contenuto rappresentativo alle generazioni successive. Gli altri troveranno un terreno familiare capace di elaborazione e perderanno progressivamente la carica patogena.
L’esempio precedente del geologo dilettante che spaccava pietre e uccideva farfalle mi sembra spieghi cosa intendo dire: tre generazioni prima della sua un uomo faceva male a tanta gente per essere infine giustiziato e successivamente l’eco di quelle spinte distruttive aveva trovato una modalità socialmente accettabile per manifestarsi proponendo al suo personaggio attuale sia una forma di ripetizione attenuata delle conseguenze dei suoi atti, sia una forma simbolica di ripetizione della morte dell’avo, nel tentativo ipotizzabile di bloccare la sua ripresentazione traumatica. Notiamo che fino a questo punto il trauma filogenetico o transgenerazionale rimanda, pur nelle differenze tra i singoli studiosi, a un evento reale che per diverse vie si iscrive nello psichismo e si trasferisce in seguito alle generazioni successive.
Nuovamente, sembra che nell’affrontare un tema complesso come la trasmissione transgenerazionale, non si possa evitare il ricorso a dati di realtà che stanno forse al posto di ipotesi maggiormente ancorate alle dinamiche psichiche. Ecco che l’evento scatenante la risposta patogena è un fatto concreto: una morte tragica, una separazione precoce, una rovina familiare, oppure le vicende che riguardarono vasti gruppi, come le guerre, le epidemie, ecc.
Tale scivolamento verso una realtà tanto più ingombrante per uno psicologo quanto meno egli possiede strumenti in grado di misurarla, ci appare la misura della fatica ad affrontare terreni ardui come la spiegazione di come avvenga la trasmissione di una traccia traumatica.
Vedremo più avanti che per nostra fortuna l’incontro tra psicoanalisi e neuroscienze permette oggi di formulare ipotesi utili a gettare un ponte tra realtà esterna e realtà psichica. Torniamo ora alle spiegazioni tradizionali della psicoanalisi e micropsicoanalisi.
La micropsicoanalisi, ricorda Marenco (op. cit.), articola il fenomeno della trasmissione transgenerazionale dei traumi alla rimozione e alla coazione a ripetere, tramite l’agire dell’immagine.
L’Immagine, in micropsicoanalisi, è definita come un insieme organizzato di rappresentazioni ed affetti derivati da tutte le esperienze pulsionali. Intendiamo come esperienze pulsionali una ampia gamma di fenomeni, dalle esperienze sensoriali, presimboliche, protoemotive della vita intrauterina e della prima infanzia, fino alle grandi configurazioni edipiche. Chiamiamo pulsionali certe esperienze quando sono orientate verso la ricerca del piacere, inteso come lo intendeva Freud, ovvero come diminuzione della tensione.
Certe esperienze, ad esempio sensoriali, ad esempio la percezione della voce materna, si possono fissare come tracce nello psichismo quando sono connesse a una situazione in cui si è soddisfatto un desiderio. Per questa via si depositano appunto una serie molto soggettiva di tracce, sotto forma di rappresentazioni e affetti, la cui organizzazione struttura l’inconscio di ciascuno, nel senso che assegna una forma soggettiva.
L’immagine filogenetica, prosegue Marenco, “è quindi una sorta di modulo d’azione che trova nei nuclei di fissazione e nella rimozione ontogenetica i codici espressivi. Di generazione in generazione questo modulo si ripeterà ed agirà la persona trovando i suoi codici espressivi nelle vicende ontogenetiche”.
Un modulo di azione può essere ad esempio, un insieme psichico il cui messaggio è: “Non ti muovere, non allontanarti dai tuoi”; attivato in seguito all’esperienza ripetuta per quel nucleo familiare di bambini perduti. Tale modulo, di natura difensiva, assume i codici espressivi del momento storico, ora la regole matrimoniale che imponeva al ragazzo di restare nella casa paterna anche da sposato; più recentemente, la difficoltà di trovare un buon lavoro che lascia il giovane presso la sua famiglia, ecc.
In questo senso i contenuti espressivi dell’azione varieranno secondo il periodo storico: ad esempio la tendenza a vincolare un conflitto tramite l’actin-out autolesionistico “si esprimerà, nelle diverse generazioni, in modi diversi quali l’ardito della prima guerra mondiale, il corridore di corse clandestine oppure il tossicodipendente, eccetera.”
