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(Già pubblicato nei Pre-atti del XXIV simposio della Valcamonica dalle Edizioni del Centro)

Nell’arte visiva di tutti i tempi, dai primordi ai giorni nostri, accanto alla rappresentazione fedele di animali, esseri umani e scene di vita quotidiana, troviamo la produzione di immagini surreali, prevalentemente figure ibride antropo-zoomorfe, che non trovano riscontro nel mondo reale. Si tratta, verosimilmente, dell’esteriorizzazione, sotto forma grafica, di realtà psichiche esistenti nell’immaginazione dell’artista. Ecco apparire nell’arte rupestre personaggi composti per metà da esseri umani e per metà da animali, talvolta con sembianze che trasmettono senso di armonia e serenità, talvolta angoscia  e terrore.  E. Anati (2010)  sostiene che se dovessimo classificare molte delle manifestazioni artistiche dell’uomo, con le categorie diagnostiche di un dizionario di psichiatria, saremmo costretti ad usare termini come il delirio o l’allucinazione. Lo stesso varrebbe per i miti, storie fantastiche sulla creazione, sempre popolate di mostri e personaggi surreali. Una spiegazione ci giunge  dall’ipotesi sciamanica, secondo cui le immagini fantastiche sarebbero il prodotto di visioni in stato di trance, forse anche grazie all’uso di oppiacei e sostanze allucinogene, che possono indurre percezioni distorte della realtà e quindi stimolare la produzione di simili immagini, come certamente avviene in molti casi ai giorni nostri.
Queste spiegazioni risultano però non esaustive se si pensa all’universalità spazio-temporale di simili manifestazioni e se si considera altresì la vastità degli ambiti in cui esse sono riscontrabili: dalle prime forme d’arte visiva del Paleolitico superiore ai video games dei nostri giorni, dalla mitologia alle favole, dai racconti religiosi alla letteratura.
Ne consegue che queste manifestazioni rispondono ad un’esigenza dell’Homo Sapiens che travalica le epoche storiche e le culture; un’esigenza primaria di esteriorizzare pensieri ed immagini che popolano la mente e generano profonde emozioni. Gabriella Brusa Zappellini (2009) sostiene che ci si trovi di fronte “ad un particolare processo di rielaborazione delle apparizioni entottiche, cioè un lavoro di metamorfosi dei segni giocato sulla rassomiglianza delle forme con i predicati del desiderio”.
In altre parole, secondo l’autrice avverrebbe un processo di condensazione tra le percezioni visive e le strutture psichiche profonde (desideri e tracce mnestiche di esperienze) sulla base di somiglianze delle forme. La logica di tale ricombinazione sarebbe la stessa che struttura il linguaggio onirico.
Secondo il neurofisiologo M. Jouvet (1987) il sogno precede il linguaggio ed avanza l’ipotesi che esso scaturisca proprio dalla necessità di comunicarlo. “Ma non è detto” commenta N. Peluffo (1995) “che questo discorso possa essere applicato solo all’espressività verbale. Infatti durante il sonno la motricità è in gran parte inibita, ma il sogno è in massima parte visivo ed è possibile che i resti notturni (cioè i residui inconsci rappresentazionali-affettivi della riattivazione e della realizzazione dei desideri specifici) possano trovare una loro strada espressiva diurna agita graficamente. L’autore, pertanto, sostiene che nell’arte rupestre, come in tutte le altre manifestazioni grafiche e non solo, siano espressi i contenuti manifesti dei sogni.
Il sogno è il regno dell’inconscio, è quel momento della giornata in cui l’assenza degli stimoli percettivi visivi e l’abbassamento delle difese egoiche, consente l’apparizione di immagini irreali, di scenografie irrazionali ed avventure non inquadrabili negli ordinamenti spazio-temporali.
Ogni notte, ognuno di noi, ha modo di vivere in questo palcoscenico fantastico, talvolta accompagnato da sensazioni piacevoli e talvolta da angoscia e terrore che possono anche interrompere il sogno stesso, come nell’incubo.
P. L. Bolmida (2010) ha esposto un’interessante interpretazione sulla genesi delle rappresentazioni grafiche di ibridi e personaggi fantastici. Egli distingue due serie. Secondo l’autore “…la prima serie di figure iconiche, relative a demoni, obbrobri, draghi e spiriti maligni, trarrebbe origine dai tentativi di elaborare vicende traumatiche di origine catastrofica esterna che hanno lesionato la struttura psicosomatica dell’organizzazione del Clan (glaciazioni, carestie, siccità, alluvioni, guerre, lutti, malattie, ecc.) e si sono incisi nella memoria inconscia individuale e  collettiva. Mentre la seconda, che ingenera un’infinita progressione di streghe, arpie, megere, sfingi, vampiri e donne castratrici, costituirebbe il tentativo, totalmente inconscio, di riproporre durante l’incubo, che viene poi trascritto in linguaggio pittografico, i momenti epicritici di massima tensione che hanno caratterizzato la relazione madre/figlio, a partire dalle prime esperienze gravidiche durante la vita intrauterina, fino allo svezzamento. Esprimerebbe pertanto una sintomatologia traumatica interna, di natura totalmente somatopsichica, esente da sollecitazioni ambientali esterne dirette.”
La conferma alle suddette ipotesi  viene dal materiale clinico raccolto durante le sedute lunghe di micropsicoanalisi che, grazie all’allungamento della durata e alla frequenza, possono consentire l’espressione di materiale associativo che riguarda vissuti di minaccia e annientamento risalenti a fasi precoci delle sviluppo somatopsichico. Tali vissuti possono esprimersi sia attraverso i sogni che nelle manifestazioni grafiche.
La regola fondamentale della psicoanalisi, come è noto, richiede l’esteriorizzazione di tutto ciò che si pensa e si prova, possibilmente in forma verbale. Ciò nonostante ci possono essere casi in cui risulta molto difficile esprimere con le parole il rivissuto di un’esperienza traumatica che ha avuto luogo in un momento dell’esistenza dell’individuo, in cui il codice espressivo linguistico non era ancora disponibile. Mi riferisco, in particolare, alle esperienze della vita intrauterina.  Quando queste situazioni si presentano in seduta, lo psicoanalista può avere l’occasione di accogliere altri tipi di esteriorizzazione, tra cui disegni, graffiti, ecc. In questi casi il materiale può essere ricco di figure ibride che, per spostamento e condensazione, come i personaggi di un sogno, contengono la traccia del trauma. N. Peluffo (2010) scrive: “…nella rappresentazione grafica è memorizzato l’affetto, vale a dire ciò che ti ha colpito. Il colpo, il trauma, ti ha lasciato il segno ed è fissato nel “fotogramma” della scena e nei suoi equivalenti visivi restituibili nel disegno”.
E’ il caso di una ragazza che chiamo convenzionalmente Paola. La ragazza era ossessionata da un’ideazione a sfondo persecutorio, caratterizzata dal dubbio. Non mi dilungo sulle svariate sfaccettature che il dubbio assumeva sul piano manifesto; dirò soltanto che esso spaziava dall’esistenza di Dio all’onestà dei politici, dal taglio dei capelli alle scelte lavorative. Una volta scrostato dalle sue sovradeterminazioni, l’essenza del dubbio si manifestò: Paola non riusciva ad avere un’immagine unitaria di se stessa. Le domande su cosa fosse giusto o sbagliato erano essenzialmente domande sulla propria identità di genere ed in ultima istanza, su chi lei fosse.
L’ossessione si manifestava sotto forma di due quesiti assillanti:

