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Un tentativo di oltrepassare una trama familiare di morte, nell’incontro con la distruttività dell’Olocausto

 Il presente lavoro è pubblicato anche in Anamorphosis, a cura di Wilma Scategni e Stefano Cavalitto, n. 11, 2013, Ananke, Torino, pp. 44-53.  

Parte prima

Ciò di cui abbiamo bisogno è una terza via, una serie di ponti   esplicativi che superino lo iato tra arte e scienza

(Erik Kandel,Conoscere noi stessi. Il nuovo dialogo tra arte e scienza”, L’età dell’inconscio, Raffaello Cortina, p. 491).

Charlotte Salomon (Berlino, 16 aprile 1917 – Auschwitz, 10 ottobre 1943), tedesca di origini ebraiche, meno conosciuta di Anna Frank, ma ricordata oggi, come scrive Carlo Levi (1963), “nella pittura di tradizione ebraica”, torna a dipingere come tentativo di terapia per contrastare un’acuta depressione, di radice familiare. Ne nasce, per Levi, un “romanzo di sentimenti di fronte al destino”. Ne parlerò all’interno di una riflessione sul “problema del mantenimento di uno stato di benessere acquisito”, in terreni psicobiologici in cui la distruttività della “pulsione di morte-di vita” (secondo l’indicazione micropsicoanalitica) si sia già espressa  con buona evidenza in più familiari, passando come eredità di destino, di corpo in corpo.

Breve compendio biografico-artistico

Di famiglia benestante, colta e raffinata, nella Berlino degli anni Venti,  l’infanzia di Charlotte scorre felice fino a nove anni con la madre Franziska Grunwald, una musicista e il padre Albert Salomon, medico. A nove anni, il primo suo trauma… conosciuto: la perdita della madre che non muore per “esito letale di un’influenza” come le si fa credere ma, per essersi gettata dal terzo piano. Il padre si risposa con Paula Levi, famosa e attraente cantante d’opera berlinese, “stella di un ambiente culturale orgoglioso delle sue origini giudaiche”, come ne dice Antonio Polito, giornalista di “La Repubblica” (1998); la biografia di Charlotte ne evidenzia il rapporto ambivalente, connotato di sentimenti che oscillano dalla gelosia all’ammirazione. Con l’emanazione delle leggi antisemite, emanate da Hitler, nel 1933, il padre perde il lavoro di medico e Paula non può più esibirsi in pubblico. Nello stesso anno, i nonni materni emigrano nel  sud della Francia. Nel 1935, Charlotte, a causa delle leggi razziali emanate dai nazisti, lascia il liceo, ma continua a frequentare sino al 1938 l’Accademia di Belle Arti, nel 1939, si rifugia anch’essa a Villefranche-sur-Mer, dai nonni materni dove anche la nonna, nel 1940, terrorizzata dall’epoca brutale, si suicida davanti agli occhi di Charlotte. Ciò, costringe il nonno a svelare alla nipote il segreto di un filone suicidario appannaggio di alcune donne di famiglia, tra cui l’omonima giovane zia, affogatasi in un fiume: sette suicidi nel corso di tre generazioni…  Anche Charlotte soffre di gravi crisi depressive, tuttavia, aiutata e incoraggiata dal suo medico curante a mettere a frutto la competenza pittorica, ne riemerge, cimentandosi con passione ed immedesimazione in una sorta di autobiografia che ripercorre la sua vita in innumerevoli piccole “guache” dipinte tra il 1940 ed il 1942.

L’importanza del tramite

Accantono per un attimo l’incedere biografico, per sottolineare l’importanza di un “tramite” che, all’occorrenza, sappia mettersi in contatto con qualche desiderio che vibra nel profondo. E mi viene subito in mente l’incontro di Herman Hesse, quarantenne, con Jung (1921), rapporto analitico da cui scaturiranno moltissimi acquerelli, esposti in tutto il mondo e non meno importanti degli scritti con cui si intrecciano, come si può ben vedere visitando il Museo Herman Hesse di Montagnola oppure seguendo le undici postazione della Collina d’Oro, sulle orme dell’artista… E, restando nella nozione di tramite, quanti sono gli analizzati che ho incontrato io stessa e accompagnato, mentre si scongelavano certe potenzialità artistiche o solo creative che, dal campo analitico, guadagnavano naturalmente la vita reale? E so che, anche da quei materiali di anima e passione, inconfutabili e reali, alcuni mantenutisi, altri non più necessari all’analizzato nato anche come “persona”, si sono impiantati i miei studi sulla creatività.

