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Il presente Articolo è l’estratto della Relazione presentata dall’Autore nel corso del Congresso “Le psicoterapie tra modelli e tecniche: loro applicazioni nei servizi” svoltosi a Frosinone il 17 aprile 2015

La psicoanalisi intensiva è un metodo d’indagine dello psichismo umano di derivazione freudiana, che dunque conserva tutte le regole della psicoanalisi classica, utilizzo delle libere associazioni, assenza del vis à vis, ascolto neutrale, ma che si distingue da questa per due caratteristiche: prolungamento del tempo di seduta oltre i canonici sessanta minuti nell’ottica di conformarsi al ritmo fisiologico di scioglimento delle resistenze e concentrazione del lavoro analitico nel periodo più compatto possibile, cercando di assicurare, nel rispetto delle esigenze sociali, l’intervallo libero tra una seduta e l’altra minore possibile.

Diremo che durata e frequenza minima della psicoanalisi intensiva non si attestano mai al di sotto di tre sedute, ognuna di minimo due ore consecutive, per settimana.
La prassi ideale rimane quella di sedute quotidiane.
Esercito la psicoanalisi con questa modalità da 35 anni e il potente impatto terapeutico, l’efficacia del metodo, mi hanno consentito nel corso degli anni di lavorare spesso, con altissimi tassi di miglioramento e di risoluzione, anche con soggetti borderline gravi o psicotici di fresco esordio.
E’ possibile permettere a questi pazienti di liquefare i loro deliri, anche quelli ben strutturati di tipo paranoico, spesso senza l’ausilio farmacologico, anche se abbiamo apprezzato e praticato, in tandem con la Dott.ssa Gioia Marzi, la cosiddetta doppia presa in carica: psicoanalista che conduce l’analisi affiancato dallo psichiatra che modula in totale indipendenza di giudizio il supporto farmacologico con speciale attenzione a non indurre una sedazione che inibisca l’ideazione associativa.

Negli ultimi venti anni circa uno strano fenomeno sociale si è imposto all’osservazione di coloro che conducono la psicoterapia: un aumento vertiginoso delle sindromi borderline in sostituzione dei nevrotici arrivano ora dallo psicoanalista.
A mio parere ciò è dovuto da una parte al venir meno della tutela genitoriale: si è fatto strada un sostanziale, totale,  permissivismo che assicura ai giovani la tutela incondizionata del principio di piacere; la funzione educativa della scuola si è letteralmente disintegrata e di pari passo anche la percezione del controllo sociale. Le menti dei nostri giovani si sviluppano oggi in una dimensione del “tutto è possibile”, che è quella propria del funzionamento dell’inconscio: ultimamente mi sono trovato ad assistere alla conversazione di due giovani madri che discettavano sull’utilità di far defecare o meno i loro figli di oltre 4-5 anni di età al di fuori dei contenitori deputati. Ora, che solo vengano in mente simili possibilità, la dice lunga su come l’io stia perdendo il suo ruolo di mediazione tra richieste dell’Es e principio di realtà.
Dall’altra parte la società si è come psicotizzata: l’anomia totale, la mancanza di entità di regolazione della spinta istintuale. la mancanza dell’io prestato dal genitore nella prima infanzia, il ruolo educazionale della scuola non più proponibile (i genitori picchiano o denunciano i professori che si azzardano a riprendere comportamenti distruttivi degli studenti) la disintegrazione dell’Io-società sono sotto gli occhi di tutti. Un mondo in cui puoi uccidere volontariamente un essere umano e ritrovarti sostanzialmente libero dopo 5-6 anni è l’anticamera della psicosi generalizzata. Ci sarebbero un’infinità di considerazioni di psicologia sociale da fare ma questa oggi non è la sede. Ho parlato di questo fenomeno solo per tentare di spiegare il perché, dopo almeno venti anni di psicoanalisi condotte su normo-nevrotici o nevrotici mi sia ritrovato da una quindicina di anni a questa parte a ricevere prevalentemente richieste da soggetti portatori di sindromi borderline o francamente psicotiche.