1.    sono Paola o Paolo?
2.   sono davvero figlia di mia madre?

Il romanzo familiare ruotava attorno a due fantasie, molto simili al delirio, formalmente contraddittorie:

1. se fossi nata da un’altra donna sarei stata maschio;
2. mia madre ha avuto un figlio maschio e c’è stata una sostituzione al nido dell’ospedale.

Su questa seconda idea poggiava anche la falsa percezione dell’identità sessuale e nei momenti in cui non riusciva a negare la realtà del suo genere, rievocava la rabbia provata sin da bambina nei confronti della madre che non l’aveva generata maschio. Questi passaggi, così brevemente riassunti, in verità richiesero parecchie ore di analisi, perché Paola non riusciva a trovare una forma per esprimere il suo pensiero.
L’impatto che l’incontro con la ragazza produsse sul mio psichismo fu molto forte; ne fui rapidamente contagiata e, per identificazione, feci un sogno in cui rimbombava nella mia testa la parola “tensione” e la frase “come si può dire tutto ciò”. Facendo ricorso all’autoanalisi, pensai che la difficoltà di Paola a parlare in seduta, potesse essere causata da un trauma esperito in una fase precoce dello sviluppo e quindi impossibile da comunicare verbalmente. Un giorno mi chiese se potevo spiegarle perché lei sin da piccola avesse amato disegnare. Spontaneamente le offrii carta e matita, fornendo ad entrambe uno strumento di comunicazione che avrebbe scavalcato l’intralcio costituito dal linguaggio.
Da quel momento la  situazione si sbloccò: il risultato fu la produzione di immagini fantastiche, per lo più ibridi antropo-zoomorfi in cui erano condensati elementi appartenenti a diverse specie: si trattava di cavalli alati o cornuti dall’espressione umana, a fianco di volti di esseri umani simili a quelli di un animale e mostri terrificanti dallo sguardo aggressivo. Quelle immagini erano fuori dallo spazio-tempo; esse avrebbero potuto appartenere ad un artista camuno o di qualsiasi altra epoca storica.
La ragazza iniziò a parlare di strane esperienze percettive (pseudo-allucinazioni), che facevano pensare a  stati oniroidi del tipo delle trance. Disegnandole riusciva a dare una rappresentazione che assumeva, alternativamente, carattere rassicurante o persecutorio.
Proseguendo il lavoro analitico fu possibile ricostruire un evento traumatico che aveva segnato la madre della ragazza ed avrebbe riverberato sulle gravidanze successive sue e delle donne della famiglia: alcuni anni prima della nascita di Paola, la mamma aveva partorito una bambina morta. Sull’argomento era stato steso un velo; era diventato un segreto di cui non si poteva parlare, ma continuava a gravare come senso di colpa sulle donne della famiglia. Una sorta di fantasma errante di un defunto in cerca di degna sepoltura. Non a caso la neonata non aveva avuto il rito funebre ed un sepolcro.  Mancava un cimitero, un Tofet, dove potersi recare ad onorare la piccola defunta ed espiare la colpa dell’esecrabile delitto. Il senso di colpa che gravava su Paola era, infatti, commisurabile a quello di un infanticidio.

