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Nella prima parte di questo articolo, ho accennato ad un possibile malinteso tra psicoanalisti e neuroscienziati a proposito dei meccanismi della dipendenza.

Eccone un esempio: le neuroscienze parlano, in caso di dipendenza, di liberazione di molecole del piacere, come la dopamina. Ora, in psicoanalisi, la nozione di piacere ha un significato diverso. Sappiamo che l’inconscio funziona secondo il principio di piacere, cioè, come lo spiega Fanti nel suo Dizionario: secondo la tendenza “a prevenire e a liquidare ogni aumento della tensione” psichica [1]. Il piacere che evidenzia la psicoanalisi si verifica quando dei contenuti dell’inconscio si elaborano, secondo dei meccanismi psichici, cioè secondo un processo di trasformazione del contenuto mentale. Si tratta di un processo che mette i contenuti inconsci in accordo con la coscienza e/o con la realtà (questi meccanismi sono lo spostamento, la condensazione, la raffigurabilità, l’elaborazione ricombinativa). Una volta elaborati in questo modo, tali contenuti si riversano nel campo verbale e nel campo corporeo, provocando un abbassamento della tensione psichica.

Il piacere di cui parla il neuroscienziato ha ben poco a vedere con questo meccanismo psichico. Corrisponderebbe piuttosto a quel che Lacan chiama godimento. Il godimento è in rapporto diretto con la soddisfazione pulsionale. Soddisfazione che può anche essere quella della pulsione di morte. Questo significa che il godimento può situarsi “al di là del principio di piacere” [2], per riprendere l’espressione usata da Freud. Il godimento trasgredisce allora il principio di piacere.

Mi spiego. L’elaborazione psichica secondo il principio di piacere è orientata verso il mantenimento della vita, cercando abitualmente un accordo con la realtà. Il godimento, al contrario, ricerca l’assoluto, un abbassamento totale della tensione psichica, senza tener conto delle esigenze della realtà, e a volte al prezzo di rischiare di perdere la vita. D’altronde, l’esperienza psicoanalitica evidenzia che l’attività compulsiva della persona dipendente, anche se è apparentemente ricerca di piacere, mira inconsapevolmente a togliere il dispiacere. In altre parole, la sua attività è simile a una ripetizione coatta, ossia a un tentativo inconscio di tornare indietro, a un tempo che il soggetto immagina senza tensioni, operando secondo una dinamica in cui la pulsione di morte tende a prevalere sulla pulsione di vita.

Affrontando così il tema della dipendenza pare ben difficile trovare un linguaggio comune con le neuroscienze. C’è però da chiederci in cosa il nostro approccio possa essere più utile a persone come Elvira, rispetto a quello molecolare. Torniamo quindi a Elvira. Il suo utilizzo dei social media è piacere o godimento? All’inizio – cioè prima della dipendenza – era una ricerca di piacere, che si faceva attraverso una elaborazione mentale. Era soprattutto la pulsione di vita ad alimentare tale dinamica. Rapidamente, però, la dipendenza si è impossessata dell’attività e l’uso dei social media è diventato compulsivo, legato a un automatismo di ripetizione. Il meccanismo inconscio è diventato quello della ripetizione coatta. In altre parole, esso risponde soprattutto a una ricerca di godimento, a scapito della dinamica del piacere; allora è prevalentemente sottomesso alla pulsione di morte. Questa prevalenza della dinamica mortifera provoca fortunatamente un rimbalzo della pulsione di vita, creando così il ciclo della ripetizione.

Si vede che questo processo ha dei punti in comune con quello che prevale nelle tossicodipendenze. Ora, le tossicodipendenze sono bene studiate dalla neurobiologia. A questo punto ci sarebbe quindi una possibilità di comprensione reciproca tra psicoanalisti e neuro scienziati. E una possibile apertura di un dialogo che non sia tra sordi. Quale penosa deviazione, però, si è dovuta fare per stabilire la base di eventuali scambi fruttuosi!