L’opera di Charlotte

Torniamo a Charlotte e a quelle tavolette dipinte che rappresentano, ciascuna, un giorno della sua vita mentre è attivo il tentativo di contrastare la depressione. Realizzate con i tre colori primari (rosso, blu e giallo) ed accompagnate da testi e musiche appropriate, si possono considerare come un’opera multimediale, per un canovaccio teatrale, una sorta di “operetta”, ne dice Natalia Aspesi (1998), un “manoscritto miniato medioevale”, ne scrive Polito che vi riconosce la moderna impronta del  cinema: “la lezione del cinema, che in quegli stessi anni diventava a colori, è evidente nell’uso di primi piani, campi lunghi, riprese dall’alto, angoli visuali, che portano lo spettatore dentro la storia, facendolo palpitare, gioire e piangere proprio come davanti a una pellicola”. Polito assimila ogni tavola a “un lieder, un tema popolare, una musica da film, che Charlotte mormorava mentre dipingeva, trovandoli i più adatti ad accompagnare ogni singolo passo della sua autobiografia”.

Arte come testimonianza di vita

Da psicoanalista, vi sento il rincorrersi della “pulsione di vita con quella creatrice in buona alleanza” (Gariglio e Lysek, 2007, pp. 144-150) fino a realizzare un’appagante sintesi, persino estetica se, questa, interessasse, qui. Una   sintesi, soprattutto umana, di linguaggi artistici armonicamente integrati. Così, con quel rincorrersi, nel gioco di colori sapientemente mescolati, possiamo partecipare alla vita di Charlotte che si snocciola in accadimenti:   un’infanzia felice punteggiata da momenti affettuosi con la madre, l’eco della musica e canzoni sentite in famiglia e le passeggiate in montagna, l’arredo di casa, la governante… gli studi accademici… Ricordi reali di atmosfere di calda affettività cui l’artista si rivolge, cercando il conforto delle buone memorie… E ancora la rielaborazione del suicidio della madre, le prime svastiche e persecuzioni, la fuga dal nazismo fino ai giorni prima dell’arresto. Tuttavia, in Charlotte, secondo Polito: “La “guache” che mostra il corpo innaturalmente accartocciato della madre dopo la caduta, o quella in cui Charlotte si rifugia in pantofole e in pigiama nella sua stanzetta da letto dopo una cocente delusione d’amore, sono paradossalmente più toccanti e dolorosi della sfilata nazista del 30 gennaio 1933, uno dei pochi riferimenti visivi alla tragedia tedesca. La persecuzione razziale, per Polito, è quasi un’eco nel lavoro di Charlotte, non il tema conduttore. Essa è già iscritta nella sua vita, come un destino irreversibile, forse lo stesso che portò Primo Levi dai campi di concentramento alla morte suicida.”. Eppure vi era sopravvissuto… Nel pensiero di Carlo Levi, anche “Charlotte Salomon ha sentito la necessità di ripensare l’esistenza e di affidarla a qualcosa che, per il solo fatto di essere espresso, fosse libero dal comune destino di morte.” E ne parla  come esempio di vita: “la somma dei suoi contenuti poetici, che nascono dalla condizione umana che quest’opera esprime (…) in cui la morte circonda ogni cosa, la fa ultima, pericolante e definitiva, con una presenza così forte da rendere necessaria la sola possibile affermazione di vita.” . Complessivamente, è il presagio di un dramma universale: “La sua pittura-scrittura-musica, per Polito, è l’Olocausto senza rappresentarlo mai. E’ Auschwitz prima di vederlo. E’ una ragazza dai capelli lunghi che dipinge in ginocchio davanti al mare azzurro del Mediterraneo l’ultima “guache” della sua opera  portando iscritto sulle spalle ricurve la definitiva domanda esistenziale del secolo: Leben? oder Theater? Vita o Teatro?”.

Vita o Teatro?

L’elaborazione artistica di Charlotte finisce infatti con questa domanda in cui il suo corpo è diventato un fondale di scena. Vita o Teatro?: un “Incontro-scontro”, per l’avvincente, visionario spettacolo teatrale (2013) su un testo di Laura Forti. Forse anche un tentativo di dar corpo al desiderio che, dopo la rievocazione-elaborazione del passato, se ne possa prendere le distanze, a tal punto, da poterlo, poi, persino mettere in scena in una rappresentazione teatrale che parla comunque di vita…? Un pò come ci ha abituato Pirandello con il suo andirivieni di Personaggi (cfr., Peluffo nel paragrafo, “Il teatro”, 2013 e Tartari, 2013)?