Un giorno Paola disegnò in seduta la maschera di un diavolo con una smorfia sardonica che mi ricordò la “Maschera ghignate”(VI sec.a.C.) rinvenuta sull’isola di Mozia presso il Tofet, luogo in cui venivano sacrificati alle divinità i primogeniti maschi ancora in fasce. Esemplari dello stesso tipo sono frequenti nelle colonie fenici del Mediterraneo. Inoltre sono state notate similitudini con le maschere cartaginesi. Alcuni studiosi ritengono che il volto contratto ed il ghigno sardonico della maschera dovesse rappresentare l’espressione di gioia, ma al contempo l’enorme dolore, nel momento in cui veniva fatta l’offerta del figlio maschio alla divinità. Per altri autori la maschera ha invece funzione apotropaica, quella cioè di spaventare ed allontanare i nemici. Forse era questa la funzione della maschera di Mozia, quella di proteggere i piccoli defunti da altri demoni. Il ritrovamento nei tofet, dei resti di feti di età diverse, lascia anche pensare che fosse il luogo di sepoltura per nati da gravidanze non portate a termine a causa di malattie e morte prenatale.
L’intento di Paola era quello di spaventarmi; quando me la consegnò disse: “questi disegni non sono mai piaciuti alla mia mamma”. Nella relazione transferale si riattivava il senso di colpa per aver rubato un posto che non le spettava e la responsabilità di un grave omicidio.  “E’ come se avessi ucciso un bambino da piccola” diceva “forse non ricordo, ma ho davvero ucciso qualcuno … mamma ha avuto una bambina prima di me ed è morta”.  Si sentiva quindi l’usurpatrice di un posto che avrebbe dovuto appartenere alla sorellina. Se fosse stata maschio sarebbe stato diverso. “Al mio posto avrebbe dovuto esserci un maschietto … a mamma era già morta una bambina, ho ucciso il maschio in me … avrei dovuto essere maschio, non potevo perdonarmi di essere femmina”.
Facendo riferimento alle formulazioni di N. Peluffo (2010), sulla dinamica trattenere-espellere nella relazione feto-materna, credo che queste esteriorizzazioni siano l’espressione verbale di un vissuto intrauterino di risposta al fantasma stimolo materno. E’ possibile, cioè, che la madre stessa di Paola, sentitasi in colpa per la morte della prima figlia, nel corso della gravidanza successiva avesse scongiurato la ripetizione dell’evento traumatico, desiderando di aver concepito un maschio. Successivamente nella figlia il dubbio ossessivo sulla sua identità sessuale, era funzionale a negare il misfatto e cioè la colpa della madre-se stessa per la morte della sorellina.
Gli ibridi antropozoomorfi dai caratteri terrificanti, rappresentati nei disegni di Paola, avrebbero quindi avuto la funzione di esprimere la traccia del trauma prenatale con le componenti aggressive proiettate sull’oggetto che assume valenze persecutorie. La maschera-diavolo che mi consegna alla fine di una seduta, con l’intento di spaventarmi è vissuta contemporaneamente come minacciosa per se stessa e quindi desidera liberarsene.
Accanto ad essa ci sono pure immagini che non incutono terrore, ma sono altresì composte dalla condensazione di elementi appartenenti a specie diverse o ad entrambi i sessi. Esse esprimono il conflitto d’identità vissuto dalla ragazza  e la difficoltà di integrazione delle componenti psicobiologiche.  Tale vissuto, che nel caso da me trattato aveva senz’altro le caratteristiche del disturbo di personalità, non può essere considerato genericamente indice di patologia, se si tiene conto che la riproduzione sessuale per via intima, quindi la gravidanza, rappresenta un sistema fisiologico unico in natura. Esso consiste nella simbiosi di due individui parzialmente diversi; infatti parte del patrimonio genetico di cui il feto è portatore, è di origine paterna, ed è pertanto da considerarsi un semi-allotrapianto. La coesistenza dell’organismo ospite feto in quello ospitante materno, richiede un riassetto immunologico per scongiurare la reazione di rigetto. Le prolungate ricerche degli immunologi e biologi dell’ambiente uterino, hanno solo in parte chiarito come avviene quello che per molti aspetti rimane un paradosso immunologico. A questi studi vanno, inoltre, aggiunti quelli di alcuni biologi sul fenomeno del cosiddetto “microchimerismo”.  