Si inserirebbe ora il delicato ma non eludibile discorso dell’esistenza della cronicità in psicopatologia.
Semplificando al massimo potremmo dire che due sono i fattori che la alimentano: da una parte una difficoltà strutturale alla costruzione di un Io stabilmente funzionante, dall’altra una inclinazione a permanere in una dimensione fusionale, opponendosi in vari modi all’accettazione dell’esistenza del terzo de-fusionale e a cascata del dato di realtà: in definitiva un problema di impossibilità di rinuncia alla tutela dell’onnipotenza narcisistica. In uno scritto dedicato alla esposizione della psicoanalisi di un soggetto borderline grave dal titolo “Io-fittizio ed Io-delirio nella genesi del disturbo psicotico” avevo affermato che “molti casi definibili da un punto di vista psichiatrico come casi-limite o borderline derivino da un guasto dei meccanismi di individuazione di sé e da processi difensivi catastrofici, primo tra tutti quelli di diniego e di scissione dell’Io.
L’Io-fittizio e l’Io-delirio sono appunto i risultati di un processo di scissione nell’Io attivato da un vissuto altamente traumatico (oggi aggiungerei, quasi sempre un trauma abbandonico estremamente precoce o un tentativo vero e proprio di abuso sessuale patito). L’Io in formazione si divide in un simulacro di Io socialmente adattato, ma non autentico, ed un Io destrutturato, costituito da fantasie traumatiche (senza contatti con la realtà, dunque delirante).
Sotto l’influsso di una potentissima angoscia di annientamento l’Io in formazione per così dire evapora ed il soggetto inizia ad imitare in modo stereotipato, coatto e dereale, il comportamento sociale di una delle figure-chiave della sua infanzia. Questa recita, socialmente accettata, che possiamo definire Io-fittizio, copre, come un mantello, l’Io-delirio costituito dai fantasmi interpretativi della situazione traumatica.
Il dramma è che venti anni fa queste personalità evanescenti sarebbero state inquadrate socialmente, come è doveroso fare, nel novero della evidente psicopatologia, oggi vengono ritenuti degli “originali”.
Qualche anno fa stavo dunque affrontando una fase del lavoro in cui mi ero dedicato a dei casi veramente gravi. Una giovane donna affetta da un delirio paranoico erotomaniaco, un abbandonico semi-autistico, anche lui giunto con una produzione delirante, una giovane donna grande isterica con una spinta alla conversione marcatissima che alternava soluzioni somatiche  a poussée di furore pantoclastico. Un giovane che vagava in automobile con una corda insaponata alla ricerca del luogo adatto per farla finita, con una gravissima inibizione emotiva e altre inibizioni lavorative, Una ex tossicodipendente gravissima inviatami da una collega di assoluto valore che l’aveva certamente salvata dalla morte e che aveva risolto totalmente l’appetenza alla droga. La collega ritenne che dopo un lungo periodo di inerzia elaborativa un cambio transferale avrebbe potuto darle una nuova occasione di stimolo inconscio: nella paziente permanevano dei fastidiosi sintomi dispercettivi ed una condotta sociale inconcludente volta alla mera sopravvivenza. Un’altra  donna che avevo strappato ad un rapporto sado-masochistico totalmente distruttivo, sfruttata fino al midollo dal marito perverso, ora finalmente ex, che soffriva di una frigidità totale che le arrecava una grande sofferenza ed infine un uomo, ormai quarantenne che a parte un breve periodo di un anno circa in cui era riuscito a mantenere una pseudorelazione sessuo-affettiva con una donna mascolina (un agito vicino all’omosessualità) non aveva più avuto da oltre dieci anni alcun contatto sessuale.
Le psicoanalisi intensive che avevano condotto li avevano liberati tutti dai sintomi più ingombranti, avevano ripreso a vivere e a fare tentativi vitali, ma, se pur con una frequenza di seduta molto ridotta, non riuscivano a fare il passo del commiato dall’analisi.
la cosa stupefacente era che molti di loro, se pur con abilissime giustificazioni razionali, apparentemente indiscutibili, vivevano ancora, prossimi alla mezza età, o con i genitori o nel cono della loro ombra. Un problema di profonda fissazione incestuosa, la causa principe della sofferenza psichica dell’essere umano. La loro difficoltà era l’elaborazione finale di ogni psicoanalisi: il superamento della madre fusionale e la costruzione di un Edipo fisiologico. L’Edipo come tutti sapete non è patologia, è il modulo fondante, l’apparato di regolazione della vita umana. Non si supera l’Edipo, ci si familiarizza.
Proposi dunque di costituire un gruppo, di riprendere le analisi individuali con una frequenza di due sedute a settimana completate da una seduta di gruppo settimanale di due ore consecutive.