Mentre partecipo umanamente alla storia di Charlotte che sta snocciolandosi, il mio interesse clinico va subito a quelle tracce di un benessere, presenti nello psichismo di questa giovane appassionata, come ricordo recuperato e diventato protagonista perché capace di imporsi, in quel momento, a certa presenza distruttiva, per la forte e soddisfacente vibrazione vitale: radici familiari di buone relazioni, annaffiate dal valore della cultura, del talento artistico e dell’impegno dello studio, la natura amica… sono  tutti  aspetti vitali che Charlotte ha trattato nella sua pittura, nonostante i tempi bui. Direi allora, togliendo la connotazione di conflitto all’interrogazione “vita o  teatro” che, quando la vita singola viene messa in scena, il suo destino di traccia individuale viene perso per entrare in quello di  traccia collettiva, in cui la voce singola, eternizzata, è diventata  coro in un’orchestra… Se poi, ciò che viene messo in scena contiene anche una certa simpatia, diciamo così, per aspetti gratificanti su cui l’opera stessa ha indugiato, ciò che resta al fruitore è un vissuto di relativizzazione raggiunto dall’artista, una sua capacità quindi di non riconoscere più il protagonismo del trauma o del conflitto che vengono trattati come elementi di un contesto più ampio.  

Il recupero di tracce di benessere onto-filogenetiche come nuovo imprinting

Fino a qui era arrivata, nella cara Charlotte, la sua manifestazione creativo-artistica, nata come tentativo di cura. Protagonista la spinta ad elaborare e forse anche a trasmettere, lasciando traccia di sé. Si può ben dire che tale esperienza artistica, in quel momento, abbia allontanato la giovane dal rischio di reiterazione del suicidio, forgiando (o ripescando da qualche buona traccia personale o familiare) un nuovo imprinting (Gariglio, 1992/1997…) su cui si attesta un tentativo diverso di rispondere a paure intrapschiche, mescolatesi nell’orrore dei tempi. Mi piace pensare, allora, che la terapia artistica possa essere stata così distensiva, appagante e adattiva da allungarsi, proseguire o allacciarsi all’amore (il 17 giugno, 1942, a Nizza, si sposa con Alexander Nagler) da cui germina una gravidanza: questo è ciò che mi interessa, anche parlando di creatività. Che sia l’intera persona, nei suoi moti energetico-pulsionali, a partecipare ad un processo di trasformazione. Quando ciò non accade vi è solo uno spostamento, una sublimazione, qualcosa cioè di incompleto perché il “benessere” non ha raggiunto il corpo, in quanto serbatoio psicobiologico di potenzialità anche libidico-rigenerative che devono dimostrare la loro vitalità di espressione. “Il corpo”, conferma, una volta di più, anche Eric R. Kandel (2012, p. 330) che vede un confluire della psicoanalisi, della psicologia cognitiva e delle neuroscienze in un influenzamento reciproco, per un miglior studio del comportamento umano, il corpo, dicevo, “fornisce ulteriore informazione sugli stati attenzionali ed emotivi di una persona.”.

Così, quando il benessere della creatività si estenda dalla manifestazione artistica alla persona, guadagnandone in “coerenza di manifestazioni psicobiologiche” – e ne avevo già parlato (2012a – Artemisia  Gentileschi: donna e artista in coerenza di manifestazione) in occasione di un lavoro su Artemisia Gentileschi – , quel benessere, raggiunto qui da Charlotte, benessere che l’aveva rigenerata, come artista in contenuti e stili originali e, come donna in rapporti e manifestazioni d’amore, diventa un tentativo che va nel senso di espressioni energetico-pulsionale-vitali e creatrici. E’ allora qui, a mio avviso, che questo aspetto può fissarsi eternamente nel fruitore, come immagine-dono dell’artista. Ed è, ancora  qui, che il nuovo imprinting diventa un input, un induttore associativo collettivo, come può essere testimoniato dal crescendo di interesse per la vita e l’opera di Charlotte Salomon.