“Le vicende ontogenetiche sono influenzate dall’immagine filogenetica ma nel contempo partecipano alla sua strutturazione nell’attuale. Riprendendo l’esempio precedente: il modulo energetico primario esiste e spinge per replicarsi ma buoni processi sublimativi possono portare l’individuo a scelte avventurose ma non avventate, a volte socialmente utili e considerate dalla società meritorie. Ad esempio forti identificazioni con valenza sublimatoria possono deviare la spinta ripetitiva verso scelte di vita che comportano sacrifici personali e rischi importanti, ancorando in queste situazioni esistenziali la spinta all’autodistruzione il rischio del suicidio mascherato può diventare minore.” (Marenco, op. cit. )
Nella ripetizione transgenerazionale il contenuto rappresentativo del trauma sovente è perduto mentre rimangono le sue ripetizioni. Lo studio dell’albero genealogico, accompagnato alla presa di coscienza delle vicende ripetitive che scorrono di generazione in generazione, permette di costruire una rappresentazione conscia alla quale è possibile vincolare la spinta ripetitiva. Conclude Marenco: ”Se il tentativo riesce si riconnette il trauma ad uno spazio tempo: rendendolo conoscibile e rappresentabile lo si ancora al secondario permettendo la neutralizzazione delle esigenze di ripetizione.”
UN ESEMPIO CLINICO
Questa è la storia di una famiglia nella quale possiamo seguire un preciso modulo di azione lungo le generazioni: la difficoltà ad allevare bambini. Gli attuali rappresentanti faticano a riprodursi, non riescono per motivi diversi a fare figli. Consideriamo il ramo che ha come capostipite un’antenata, Elvira, la quale ebbe tre figli, i quali ebbero a loro volta, uno, due e tre figli: di questo ramo quasi nessuno dei figli si è riprodotto.
Osserviamo la dinamica a partire da Elvira. Ma è una convenzione, infatti quando parliamo di traumi filogenetici, dobbiamo pensare che più indietro si va nelle genrazioni, più troveremo episodi traumatici non risolti.
Comunque, Elvira nacque in una famiglia di commercianti del Nord Italia, ultimogenita di tre figli, i primi due, maschi. La bambina venne affidata da piccola a una coppia del paese, sterile. Era un uso abbastanza diffuso in Italia, secondo il quale le famiglie numerose affidavano uno o più figli ad altri, sia per alleggerire il peso di allevarli, sia per compiacere le coppie alle quali davano i bambini. Elvira crebbe con i nuovi genitori, due medici e ogni tanto andava a trovare i congiunti. Ormai anziana raccontava questa strana storia senza particolari emozioni ma abbiamo motivo di credere che da piccola avesse patito molto l’esclusione dalla propria famiglia, la separazione dalla madre e la gelosia per i fratelli maschi rimasti in casa. Tuttavia ne ebbe un vantaggio intellettuale perché i genitori adottivi la fecero studiare e nel 1903 si laureò a Milano, dopo aver soggiornato a lungo in Inghilterra e in Francia con delle borse di studio.
Una volta laureata, giovane, bella, si potrebbe supporre che avrebbe cercato un lavoro vicino al paese d’origine ma la giovane vinse un concorso per diventare insegnante e scelse la sede più lontana dalla sua regione natale. Si trasferì così nel profondo Sud d’Italia, una terra allora molto arretrata e diversa nei costumi e modi di vivere. Elvira non seppe mai giustificare quel gesto ma forse aveva sentito il bisogno di allontanarsi dalle sue due famiglie o forse aveva bisogno di trasformare in attività, azione, qualcosa che aveva subito: l’allontanamento.
Giunta nella cittadina prescelta, si era innamorata e sposata con un collega, un uomo intelligente e innamorato a sua volta, il quale però non voleva assolutamente avere figli. I figli erano venuti lo stesso ma questo padre non se ne occupava affatto, anzi era diventato molto violento soprattutto con il primo e l’ultimo, i due maschi, essi venivano picchiati al punto da aver bisogno sovente di cure mediche.
La madre, Elvira, non aveva mai denunciato il coniuge e copriva le pecosse con bugie di ogni tipo. Si vendicava inconsciamente dei suoi fratelli usando i propri figli come sostituti? Era incapace di proteggere un bambino così come lei stessa non era stata protetta? Era talmente presa dal marito che ne accettava anche la violenza? Aveva elaborato un’immagine materna pregna di sadismo?
