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Trasmissione transgenerazionale dell’Immagine con particolare riferimento alla determinante filogenetica della paranoia

da | Set 12, 1990 | Articoli pregressi

Una delle modalità tecniche che permette il contatto e la comprensione della microdinamica dell’Immagine è lo studio delle registrazioni delle sedute. Succede spesso, infatti, che le serie associative prodotte dall’analizzato sulla spinta di un brano del suo materiale ascoltato, corrispondano, talvolta in modo quasi totale, alle associazioni che aveva precedentemente prodotto, magari uno o due anni addietro, nella seduta che si sta esaminando.
Quando il fenomeno si ripete più volte e si impone all’evidenza, avviene che l’analizzato prenda coscienza, non senza un certo stupore, che in riferimento al reinvestimento dei nuclei conflittuali egli abbia a disposizione, sul piano dell’elaborazione psichica, un numero ben determinato di risposte associative, che possono a loro volta nutrire o accompagnarsi a scelte comportamentali o a risposte somatiche che tendono a ripetersi. E’ la scoperta dell’esistenza di moduli psicobiologici di cui dispone l’individuo per manifestare la sua esistenza: una specie di mazzo di carte o rosa di combinazioni in cui pescare. L’analisi, se condotta in profondità, disgrega il conflitto e sempre di più il croupier cessa di essere la coazione a ripetere a cui si sostituisce il caso creatore. Nondimeno, le carte, per il gioco della vita, rimangono le stesse.
Perché, se si sposta l’indagine sul piano della filogenesi, sia con la ricerca genealogica che con la micropsicoanalisi familiare si vedrà che i moduli somatopsichici della persona sono entro certi limiti, ereditari, e se ne ritrovano le tracce nascoste o a volte assolutamente evidenti nelle generazioni precedenti. Si può, ad esempio, seguire l’andamento e le diramazioni di qualsiasi fenomeno, sia esso un tentativo vitale, patologico (sintomi psichici o somatici) o mortifero (modalità di morte).
Seguiamo ora il caso di un analizzato che chiameremo Sig. A che ha terminato da anni la sua micropsicoanalisi, nel senso che, neutralizzati i propri nuclei conflittuali riesce a realizzarsi sia sul piano esistenziale che su quello professionale. Nondimeno però, continua ad essere tormentato, certamente in modo meno drammatico, dal destino del suo gruppo familiare, in cui si incrociano terreni permeati di masochismo primario con soluzioni psicobiologiche spesso disastrose (morti premature con alta incidenza di forme tumorali maligne o suicidi). Negli anni che seguono la fine della micropsicoanalisi personale, ora che è in grado di accogliere con maggiore facilità i messaggi che provengono dal suo inconscio, percepisce l’esistenza di una sorta di domanda inconscia familiare finalizzata a sciogliere un trauma di cui non conosce né la forma, né l’origine. Un giorno, mentre si trova in visita presso un cimitero monumentale, avviene un evento straordinario. Il cimitero ha una particolarità: è edificato su un terreno di mezza montagna ricchissimo di fossili animali e vegetali, ed è per questo una meta turistica importante.
Il Sig. A si siede al lato di una lapide in serena concentrazione; regna un silenzio totale. Quasi senza rendersene conto raccoglie due o tre sassi che hanno delle evidenti tracce fossili, li osserva e seguendo l’associazione che questi si trovano numerosissimi, a stretto contatto con le spoglie dei morti è finalmente in grado di accettare l’illuminazione: la presa di coscienza della mineralizzazione finale della materia vivente, l’accettazione della assoluta scomparsa della complessificazione organica, che mette in contatto definitivo con il vuoto costitutivo. Tra quei morti e quei fossili e le pietre non c’è più alcuna differenza. Un pianto liberatore lo invade seguito da una serenità ed una sensazione di liberazione assolutamente inedite.
Lo spessore dell’impresa autoanalitica del Sig. A ci sfuggirebbe se non considerassimo alcuni aspetti della sua micropsicoanalisi riguardanti la sua famiglia e la filogenesi. Il genitore del Sig. A, che chiameremo AA, aveva perso il proprio padre in tenera età, in pieno periodo di attivazione edipica e non aveva potuto assistere alla sua sepoltura. Manuela Tartari 1 in uno scritto del 1988 ha messo egregiamente in evidenza le eventuali conseguenze patogene di una mancata partecipazione al rito della sepoltura: in assenza della percezione di questo, emergono profonde spinte ambivalenti di tipo allucinatorio: il morto non è morto! E tali spinte, integrandosi con i processi difensivi, possono trasformarsi nella fantasia del persecutore: il fantasma inquieto.