Vorrei illustrarvi dunque quali ritengo siano stati i contributi dell’inserimento di una dinamica gruppale nel rapporto duale precedente.
Tutti i membri del gruppo detenevano una conoscenza profonda della tecnica psicoanalitica, conoscevano in modo soddisfacente i loro meccanismi di difesa preferiti ed erano in grado di vedere con facilità nell’altro le dinamiche psichiche che con difficoltà riconoscevano in se stessi: la modalità proiettiva di avvicinamento all’essenza delle cose precede sempre l’integrazione introiettiva e la comprensione.

Ascoltando le dinamiche ripetitive nell’altro erano portati a fare interventi interpretativi sul materiale. Come già Nicola Peluffo in un magistrale articolo pubblicato sulla Rivista “Scienza e Psicoanalisi” ci ricordava, l’intervento dello psicoanalista è sempre più o meno traumatico. Forza la difesa narcisistica dell’analizzato ed entra nella sua struttura psicobiologica. Se tali interventi diretti li avessi fatti io, il Deus ex machina, sarebbero stati dirompenti, la voce del Padre è terrifica, la voce dei fratelli è sopportabile e non appartiene alla Legge. Ma se dicono cose evidenti che realmente appartengono alla Storia di chi ascolta pian piano lavorano le resistenze residue.
Un’altra cosa che avvenne progressivamente fu la rottura dell’Omertà, soprattutto in riferimento agli abusi sessuali.
La consapevolezza della loro frequenza (non si immagina mai quanto essi siano frequenti, molto di più delle statistiche che attingono al conscio) ed il riscontro nella vita dell’altro pian piano attutirono la percezione della Colpa Assoluta (come sapete il bambino che subisce l’abuso, si fa carico della sua Responsabilità, in ragione della onnipotenza infantile, recuperare un supposto ruolo attivo nel trauma è pur sempre una difesa)
un’altro apporto notevole della dinamica di gruppo fu un’accelerazione della demolizione delle idealizzazioni genitoriali.
L’ideaizzazione è quella difesa per cui in tandem con altri meccanismi che sono soprattutto il diniego e la scissione le attribuzioni negative sul comportamento genitoriale vengono annullate retroattivamente e al posto della percezione traumatica si sostituisce una fantasia consolatoria.
Come ci ricorda la Klein l’idealizzazione è un meccanismo di difesa dispiegato soprattutto contro le spinte pulsionali distruttive sull’Oggetto.
per fare un esempio comprensibile la donna che era vessata, sfruttata, truffata dal marito, una donna altamente benestante che si era vista saccheggiare la sua fortuna familiare da un uomo idealizzato, ritenuto un geniale imprenditore, in verità un rozzo truffatore inseguito da masse di creditori inferociti, era stata anche truffata nell’amore e nelle attenzioni da entrambi i genitori che preferivano smaccatamente una sorella nullafacente, loro prolungamento narcisistico, ignorando sistematicamente l’esistenza stessa della paziente.
Questa era stata lasciata, ritengo in modo consciamente complice in balìa di un socio di famiglia, lo “zio”, che aveva abusato in vario modo della bambina ma l’analizzata trovava ridicole e sempre più labili giustificazioni a questo comportamento di complice assenza di tutela.
In una dimensione duale lo psicoanalista può al massimo reiterare la somministrazione del materiale sperando che la reiterazione dell’analisi del nucleo prima o poi trovi una breccia nel muro di resistenze. Nel gruppo gli altri analizzati si esprimevano socialmente “Ma i tuoi genitori erano pazzi a lasciarti sola? Erano perversi? Erano d’accordo?”
Lo psicoanalista si limita a vigilare che certi interventi non superino una certa soglia di aggressività. Il contatto con i testimoni rende più facile la presa di coscienza, anche perché questa avviene proiettivamente sul materiale dell’altro: “perché i tuoi come erano?”.