L’eternità di Charlotte: dalla morte a ciò che se n’è messo in moto

Il 24 settembre 1943, Charlotte Salomon e il marito vengono arrestati dalla Gestapo.  Aspesi ne scrive:  “(…) Sapendo ormai di essere braccati, si nascosero in un appartamento imprestato da amici, ma non riuscirono a stare lontani da Villefranche, dove si erano incontrati e innamorati. E lì furono catturati tre mesi dopo.”. Dal quartier generale di Nizza, sono indirizzati attraverso il campo di transito di Drancy verso Auschwitz dove Charlotte muore il giorno stesso, nella camera a gas,  essendole così, almeno, risparmiata  la permanenza in tale orrore. 1
E’ il 10 ottobre 1943, Charlotte ha ventisei anni ed è incinta al quarto mese. Il marito morirà il 1 gennaio 1944.  A noi, rimane  il frutto  artistico  come immortalità dell’opera d’arte ed espressione umana: una spinta alla vita, nonostante i mala tempora, interni ed esterni: traumi psichici che si innestano in traumi sociali, collettivi… Ottilie Moore, l’amica americana che l’aveva aiutata nell’esilio a Nizza, raccoglie l’intera produzione e dopo la guerra la restituisce al padre (rifugiatosi in Olanda assieme alla moglie, con l’aiuto della resistenza che li fa scappare dal campo di Westerbork) che, nel 1959, la dona al Rijksmuseum di Amsterdam. Attualmente l’opera si trova al Joods Historisch Museum della stessa città. A Charlotte è stata  dedicata una  Targa ricordo in Berlino, nella casa natale in Gedenktafel Wielandstr 15. “Il nome di Charlotte Salomon, ricavo da Polito, ricorre in poche storie dell’arte e della cultura del secolo che si sta per chiudere. E invece ne è una delle testimonianze più vere e genuine. Perché la sua storia fugge persino all’estremo pericolo segnalato da grandi critici della cultura moderna come Theodor W. Adorno e George Steiner, che avvertivano dell’immoralità di descriverne la catastrofe concentrazionaria in termini che fossero in qualsiasi modo estetici. Charlotte è al di sotto – e forse al di sopra – di ogni retorica.”.

Invito il lettore a ripercorrere l’opera di Charlotte (con l’ausilio informatico oggi si può fare, mettendone in bilancio il minor impatto emotivo), non solo, a mio avviso, per continuare ad apprezzare l’artista, ma per intrattenersi un po’ con le vibrazioni di quest’anima bella, come voce in un coro cui l’intera umanità, ancora e sempre, dovrà giustizia e riconoscimento, mescolando l’indignazione, l’orrore contro  la violenza e la fermezza della protesta con la dolcezza del ricordo di questi primi, delicatissimi passi d’arte e d’amore.

Verso una finestra clinico-analitica

Nella seconda parte, approfondirò, circoscrivendolo in una finestra clinica, il contatto con Charlotte Salomon, sottolineandone  quel certo processo  di “elaborazione ricombinativa” (Gariglio, Lysek 2007, pp. 48-53) che, come si diceva, ha coinvolto nella trasformazione artista e persona, per l’avvenuta  riorganizzazione di materiali di benessere, latenti nell’inconscio, con residui di rimossi conflittuali/traumatici. Tale processo, studiato in un lavoro comune “nei movimenti creativi in analisi”, l’ho osservato qui e là anche in qualche artista di cui ho evidenziato un manifestarsi naturale, in certi momenti, di quel fenomeno da noi chiamato “creatività benessere” (pp. 93-121) ) per l’apporto vitale di distensione, appagamento e spinta a relazioni intrapsichiche e interpersonali soddisfacenti, generative/rigenerative.

Daniela Gariglio ©

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Bibliografia:

