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Il pianto è la prima modalità espressiva dell’uomo neonato. Alla nascita la prima immissione di aria porterà all’espansione degli alveoli polmonari e l’emissione di suoni, il vagito, è considerato segnale di vitalità. Tutto ciò è omologato al pianto.
In effetti di lì e per diverse settimane il piccolo utilizzerà quella sequela di inspirazioni ripetute-espirazioni prolungate, accompagnate a suoni acuti ed iperlacrimazione, quale elettiva espressione dei suoi bisogni e, di lì a poco, anche dei suoi desideri.
Quando il linguaggio verbale sarà ampiamente acquisito, anche in età avanzata e fino alla fine dei suoi giorni, l’uomo avrà sempre a portata di mano quella prima espressione non verbale, già forma abbozzata di pacchetti di emozioni non facilmente traducibili in parole. L’uomo ripeterà, cioè, nel corso della vita, la sequela di atti che avevano contrassegnato il momento della sua nascita.
Il cosiddetto pianto di gioia, eventualità tutto sommato rara, è, a ben vedere, accompagnato da sentimenti di sofferta ambivalenza.
Il pianto può essere anche uno strumento manipolativo discretamente efficace, in quanto modalità espressiva regressiva.
In clinica si è spesso testimoni di pianti copiosi o, peggio, di assenza di pianto a fronte di vissuti di terrificante dolore. Si può dire che l’assenza di pianto in situazioni esistenziali o patologiche importanti è di giudizio prognostico severo. Valga per tante la considerazione della depressione endogena grave, dolore senza lacrima, pensiero senza affetto, che può cominciare a volgersi alla risoluzione con la comparsa del pianto.
Durante il pianto la secrezione delle ghiandole lacrimali aumenta. Queste, in condizioni di quiete, producono modeste quantità di liquido con la funzione di mantenere il trofismo della congiuntiva e della cornea, di allontanare corpi estranei, polveri e insulti tossici (batteri, virus, liquidi irritanti ecc.).
Dunque le lacrime provvedono al lavaggio dell’occhio.
Ma piangendo la lacrimazione diventa copiosa e la funzione diventa paradossale: dopo un pianto prolungato l’occhio è arrossato, le palpebre gonfie; il lavaggio è andato oltre le intenzioni. Potremmo dire che la funzione fisiologica del pianto assume un incarico psichico rivolto alla eliminazione di una tensione preesistente, causata da motivi palesi, oppure ignorati anche da chi piange.
Diciamo che il pianto cerca di “pulire l’anima” eliminando psicobiologicamente un eccesso di tensione.
In questo senso esso ha una funzione limite tra il soma e la psiche: è una difesa somatica che viene utilizzata anche dalla psiche.
In sintesi si potrebbero configurare tre situazioni.
A) Della polvere cade realmente nell’occhio e bisogna pulirlo: la lacrimazione è un’azione specifica.
B) Un incontro casuale ricorda per via associativa qualcuno amato e perduto dal soggetto: irrompe il pianto. Ovvero il soggetto usa una difesa somatica per abbassare la tensione determinata dal ricordo della perdita, per allontanare una polvere psichica conscia.
C) Lo stesso soggetto si rende conto di avere momenti di pianto senza poter riconoscere delle motivazioni specifiche, ovvero la necessità di distensione attraverso il pianto deriva da ragioni preconsce o inconsce; di questa terza situazione si possono descrivere due variabili:
1) il pianto si verifica in situazioni giudicate irrilevanti dal punto di vista razionale;
2) il pianto avviene in qualsiasi momento della giornata senza stimolazioni specifiche, indipendente e inarrestabile. Ovvero proviene direttamente dall’inconscio ed emerge come un pensiero ossessivo che oltrepassa le barriere del secondario e irrompe con tutta la forza del processo primario, inarrestabile. Per restare nei termini usati, vuol dire che la polvere psichica è rimossa e l’unico segnale della sua presenza è proprio il pianto: quel rimosso sarà estremamente spiacevole, carico di tensione e sofferenza: dunque un rimosso traumatico.

Alcuni esempi di pianto tratti dall’esperienza clinica

Pianto di resistenza

E’ quello che impedisce l’accesso alle associazioni libere, occupa gran parte della seduta e strozza letteralmente la voce. Porterò ad esempio una giovane verosimilmente sottoposta ad agiti incestuosi fino alla fine dell’infanzia, tanto che già nei primi incontri aveva potuto far riferimento indiretto a tale materiale.
In questo caso di grave inibizione e tendenza alla difesa ossessiva, con disturbo dell’identità psicosessuale, mantenere il controllo è sintoma , ma anche difesa estrema da un ‘impulsività sentita come incontenibile e pericolosa; il pianto è una vergogna, di fatto l’unica espressione del comportamento che sfugga al controllo della ragazza. Quando meno lo vorrebbe, quando il desiderio di aggredire la soverchia, scoppia a piangere e, pur riconoscendo che i motivi sono insufficienti per giustificare una reazione tanto vistosa, non riesce a controllare la copiosa fuoriuscita di lacrime. Durante le prime sedute controlla i singulti con grande sforzo muscolare e inspirazioni forzate, ma le lacrime non possono essere trattenute e sgorgano in silenzio dagli occhi, inondando il cuscino. Un pianto coartato, di svasamento della tensione .
Se riuscisse a mollare la morsa del controllo ne sarebbe sollevata e, infatti, quell’unico cedimento è già un balsamo.