G. Marzi scrive (2009): “Partendo dal concetto di mescolamento di parti di esseri diversi, i biologi moderni hanno chiamato microchimerismo la presenza di cellule con patrimonio genetico diverso da quelle del resto dell’organismo che le ospita…  cellule materne in individui adulti in buona salute e  cellule con DNA maschile in donne che avevano avuto figli maschi a decenni di distanza dal parto…. Come spiegare questo fenomeno di microchimerismo a lungo temine? La maggior parte delle cellule vive un periodo limitato: solo le staminali , per la loro capacità di differenziarsi in diversi tessuti, possono dividersi indefinitamente. Si deve pensare, dunque, che le colonie di microchimere siano derivate da una migrazione di staminali durante la gestazione…. Dato che la gravidanza può dar luogo a questi passaggi di cellule dall’ospite all’ospitato e viceversa, consideriamo cosa può succedere nella poliabortività patologica, quando un figlio sopravvive a 2-3 aborti spontanei della madre o quando è superstite di numerosi fratelli non nati o morti nell’immediato post natale. Quello che noi sperimentiamo sempre come senso di colpa del sopravvissuto potrebbe avere anche un supporto biologico e, per il tramite dei complessi fenomeni legati alla presenza delle microchimere, avere sue proprie espressività somatiche”. L’autrice nel suo scritto fa un rapporto tra le scoperte in ambito biologico, le immagine chimeriche della mitologia (figure fantastiche ibride, composte di parti diverse) ed il concetto di Immagine in senso micropsicoanalitico ed aggiunge che: “Non si può parlare di Immagine solo in senso metapsicologico se microchimere della madre, dei fratelli e forse anche della nonna materna coabitano con il soggetto durante la vita prenatale (e anche dopo)”.
Come non pensare che tale pluralità biologica non abbia dei corrispettivi psichici e delle manifestazioni in tutti i campi dell’espressività umana? Che interpretazione dare, solo per citare qualche esempio, agli scritti di Pirandello (Il fu Mattia Pascal, Uno, nessuno, centomila), allo smarrimento dei suoi personaggi a causa della molteplicità della loro identità?
Credo che il caso sopra esposto possa fornire un contributo alla ricerca che in diverse discipline viene portata avanti per dare una risposta al quesito universale “Chi siamo?” e che trova costanti rappresentazionali ed espressive nel sogno e nell’arte di tutti i tempi.

© Bruna Marzi

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BIBLIOGRAFIA

Anati E.: Delirio e allucinazione collettiva. Considerazioni per un’analisi antropologica. In Tabù, delirio e allucinazione. A cura di Luigi Baldari. Alpes Italia, Roma, 2010.

Bolmida P.L.: La semeiotica dell’incubo. In rivista multimediale Scienza e psiconalisi, www.psicoanalisi.it , nov. 2010

Brusa Zappellini G.: Morfologia dell’immaginario. L’arte delle origini fra linguistica e neuroscienze. Arcipelago edizioni, Milano, 2009.

Jouvet M.: La storia del sogno, in Bollettino dell’Istituto italiano di micropsicoanalisi. N.4. Torino, 1987.

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Peluffo N: La grafica dell’affetto. Relazione al XL Congresso nazionale della Società italiana di psicoterapia medica: “Perchèla psicoterapia conviene”, Palermo, aprile 2010.

Vita A.: I Fenici alla luce degli ultimi ritrovamenti di Mozia e di Marsala. Ed. Campo