 C’è una cosa importante cui non ho ancora accennato, a proposito di Elvira. Quando naviga in rete, è spesso presa da una sorta di frenesia, per esempio quando delle informazioni o dei messaggi personali la emozionano o la fanno arrabbiare. Non si lascia penetrare dal contenuto, cioè non gli da la possibilità di elaborarsi mentalmente. Lo espelle subito dalla sfera psichica, rispondendo a raffica. Questo vuol dire che è presa in una dinamica di stimolo/risposta senza elaborazione. Nel 2021, in un articolo sull’intelligenza artificiale, pubblicato in Psicoanalisi e Scienza, ho sollevato la questione della dinamica di azione/reazione immediata che i videogiochi impongono ai giocatori. [3] In questo testo, dico che il nostro psichismo è poco efficace quando deve rispondere a raffiche di semplici segnali. Certo lo sa fare, come lo sanno fare tutti gli animali. Tuttavia, il nostro cervello ci fa essere veramente umani quando elabora mentalmente le informazioni che riceve. Vale a dire che la nostra psiche funziona al massimo delle sue capacità quando interagisce con dei segni, cioè con dei significanti che esprimono la profondità del pensiero e lo spessore dell’affettività.

Quando una persona come Elvira, navigando in rete, è presa da questa frenesia di azione/reazione immediata, ha ancora la possibilità di elaborare psichicamente le informazioni ricevute e le emozioni che provocano? Se mi si concede una metafora un po’ triviale, direi che li ingoia e sputa senza digerirli. Non è un caso se uso una metafora orale. Il meccanismo potrebbe, in effetti, essere di tipo orale, cioè la riattivazione di un modo arcaico di essere in rapporto con l’altro. Se è veramente così, si tratterebbe di una regressione da una relazione adulta a una relazione infantile.

Gli stimoli/risposte sono un modo privilegiato dai neuroscienziati per studiare il cervello. Gli psicoanalisti si occupano invece di segni significanti. Una collaborazione tra neuroscienziati e psicoanalisti potrebbe certo essere fruttuosa. Dovrebbe comunque superare notevoli ostacoli. Dovrebbero innanzi tutto mettersi d’accordo su un linguaggio comune, in cui le parole avrebbero lo stesso senso per entrambi. Se no si tratterebbe, una volta di più, di un dialogo tra sordi!

È arrivato il momento di cercare di rispondere all’importantissima questione: come aiutare le persone dipendenti dai social network? Di nuovo, questo tema può essere l’occasione di un dialogo tra sordi. Scoprire una molecola che permettesse di regolare il rilascio della dopamina soddisfarebbe probabilmente tante persone.  L’analista, però, avrebbe dei dubbi e direbbe che una tale panacea non può essere che un miraggio. Sì, lo so, il biologo potrebbe esclamare: “ma voi, analisti, volete sempre spaccare il capello in quattro!” Non è colpa degli analisti se lo psichismo è complicatissimo! E non è colpa dei ricercatori in neuroscienze se c’è un dialogo tra sordi. Questi scienziati fanno un ottimo lavoro, con una pazienza infinita e un’umiltà esemplare. La colpa sarebbe piuttosto da ricercare nel campo di quelli che credono che il futuro dell’umanità stia nelle pillole e che minimizzano il rischio reale, secondo il cammino che la società imboccherà, di una certa “robotizzazione” dell’essere umano.

Noi analisti, non ci accontentiamo mai di curare un sintomo, soprattutto in un lavoro di tipo micropsicoanalitico (cioè in sedute lunghe, sostenute da supporti tecnici, come lo studio di fotografie e dell’albero genealogico del soggetto in analisi). La finalità del nostro lavoro è ben più ambiziosa! Nel corso di un’analisi, si cerca di capire – per enuclearli o rinforzarli – dei pensieri, dei sentimenti, degli affetti… Si tratta di un lavoro di fondo sulle dinamiche psichiche e i contenuti rinchiusi nella mente. Dal punto di vista della sintomatologia, si fa un’analisi per andare all’origine dei propri sintomi, con l’obiettivo di cambiare la propria organizzazione nevrotica. La finalità di un lavoro analitico è di trovare modi di accordarsi meglio con il proprio inconscio, di sviare certe pulsioni, di uscire da ripetizioni coatte per sviluppare una vita più creativa, di riuscire a mettere in moto delle dinamiche di realizzazione personale, chiave di una maggior autenticità e di un maggior benessere.