Pianto di fine analisi o di perdita del sintoma

Alle ultime sedute della sua analisi personale una giovane constata che passa le giornate a piangere. Lacrime copiose sgorgano anche senza singhiozzi: non si sente triste, ha davanti diverse prospettive che la interessano, è adeguatamente appagata da una relazione sentimentale e la monotonia del lavoro non le è più pesante, anzi riesce a trovare adattamenti gradevoli. Però pensa a sua sorella, che è maggiore, sta bene, ha raggiunto un discreto adattamento sociale e piange: pensa che il rapporto simbiotico che intratteneva prima è definitivamente sciolto; ripercorre e riconosce la coazione a scelte di sacrificio e di iperresponsabilizzazione che tale legame le imponeva inconsciamente; è consapevole delle condotte mortifere alle quali era ricorsa come unica via d’uscita dal giogo…ma piange!! L’emancipazione da una relazione che, seppure nevrotica, l’ha accompagnata per tutta la vita, la lascia in uno stato di smarrimento angoscioso e userà le ultime sedute per elaborare questa perdita.
Ricordando un incubo in infantile riportato all’inizio del lavoro, Atlante che lasciava cadere la terra, commenta: “Ho buttato via il pianeta e ora che faccio?”
Il pianto alla fine dell’analisi addolcisce il confronto con la solitudine certa e irreversibile determinata dalla perdita del pacchetto sintomatico che, pur avendoci fatto soffrire per tutto quel pezzo di vita precedente, ci ha anche permesso di sopravvivere… averlo smantellato e perduto è anche un dolore, da metabolizzare.

Angoscia senza pianto

Un analizzato che aveva attraversato diverse fasi autodistruttive fra le quali l’anoressia e la tossicodipendenza da eroina, si era trovato a misurarsi con un’altra polarità mortifera: il fantasma del gemello psichico. L’elaborazione di questo punto dell’analisi che era, in termini di sovradeterminazioni, il più recente attualizzarsi della fissazione fusionale, era accompagnata da intensa angoscia e si esprimeva nel transfert con la produzione di materiale onirico a contenuto omosessuale quale espressione del desiderio di ricostruzione dell’unità simbiotica.
L’angoscia era intensa e caratterizzava il quadro clinico riconducibile, in quel momento del lavoro, a una forma depressiva nella quale i pensieri di catastrofe erano espressi attraverso immagini cruente, di ferite aperte sanguinanti, o di timore di un agito violento autolesionistico. Il distacco dalla fissazione è doloroso: la fissazione è una difesa, abbandonarla fa sanguinare. La fissazione fusionale non conosce il pianto, attività che comporta la presenza di aria (quindi del post-natale), conosce però il sanguinamento che accompagna il travaglio di parto, il lento distaccarsi dei villi coriali e, probabilmente, anche i momenti finali della gravidanza durante i quali la placenta va involvendosi e coopera con questo fenomeno all’induzione del travaglio stesso. Involversi vuol dire che non è irrorata bene, e che si formano lacune emorragiche che andranno, poi, in necrosi.
Il rivissuto sull’analista permise infine l’accesso al pianto che emerse copioso, svincolato da contenuti specifici: potremmo dire un pianto endogeno che portò con sé l’abbassamento dell’angoscia, l’identificazione a immagini più salubri e in definitiva un discreto benessere.

Pianto endemico

Ancora oggi nelle culture che discendono dai Greci (Italia meridionale, penisola Balcanica meridionale e isole del Mediterraneo sud-orientale), il rituale funerario è accompagnato dalle “Piangenti”, coro di donne che si riunisce spontaneamente al triste evento e piange d’ufficio, ripetendo frasi di compianto che non mancano di ricordare la persona del defunto. Il cosiddetto “pianto greco” è la traccia di numerose sovradeterminazioni: del coro della tragedia greca classica, che aveva la funzione di esprimere i sentimenti suscitati dalle vicende del dramma; del coro, più antico, che accompagnava i riti funebri di personaggi eroici, cantandone le gesta; infine, del coro dei riti dionisiaci che le Menadi intonavano durante il baccanale culminante nel sacrificio del capro (animale totemico rappresentante Dioniso stesso).
Il “pianto greco” ha istituito da millenni una specie di regolamentazione delle espressioni di dolore come sostiene Ismail Kadarè 1 , teso a formulare in maniera ordinata il dolore scomposto e spontaneo dei congiunti e proteggere il rito funebre. A tal proposito, per fare un esempio, si vedano in India i suicidi delle vedove sulle pire del compagno.
In altri termini il pianto greco rinforzerebbe il Super-Io a scopi catartico-salvifici nel fronteggiare tensioni potenzialmente distruttive.
Queste considerazioni sulla funzione normalizzatrice del pianto attraverso l’inserimento nei riti catartici delle cerimonie funebri ci riporta alla sua funzione, precedentemente definita, tendente all’eliminazione dell’eccesso di tensione e delle sensazioni di dispiacere: dunque, il pianto come regolamentatore del dolore, nel lutto come in ogni altra variazione omeostatica.

© Gioia Marzi

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Note:

1 “Eschyle ou le grand perdant” (Fayard ed. 1995, pag. 28 -31)