Quando i figli erano divenuti adolescenti, l’uomo lasciò la famiglia per unirsi a una ragazza e non si occupò più dei congiunti. Elvira non si riprese mai dal lutto per la perdita del marito, dalla ferita narcisistica del tradimento, dalla ripetizione di un nuovo abbandono, e invecchiò rapidamente per vivere sempre con il pensiero al marito lontano. I suoi figli crebbero, ci fu la seconda guerra mondiale, andarono in guerra, tornarono a casa e si sposarono.
Il primogenito, Alberto, tornò dalla guerra distrutto nel corpo e nella mente. Si sposò con una donna di cui era molto innamorato e non accettò mai la figlia nata mentre lui era ancora soldato. Questa bambina crebbe in uno stato di abbandono, rifiutata dal padre e poco curata dalla madre che per non urtare il marito la affidava sempre ad altri. Costui, se non la maltrattava fisicamente, lo faceva regolarmente con parole feroci e umilianti. La piccola Teresa crebbe malaticcia e morì a 40 anni, senza essere riuscita a farsi una famiglia.
La secondogenita di Elvira, si sposò dopo la guerra con un giovane tornato da un lunghissimo periodo di prigionia, molto provato da quell’esperienza. Si erano innamorati e desideravano molti figli. Dopo il primo, nacque un bambino così difficile da mettere a dura prova la loro resistenza ed infine una femmina. Questi tre bambini, una volta cresciuti non riuscirono a fare figli. Il primo non ne voleva assolutamente, il secondo ne ebbe una ma senza sapere mai con certezza se fosse lui il padre, la terza non si riprodusse .
Il terzogenito di Elvira, Daniele, ebbe una figlia che non riusci in seguito ad avere bambini.
Le due bambine nate dalla seconda generazione dei discendenti di Elvira non hanno dunque avuto figli.
Ora, se cerchiamo di isolare un solo elemento da una storia famigliare complessa e sfumata, vediamo apparire un modulo di azione il cui messaggio sembra essere: meglio non avere figli. O forse: i figli sono da allontanare. Elvira lo ha innescato a seguito delle sue sofferenze infantili, del suo senso di abbandono, ma già i suoi genitori ne erano portatori e infatti la consegnarono a un altra famiglia. I tre figli di Elvira lo hanno raccolto e interpretato soggettivamente: i primogenito rifiuta la figlia, la secondogenita mette al mondo tre figli che non si riprodurranno, salvo quello in difficoltà, il terzogenito mette al mondo una figlia che non si riproduce. I figli nati nella terza generazione non faranno alcun figlio. In questo modo, il ramo genealogico che aveva Elvira capostipite si estingue. I suoi due fratelli non avevano avuto figli e quindi anche i genitori di Elvita non tramanderanno la loro eredità filogenetica ubbidendo per tale via alle esigenze di un modulo inconscio certamente di origine traumatica. Se dovessi fare una fantasia sull’origine di tale messaggio transgenerazionale, penserei a una situazione in cui fossero morti numerosi figli, forse tutti insieme, al punto da generare un dolore non governabile se non tramite il suo incistamento inconscio.
Possiamo notare che anche noi micropsicoanalisti inseriamo un dato di realtà “storica” considerando la trasmissione filogenetica dei traumi. Così, Nicola Peluffo, ipotizzava che: “… esistano accadimenti traumatici i quali … determinano una risposta ontogenetica alle stimolazioni interno-esterne, che tende a ricostruire la forma (nel senso di organizzazione di una struttura) di uno o più accadimenti catastrofici filogenetici (atavici ed ancestrali)… Si tratta della fissazione all’immagine di catastrofi che tendono a …. riapparire nell’ontogenesi, in una forma (sia fantasmatica che comportamentale) il più simile possibile a quella originaria, costringendo così l’essere umano a costruire delle difese che contrastano tale tendenza e lo obbligano a un equilibrio precario.” 6
A questa definizione di filogenesi ancestrale se ne associa un’altra che vede il trauma reale come un accadimento occorso non nella preistoria dell’umanità, ma in quella familiare: tale accadimento, afferma Peluffo “…richiede più generazioni per essere abreagito…e quindi continua a sussistere lungo la corrente delle onde generazionali, come esigenza dell’es”.