– Aspesi N. (1998).  Attualità Dal mondo, “Mostre Diario di Charlotte”. La Repubblica.
– Forti L. (2013). Un testo di Laura Forti,  Storia di Charlotte, regia e contributi video Teo Paoli, musiche originali di Enrico Fink e Teo Paoli, eseguite dal vivo da Enrico Fink, con Lavinia Rosso, Silvia Baccianti e la partecipazione di Alessandro Mazzoni, 31 gennaio, 2013, Teatro Puccini, Firenze. Prodotto in collaborazione con la Comunità Ebraica di Firenze, in occasione della Giornata della Cultura Ebraica 2010.
– Gariglio D. (1992/1997),“L’elaborazione dell’imprinting in micropsicoanalisi“, in Bollettino dell’Istituto Italiano di Micropsicoanalisi, Tirrenia Stampatori, n° 13, pp. 13-17 e n°22, pp. 79-83.
– Gariglio D. (2012a).  “Artemisia: donna e artista in coerenza di manifestazione”, in Anamorphosis, Anno  10, n. 10 pp. 41-50. (Cfr. anche Osservatorio, Scienza e Psicoanalisi, 7 maggio, 2012).
–  Gariglio D. (2012b). “Dal non tempo della fissazione al tempo reale vitale e creativo : possibilità di evoluzioni cliniche”, Convegno SIM-IIM Il tempo e l’inconscio, VI Ed. Settimana Internazionale della Ricerca La coscienza del tempo. Atti previsti, a cura di Luigi Baldari, Alpes.
– Gariglio D. (2013a). “La storia di Charlotte Salomon: un tentativo di oltrepassare una trama familiare di morte, nell’incontro con la distruttività dell’Olocausto”. Anamorphosis, a cura di Wilma Scategni e Stefano Cavalitto, n. 11, 2013, Ananke, Torino, pp. 44-53. 
– Gariglio D. (2013b).  “A proposito del mantenimento di un benessere: riflessione sulle nevrosi di fallimento e di destino trattate in analisi e cenni di osservazione in arte”, in Osservatorio, Scienza e Psicoanalisi, 6 giugno.
– Gariglio D., Lysek D. (2007). Creatività benessere. Movimenti creativi in analisi. Roma: Armando.
– Hillesum E. (1941-1943). Ed. integrale, a cura di Klaas A.D. Smelik, traduzione di Chiara Passanti, Tina Montone, “La collana dei casi” , 2012, terza edizione, Adelphi.
– Kandel E. R. (2012). “La rappresentazione artistica delle emozioni attraverso il viso, le mani, il corpo e il colore”,  in L’età dell’inconscio. Arte, mente e cervello dalla grande Vienna ai nostri giorni.  Milano: Raffaello Cortina.
– Levi C. (1963). In Carlo Levi / Emil Strauss, “Charlotte. Diario in figure di Charlotte Salomon 1917-1943”, Bompiani,  1963.
– Peluffo N. (2013). “Riflessione finale  (Un tentativo di interpretazione psicologica della psicologia)”, in Editoriale, Scienza e Psicoanalisi, 22 febbraio.
– Polito A. (1998). Commento alla Mostra su Charlotte Salomon, Royal Academy di Londra , Dicembre 1998.
– Tartari M. (2013). “Nicola Peluffo: dall’Immagine al Personaggio”, in Osservatorio, Scienza e Psicoanalisi, 8 marzo.

Sommario:

L’autrice, riflettendo sul “problema del mantenimento di un benessere raggiunto in analisi, nell’arte e nella vita di realtà”, ne ha osservato la particolare difficoltà nelle “nevrosi di fallimento e di destino”, dettagliandolo in tre lavori, il secondo dei quali è la storia di Charlotte Salomon, oggetto del presente articolo. Della giovane artista ebrea, uccisa ad Auschwitz, viene testimoniata la disattivazione di uno stato di sofferenza, con il raggiungimento di un certo grado di benessere, elaboratosi in arte ed estesosi alla vita: un “incipit di storia nuova” rispetto a un filone familiare suicidario. Non ci è dato sapere se tale input vitale, psicobiologico, riscontrabile anche in altri familiari, avrebbe  mantenuto, in Charlotte, la sua carica pulsionale, tipica di una “creatività benessere”.

parole chiave:

– traccia traumatica
– traccia di benessere
– elaborazione ricombinativa

Note: 

Non così è stato per un’altra giovane ebrea, Etty Hillesum, scrittrice la cui opera, frutto di riflessioni psicologiche e spirituali, è stata rimossa per molti anni. Di Etty, morta il 30 novembre 1943 ad Auschwitz, richiamo solo il suo “Diario” dove, in quanto “cuore pensante”, passa in rassegna la quotidianeità colta, appassionata e di sopraffazione della situazione dove era immersa: da Amsterdam con la realtà della persecuzione, fino alla permanenza nel campo di transito, Westerbork da dove scrive, con compassione e naturalezza, lasciandoci un documento straordinario di umanità e amore per la vita… al di là di tutto. Tale manoscritto, rifiutato dagli editori, solo nel 1981 viene pubblicato dall’editore De Haan. Ho preso contatto con l’immagine di Etty, in occasione della Rassegna “Il sacro attraverso l’ordinario”, coordinata e organizzata da Il Mutamento, diretta da Giordano V. Amato, con la collaborazione del Centro Studi Sereno Rebis in Torino, San Pietro in Vincoli, Zona Teatro, 19 settembre 2013; nella intensa serata, il documentario  di Werner Weich: “Etty Hillesum, cuore pensante della baracca” e le riflessioni di Elsa Bianco, Maria Pia Bonanate e Nadia Neri, hanno riverberato l’animo dei presenti, presentando “la luminosità” di Hetty, come ne parlarono i  sopravvissuti del campo di sterminio.  torna su!