Effettivamente, alla scomparsa del genitore, ad una iniziale sensazione di liberazione era subentrata la difficoltà ad identificarsi con l’immagine del padre, che gli appariva terrifica, uniformandosi sempre più all’immagine del padre ancestrale castratore, mancando ormai la possibilità di un confronto con i dati reali (la persona storica del padre). Seguendo tali dinamiche ci si rende conto fino in fondo del ruolo di ammortizzatore che svolgono i parenti viventi, soprattutto, secondo quanto afferma Silvio Fanti 2 , i nonni, nei confronti dell’Immagine. Tale difficoltà di identificazione impedì una fisiologica elaborazione del lutto. I sogni del Sig. AA (il padre di A) cominciarono ad assomigliare ad un incubo incessante: la contemplazione dell’immagine muta e sinistra del genitore scomparso. Tale dinamica onirica, si attenuò quando, a distanza di circa trenta anni dalla sepoltura, l’analizzato e suo padre assistettero alla riesumazione del corpo del rispettivo nonno e padre. Anche in quella occasione si appalesò una risposta patologica di diniego della perdita nel sig. AA: il corpo del padre, evidentemente quasi ridotto alla struttura ossea, gli appariva intatto. Questo fatto diede modo al rimanifestarsi di una sorta di mito familiare che però apparteneva al ramo materno della famiglia del Sig. A. Si tornò a parlare di un avo dell’analizzato che riesumato a distanza di circa 50 anni dalla sepoltura sarebbe stato effettivamente ritrovato praticamente quasi indenne tanto che l’Istituto di Medicina Legale della capitale aveva richiesto un prelievo bioptico per eseguire degli studi sperimentali. Quel fatto aveva rafforzato l’impressione che nella famiglia del sig. A i morti non morissero che apparentemente. D’altra parte spiegava anche la frequenza con cui nel ramo materno si trovassero dei soggetti che rivendicavano poteri medianici e parlavano abitualmente, in sogno o in stato di veglia, con questi pseudo-morti della famiglia. Anni dopo questi eventi la madre del sig. A che aveva per tutta la vita manifestato una dipendenza quasi simbiotica dalla propria madre la perse per un tumore maligno. In quella occasione si appalesarono di nuovo le spinte al diniego della perdita presenti in tutto il gruppo familiare che si concretizzarono nella difficoltà di numerosi parenti del ramo materno, compresa la madre del Sig. A, a prendere coscienza dell’avvenuto decesso, tanto che le ripetute illusioni che la salma aprisse gli occhi o respirasse dovettero richiedere l’intervento di due medici che confermassero la morte. La signora, comunque, non fu in grado di elaborare la perdita e cercò di negarla con quel disastroso tentativo di far rivivere lo scomparso attraverso la riproduzione dei suoi sintomi ( identificazione patologica ), sviluppando o comunque appalesando essa stessa una forma tumorale a decorso tumultuoso che la portò a morte appena tre mesi dopo la perdita della madre. Quello che è interessante è che nella fase finale della malattia si manifestarono delle idee deliranti persecutorie che erano incentrate sul fatto che era la madre appena scomparsa che si vendicava su di lei mangiandole gli organi dall’interno.
Nel Sig. A, attraverso la via della micropsicoanalisi si erano cristallizzati e finalmente realizzati tutti i tentativi non riusciti di trovare una via di elaborazione del nucleo traumatico primario della perdita, il cui insuccesso conduceva il gruppo familiare ad una risposta di diniego con conseguente elaborazione patologica del lutto e l’instaurarsi di un carosello quasi diabolico di morte. Con la verifica della mineralizzazione, il sig. A seppellisce i morti di tutta la famiglia, il suo pianto esprimeva il pianto per tutti i morti di tutti i tempi, la sua liberazione la liberazione dai fantasmi inquieti degli antenati di tutti i tempi. I morti potevano finalmente riposare, i vivi vivere in pace.