Accanto ai traumi generazionali si situano, come vedremo meglio più avanti, quelli intrauterini, ben specificati da Silvio Fanti (1984) nella definizione di stadio iniziatico ed in particolare in quella di sinapsi feto-materna: “Le proiezioni-identificazioni aggressive-sessuali della madre vincolano quelle che il feto utilizza per formare il suo es-io-super-io”.
Più che su un unico evento, si insiste sull’ipotesi della comparsa di microtraumi ripetuti, a partire dalla vita fetale ridando valore agli eventi perturbatori esterni, anche se nel concetto di sinapsi feto-materna è difficile considerare il polo materno come “esterno” a quello fetale. Tuttavia ritroviamo in numerosi scritti micropsicoanalitici il riferimento a traumi intrauterini come dato esplicativo della presenza di certe fissazioni, intese come cicatrici psichiche la cui origine sarebbe appunto traumatica.
La definizione di eredità filo-ontogenetica comporta una descrizione del trauma come di un evento extrapsichico, ossia proveniente dalla realtà esterna, che coinvolge il soggetto modificandone la dinamica psichica.
Si è creata una certa deriva concettuale che da quello di trauma si sposta verso il concetto di filogenesi in generale lasciando a volte vago il nucleo portante dell’ereditarietà, ovvero lasciando intendere a tratti che si erediti un patrimonio di contenuti psichici, a tratti che il nucleo filogenetico sia energetico, a tratti che le due cose siano sovrapponibili.
Cercherò di orientarmi riprendendo un lavoro di Daniel Lysek e Pierre Codoni 7 . I due autori distinguono i supporti strutturali ed i supporti dinamici nell’eredità psichica.
Quelli strutturali sono composti tracce pulsionali presenti nell’Es. Non siamo quindi al livello dei contenuti dell’inconscio, bensì ad una soglia ben precedente dell’organizzazione psichica. Ovulo e spermatozoo veicolerebbero le tracce di esperienze pulsionali delle linee ancestrali materna e paterna, che costituiscono la “base proiettiva delle nostre identificazioni primarie, condizionano la rimozione ontogenetica e determinano le strutturazioni rappresentazionali – affettive del nostro sviluppo aggressivo – sessuale.. ”
Esistono poi, secondo i due autori, dei supporti dinamici dell’eredità psichica, ovvero: “Degli schemi pulsionali fissati nell’es-inconscio durante l’ontogenesi di un genitore, nonno o antenato, e trasmessi a partire dalla fecondazione. ” (op. cit) Sono schemi riguardanti fonte, oggetto, meta e destini pulsionali, esperienze di soddisfacimento o frustrazione, desideri, meccanismi di difesa e fantasmi.
Nuovamente sottolineo che anche a questo livello ciò che si eredita non è un contenuto psichico, paragonabile al colore degli occhi, bensì una propensione all’uso di certi meccanismi e una familiarità all’espressione psicobiologica di certi desideri.
Allora si può comprendere che quando parliamo di trasmissione filogenetica, noi ci poniamo in un modo radicalmente diverso da quello inteso, ad esempio, dal Freud di “Totem e Tabù”, anche se il nostro discorso non è in contraddizione con quello.
Mi sembra di poter affermare che la vera trasmissione non concerne l’elemento traumatico, neanche nei suoi aspetti comportamentali, bensì la traccia che esso ha lasciato, sotto forma di cicatrice psicobiologica, nello psichismo di un soggetto; questa traccia tende a mantenersi stabile e percorre l’onda generazionale fino a quando la sua energia non si sia esaurita.
Così concordo con Pierluigi Bolmida, quando afferma che: “Non esistono caratteristiche psichiche pre-fissate o pre-determinate dall’ereditarietà. Al contrario, esistono generiche tracce di adattamento pulsionale a situazioni ambientali di estrema varianza, tracce che tendono a riprodursi sempre eguali a se stesse. Le caratteristiche psichiche, gli osservabili manifesti, altro non sono che il risultato delle modalità di risoluzione tensionale ereditate…. Sostengo che ciò che si trasmette ereditariamente non siano né predisposizioni degenerative né specifiche modalità strutturali di comportamento, bensì un modulo primario … capace di assicurare un equilibrio, sia pur relativo e temporaneo…” 8
Noi micropsicoanalisti (M. Tartari, 2006) abbiamo tutti i dati che ci permettono una definizione piuttosto raffinata di “realtà psichica”, anche se in diversi lavori lo statuto di tale realtà diviene più sfumato, fino a coincidere con dati concreti, quali un evento occorso nella filogenesi della specie o del soggetto, oppure nella sua ontogenesi intrauterina.