Molto spesso raggiungere tali obbiettivi passa attraverso la concretizzazione di un percorso di vita più creativo, come abbiamo esplicitato, Daniela Gariglio ed io, nel nostro libro, Creatività benessere. Movimenti creativi in analisi [4]. Come si potrebbe descrivere la creatività in termini neurofisiologici? In questo libro, spieghiamo che un atto creatore è la concretizzazione di un percorso psichico lungo e complesso: implica che dei contenuti inconsci siano liberati dalla rimozione, poi che delle tracce di vissuti di benessere si riattivino e finalmente che questi contenuti si colleghino con  elementi culturali e sociali memorizzati nella mente. Abbiamo chiamato questo processo “elaborazione ricombinativa”. Le sedute lunghe d’analisi permettono di evidenziare le diverse tappe di questo processo e, a volte, di rimuovere blocchi che ne intralciano il percorso. Sarebbe da ciechi non vedere che non è possibile, oggi come oggi, sovrapporre con i dati delle neuroscienze un percorso così complicato e che si svolge in gran parte all’insaputa del soggetto!

In una formulazione sintetica, direi che le neuroscienze studiano un oggetto con il massimo di oggettività. La psicoanalisi, invece, studia la soggettività. Il lavoro analitico mira ad aiutare una persona a diventare se stessa, si occupa dei disagi e delle inibizioni legate a un rapporto soggettivo con la realtà e con se stesso, permette al soggetto di alleggerire il peso psichico di traumi, lo spinge a distaccarsi da identificazioni alienanti.

Torniamo ancora una volta a Elvira. All’inizio del suo lavoro analitico, Elvira disse che la sua infanzia si era svolta senza problemi. Alla luce della sua storia successiva si può pensare che quest’affermazione sia sottesa da vissuti conflittuali rimossi: la rimozione le avrebbe fatto “dimenticare” questi vissuti traumatici, però loro rimangono attivi nell’inconscio e provocando la dipendenza affettiva. In effetti, l’analisi ha permesso di evidenziare un nucleo inconscio che ha segnato il suo destino. Si tratta di un importante conflitto edipico, avvenuto durante l’infanzia e tuttora attivo nella psiche adulta di Elvira. Suo padre gestiva un negozio che richiedeva smisurati tempi di presenza al lavoro. Da bambina Elvira stava vicina al padre perché la mamma lo aiutava nel negozio. Questa vicinanza si è brutalmente interrotta quando aveva quattro anni e mezzo. Attraverso l’analisi di fotografie e diverse sovrapposizioni di materiale, Elvira ha preso coscienza che non aveva elaborato il lutto del desiderio edipico di appropriarsi del padre. Capì allora perché si era innamorata di un uomo maturo sposato – cioè proibito come il padre – e che aveva ripetuto il vissuto di perdita quando questo l’aveva lasciata. Capì anche che aveva poi riportato questa dinamica edipica sul figlio, rivivendola ogni giorno attraverso i social media.

Elvira si accorge, poco a poco, di aver avuto bisogno dei rapporti virtuali perché essi erano dei sostituti del rapporto col padre: i suoi “amici” di Facebook incarnavano la presenza/assenza del padre. Da questa presa di coscienza ha evidenziato le cause della sua ansia quando aspettava delle risposte, la vibrazione di godimento quando la risposta la soddisfaceva, la delusione quando la risposta non corrispondeva alle sue attese. Nello stesso tempo, le sono diventate chiare le cause della dinamica di azione/reazione immediata, di chattare a raffica. Ne parlo al passato, perché Elvira si è spontaneamente staccata dagli schermi, accorgendosi però che non sapeva cosa fare del tempo liberatosi. Insomma, non era serena e ancor meno felice.