Bisogna precisare che il gruppo apriva delle brecce che poi venivano riprese ed approfondite nel lavoro individuale dove solitamente avveniva l’abreazione affettiva. A questo riguardo il terapeuta deve essere conscio di una problematica frequente del lavoro gruppale: il “sequestro” di materiale importante nella dimensione del gruppo che spesso offre meno possibilità di elaborazione individuale unito alla tendenza ad utilizzare il meccanismo dell’isolamento, al fine di separare il materiale del gruppo da quello personale (*ma questo lo dico nel gruppo*): gli analizzati difficilmente tenderebbero a riprendere nella seduta individuale gli argomenti “costretti” a toccare nel gruppo. Si può ovviare a questo limite invitando l’analizzato a fare un resoconto dettagliato degli argomenti toccati nella seduta sistemica che precede la seduta individuale.

Ed ora vorrei offrirvi un esempio tratto dal materiale, estremamente condensato, di due sedute consecutive in cui si affronta l’argomento della morte. I nomi dei pazienti sono ovviamente di fantasia

1a seduta:

Paolo: Ho paura ad andare in auto. Paura di far male a qualcuno e di andare in carcere.
Mi sento innocente e poi passo per colpevole. Dovrei andare al cimitero?
Una volta ci sono andato e c’erano i morti che mi guardavano.

Anna: Racconta che per anni ha giocato con l’immaginazione con una cugina morta.

Teresa: E’ come se stessi facendo una vita che non volevo. E’ la sensazione di non arrivare mai.

Marta: Anche io avevo delle difficoltà ad andare al cimitero. Mi dava fastidio, Invece sto cambiando perché oggi c’era un’alunna che ha perso il padre. E’ tornata in classe ed è stato come se non fosse successo niente.

Mario: Nel cimitero non si dovrebbe sentire niente. Per me quando andavo al cimitero esisteva solo mia madre. Per me gli altri non esistevano. Come c’è pace al cimitero non c’è un altro posto.

Valdimir: Per me il cimitero non è mai stato un posto brutto. Andavo a salutare queste persone ed era un modo per non perderle. Ma riflettevo sul fatto che da quando faccio l’analisi non ci sono più andato. Non ci sono andato più per non vederlo in modo diverso.

Paolo: Avevo paura che ci andassi io là dentro

Anna: Pensavo ai morti della mia famiglia. C’è un’incidenza enorme di incidenti stradali in famiglia. Io giocavo con i morti ma poi tornavano di notte.

Teresa: Bell’argomento! La sofferenza delle morti per malattia ti strappa via le persone a cui sei legata.

Marta: Io pensavo che mio padre non fosse morto. Anche io ho investito per anni ed anni tante energie su una persona morta.

Mario: Tutto questo discorso mi faceva pensare alla mia morte, per questo ero in tensione. Quando andammo nel cimitero dove era sepolta mia madre piansi per tutto il tempo. Da quel momento è iniziata l’elaborazione vera del lutto. Io vivo in un perenne stato di tensione, ma quando vado ad un cimitero o ad un funerale sto meglio. Se sto teso è perché non vorrei morire.

Valdimir: [molto turbato] Penso di aver capito che non sapevo cosa fosse la morte. Non riuscivo a capire di cosa stavamo parlando.

2a seduta:

Mario: Vorrei reiterare l’argomento della volta scorsa. Mi sento particolarmente angosciato: perché so che devo morire. In questi giorni ho pensato seriamente a questa cosa. So che sto per morire e questa cosa mi fa stare male.

Teresa: Non riesco per quanto io mi sforzi di vedere l’utilità di esistere. Molto probabilmente ho una bassa stima di me.

Paolo: Secondo me la medicina buona è quella di vivere bene. Se uno vive sereno se ne sbatte della morte. Ci sono momenti fantastici in cui è proprio bello vivere.

Marta: L’idea della morte mi da un senso di nausea e poi di allontanamento e di fuga. E’ come se dovessi andare a vomitare [fissazione necrofilica- anale] Un senso di nausea del corpo, di vederlo così. Pensare a Teresa ed alla vicenda del figlio è stato devastante. Penso che sia uno dei dolori più atroci. E’ difficile da capire una cosa del genere.