Siamo pienamente freudiani nella nostra concezione della realtà, poiché già Freud aveva affermato il primato della realtà psichica su quella materiale, intendendo con ciò designare sia il desiderio inconscio, sia i fantasmi.
Credo che la metapsicologia micropsicoanalitica, volta a definire la genesi energetica delle organizzazioni psicobiologiche, ci permetta di esprimere un altro aspetto della realtà psichica.
Vorrei descriverlo in analogia alla teoria della duplice natura della luce, la quale – come sappiamo – può essere osservata sia come onda di un campo elettromagnetico sia come flusso di particelle, i fotoni. Quando però la luce è colta, o misurata, in uno dei suoi aspetti, l’altro non può essere osservato. In altre parole se effettuiamo un esperimento per rilevare l’aspetto ondulatorio della luce non possiamo rilevarne la natura corpuscolare e viceversa, le due rappresentazioni/descrizioni sono mutuamente esclusive.
Similmente mi sembra che quando noi mettiamo in evidenza l’aspetto energetico della organizzazione psicobiologica, l’elemento materiale della stessa passa in secondo piano, e viceversa. Così la realtà può essere percepita nella sua trama di fondo, oppure nell’agire dei suoi dati concreti, ma occorre tenere presente che esse sono le due facce del medesimo dinamismo e che dunque non esiste un fatto materiale isolato dal suo dinamismo; l’importante è non confonderli.
© Manuela Tartari
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Note:
1 D. Marenco (2006), “L’immagine filogenetica: un’ipotesi micropsicoanalitica sulla trasmissione transgenerazionale”, In: Micropsicoanalisi.it.
2 S. Freud (1923), “L’Io e l’Es”
3 Maria D’Alessio, Fiorenzo Laghi, Vito Giacalone, “Mentoring e scuola: teorie, modelli e metodologie di intervento a contrasto della dispersione scolastica”, Hoepli Editore, 2010
4 Schützenberger, La sindrome degli antenati, Di Renzo Editore, Roma. Ed. orig. 1993
5 O. Greco (2016), “La trasmissione di un’esperienza traumatica attraverso le generazioni: un caso clinico”
6 N. Peluffo (1986), “L’interiorizzazione delle perturbazioni catastrofiche”,
7 P. Codoni, D. Lysek (1986) “l’eredità psichica” (1986)
8 P. Bolmida, (1993) ”Sull’eredità ideica”
Psicoterapeuta, antropologa formatasi presso ‘Ecole del Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi, membro didatta dell’Istituto italiano di Micropsicoanalisi. Ha collaborato per anni alle ricerche e alla didattica delle cattedre di psicologia sociale e psicologia dinamica, quando Nicola Peluffo insegnava alla Facoltà di Psicologia dell’Università di Torino. Da più di vent’anni ha ricoperto incarichi di consulenza e collaborazione presso alcune ASL piemontesi per la psicoterapia infantile e il lavoro in ambito evolutivo. Oggi è consulente tecnico del Giudice presso i Tribunali di Torino. Tra le diverse pubblicazioni si ricorda: “Metamorfosi del corpo”, in: La terra e il fuoco, a cura della stessa autrice, ed. Meltemi, Roma 1996; “Dall’oggetto inconscio all’oggetto transizionale”, in Quaderni di Psicoterapia Infantile, diretti da C. Brutti, Borla, Roma 1997; “Antropologia e metapsicologia. Un confronto freudiano tra efficacia simbolica e elaborazione primaria”, in Etnosistemi, n° 7, anno VII, 2000; “L’immagine del corpo in adolescenza”, in Bollettino dell’Istituto italiano di Micropsicoanalisi, n° 36, 2006: “Controtransfetr e stati deliranti”, in Tabù, delirio e alucinazione, ed. Alpes. Roma, 2010; “La creatività tra psicoanalisi e antropologia”, in Creatività e clinica, ed. Alpes. Roma, 2013. La dott.ssa Tartari si è spenta in Torino nel 2020.