Si è dovuto quindi proseguire nell’analisi. Ed abbiamo maggiormente approfondito il rapporto con la madre. Fu un lavoro difficile, perché Elvira insisteva nel dire che non assomigliava per niente alla madre. Invece, l’analista disponeva di indicazioni diverse: Elvira era profondamente identificata alla madre. Non a livello conscio, ma a livello inconscio. Infatti, durante questa fase del lavoro, Elvira scoprì che sua madre aveva un segreto enorme. Prima che nascesse sua figlia, questa donna aveva vissuto una storia passionale con un uomo straniero. L’amore era condiviso ma quest’uomo era stato obbligato a tornare nel suo paese lontano. Era un amore impossibile! Però la madre di Elvira era rimasta incinta di quest’uomo. Continuando ad amare in segreto il suo amante straniero, decise di sposare un negoziante che la corteggiava da qualche tempo. Elvira ha sempre creduto che questi fosse il suo padre biologico.

La madre d’Elvira e il suo ex-amante si sono scritti delle lettere d’amore per anni. Lo hanno fatto fino all’improvvisa morte di quest’uomo, un po’ prima che Elvira compisse venti anni. Abbiamo avuto indicazioni chiare che il processo d’identificazione alla madre, avvenuto durante l’età evolutiva di Elvira, è stato molto particolare: essa si è identificata alla mancanza; più precisamente, Elvira si è identificata alla madre in mancanza dell’essere amato. Questo tipo d’identificazione può sembrare strano, però esiste. Possiamo formulare un’ipotesi per spiegarlo. Potrebbe dipendere dal fatto che i suoi genitori le abbiano mentito a proposito del suo genitore. L’inconscio della piccola Elvira non si è fatto ingannare, ha percepito in qualche modo un’incongruenza. Così la bambina non ha potuto crearsi una rappresentazione coerente della sua origine. Questa incoerenza sarebbe stata fonte di angoscia, che l’inconscio di Elvira avrebbe tentato di risolvere con l’identificazione paradossale alla mancanza dell’oggetto ; essa spiegherebbe anche l’eccessivo attaccamento della bambina all’uomo che credeva fosse suo genitore.

Questa descrizione dei processi mentali di Elvira può sembrare speculativa. Non importa. L’importante è che il lavoro analitico ha permesso a Elvira di attutire questa identificazione alla sofferenza e alla dipendenza affettiva della madre. Così sono venute a galla altre identificazioni, legate a tracce di benessere, che furono fonte di creatività. In effetti, Evira non ha totalmente chiuso il suo rapporto con i social media. A tempo perso, si è messa a scrivere un blog, attività che le dava soddisfazione e dalla quale non è diventata dipendente. È facile comprendere perché. La scrittura di questo blog non si faceva a raffica, ma come espressione di un pensiero maturo, e con una ricerca di stile. Insomma, l’elaborazione mentale aveva sostituito il meccanismo di stimolo/risposta.

In conclusione, i malintesi tra neuroscienze e psicoanalisi, a proposito di dipendenza, sono meno legati al fatto che le due discipline abbiano delle metodologie diverse, ma piuttosto al fatto che le prime cercano di evidenziare zone cerebrali e molecole coinvolte nella dipendenza, mentre la seconda mira a permettere a una persona di comprendere e di modificare la sua soggettività. Il divario tra questi due approcci è tale da portare inevitabilmente a un dialogo tra sordi a meno di una lunga preparazione preliminare.

© Daniel Lysek

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Note:

[1] S. Fanti, Dizionario di psicoanalisi e di micropsicoanalisi, Borla, 1984, p. 102.

[2] S. Freud (1920), Al di là del principio di piacere, Opere, vol. 9, Boringhieri, 1977, p. 193.

[3] D. Lysek, Intelligenza artificiale e psiche, Psicoanalisi e Scienza, 12-13 maggio 2021.

[4] D. Gariglio & D. Lysek, Creatività benessere. Movimenti creativi in analisi,Armando, 2007.