Valdimir: E’ stata effettivamente una settimana molto strana. Ho un occhio che mi balla: non riesco a mettere a fuoco. Faccio fatica a capire di che cosa stiamo parlando. Avverto proprio la necessità di fare il lavoro individuale. Vivo in uno stato semi-confusionale. Mi torna in mente la paura dell’altra volta, l’odore dell’altra volta. Io ho avuto una paura gigantesca! Questa settimana ho tolto le foto (dei morti) che avevo in camera da letto.

Anna: Sapevo che dovevo avvicinarmi da diverso tempo a questo argomento. L’altra volta ho proprio sentito il calore del gruppo e non mi era mai successo.

Valdimir: L’amore è quello che cercavo quando ero piccolo e che non ho avuto e non posso avere. [parla della proiezione in amore]

Mario: Io non riesco a percepire il sentimento. Sono sempre andato alla ricerca di mia madre e mi sono andato sempre chiudendo di più.
Quando mia moglie minacciava di lasciarmi io mi cacavo sotto. Io non me ne sono mai andato via di casa.

Teresa: Parla dell’odore della morte.

Valdimir: Ho perso tre amici, uno dietro l’altro, con cui vivevo tutti i giorni. Pensi di dimenticartene ed invece stanno là.

Paolo: Ho sentito di nuovo quell’odore. Io soffro perché ho visto soffrire i miei

Marta: Io penso un forte senso di rabbia. Associo la morte ad una lotta, alla rabbia. Ad una reazione aggressiva. E poi ad una corsa, un meccanismo di fuga, di allontanamento. Io non ho mai fatto entrare i miei genitori dentro di me.

Valdimir: nasce l’odio per chi si lamenta gratuitamente.

Mario: Valdimir mi ha fatto commuovere… io che non mi sono mai permesso di provare un dolore diverso da quello della morte di mia madre.
Il dolore per la situazione di mio figlio, che cercavo di tenere distante.
Ci ho pensato adesso. Oddio! l fatto è che i morti mi facevano compagnia.
Fino adesso la morte era un cessare di vivere con il corpo. Ma il corpo non contava niente.

Come spero abbiate visto l’elaborazione è fluida e passa da un membro all’altro facilitata dai meccanismi di identificazione, una sorta di lavoro in cordata dove un membro smuove la stasi dell’altro.
Lo psicoanalista lima i meccanismi difensivi, vigila sui ivelli di aggressività dispiegati ed al limite fa delle ricostruzioni a fine seduta.
Per terminare non mi resta che fare un resoconto dei risultati terapeutici introdotti dalla dinamica di gruppo.
Il soggetto astinente da dieci anni ha ripreso una attività sessuale accettabile, la donna sfruttata ha liquidato affettivamente la sua famiglia, tiene a bada senza difficoltà l’ex marito perverso e ha fatto un paio di tentativi di costruzione di relazioni sesuo-affettive ben più gratificanti della precedente.
L’ex tossicodipendente inconcludente ha una relazione fissa, vive con il suo uomo è si è iscritta con altissimo profitto ad un corso universitario attinente alle scienze mediche.
La giovane paranoica ha liquidato il suo delirio riuscendo a verbalizzare in seduta individuale l’inferno di una infanzia vissuta con due genitori perversi scambisti che la coinvolgevano nei loro giochi sessuali: precedentemente mutacica in società (viveva nel terrore di rivelare l’Orrore dell’infanzia ed era stata minacciosamente consegnata al silenzio dai genitori)  ha iniziato una vita sociale degna di questo nome.
L’aspirante suicida ha da tempo abbandonato l’idea della morte, si è sposato, ha una bella famiglia con prole, ha rimosso completamente le inibizioni, legate ad una impossibilità di identificazione con una figura chiave della sua infanzia, che gli impedivano di fare il lavoro per cui si era laureato.
La giovane donna isterica ha enormemente diminuito intensità e frequenza dei suoi tentativi di conversione e marcia verso una forma di sostanziale autonomia affettiva da un marito che non le reca alcuna soddisfazione pulsionale.
Reputo, concludendo, in relazione ai casi border-line gravi, l’esperienza del gruppo psicoanalitico un valore aggiunto alle psicoanalisi individuali.

© Quirino Zangrilli

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