Ora che abbiamo introdotto il concetto di trasmissione di quel modulo energetico che è l’Immagine vorrei soffermarmi su una fase di strutturazione dello psichismo umano che è a mio parere di grande importanza nel campo della psicopatologia: quel processo di trasformazione che definisco “attualizzazione dello psichismo umano” e che Silvio Fanti 3 mi sembra indicare come “specificazione nell’es dell’ereditarietà ideica”. Come è facile immaginare si tratta di un processo delicatissimo: l’armonizzazione del genoma materno e paterno spesso configura un vero e proprio scontro, una guerra prima ideica, poi genetica, che si risolve per tutta la vita in un equilibrio precario. Nel crogiuolo energetico costituito dall’ovulo fecondato interagente con l’ambiente uterino si finisce, nell’evoluzione normale, per armonizzare i moduli energetici ideici e, in questa interazione incessante con lo psichismo materno che funge da attivatore, per ottenere un certo grado di attualizzazione ontogenetica.
In altri termini, come usa sottolineare Nicola Peluffo 4, la conflittualità interna è già prefigurata a livello filogenetico e riattualizzata fin dal primo momento post-concezionale dalla lotta tra il filum paterno e quello materno e solo alcune delle sfaccettature iconiche dell’Immagine vengono illuminate e fissate dal conflitto intrauterino. In ognuno di noi c’è sempre un certo grado di conflitto tra le esigenze dell’Immagine e quelle del suo veicolo ontogenetico. Era già una feconda intuizione di Jung che, nella maturità del suo lavoro, iniziò ad interpretare il conflitto come la risultante dello scontro tra imago ed archetipi, ma solo la micropsicoanalisi con lo studio sistematico dell’Immagine e dell’ereditarietà ideica e con la verifica scientifica delle trasformazioni genealogiche, con lo studio comparato del sogno e con la micropsicoanalisi familiare, ne mostra completamente le grandi possibilità di intervento terapeutico analitico.
Per approfondire questo discorso e per illustrarne le implicazioni etiopatogenetiche nello studio delle grandi sindromi psicotiche mi servirò del materiale di un altro analizzato. Si tratta di un caso già illustrato per altri aspetti nel mio scritto “Microdinamica del transfert” 5 .
Il giovane, portatore al momento della prima osservazione di una depressione anaclitica secondo Spitz, susseguente alla precoce scomparsa della madre e difesa parzialmente da una posizione psicotica di diniego della perdita, attraverso un lungo lavoro di analisi era riuscito a prendere coscienza della perdita della madre, ad elaborare il lutto e a poter stabilire una relazione soddisfacente sul piano sessuo-affettivo con una giovane donna. Il trattamento micropsicoanalitico aveva determinato lo svincolamento dall’immagine persecutoria della “madre-Zombie” errante che costituiva al tempo stesso una persecuzione intollerabile ma pur sempre una difesa, e con un miglioramento spettacolare sul piano della vita sociale aveva messo a nudo la struttura del conflitto che affondava, come avviene in questi casi, nelle vicende filogenetiche della persona. Permaneva una viva sofferenza esistenziale che spesso si esprimeva in un sentimento di profondo rancore contro gli uomini e il mondo, a cui l’analizzato non sapeva, né poteva attribuire ormai la benché minima spiegazione in base alle vicende ontogenetiche, peraltro minuziosamente scandagliate. Non rimaneva che spostare il lavoro nel campo della ricerca genealogica e sull’analisi di sogni che eventualmente fossero stati attivati da questa.
Nel corso della ricerca, condotta a tamburo battente, l’analizzato riuscì ben presto a ricostruire una vicenda familiare che per numerose sedute catturò la sua attenzione. In modo molto schematico la storia è la seguente: una sua bisnonna, donna molto dignitosa seppur di umili origini, ebbe una relazione con un personaggio molto altolocato e facoltoso del suo paese, nel corso della quale rimase incinta. Rassicurata dall’uomo, la bisnonna portò a termine la gravidanza ma il giorno stesso della nascita della bambina (la nonna dell’analizzato di cui parlo) il novello padre fuggì abbandonando figlia e compagna, facendo perdere per sempre le sue tracce. La bisnonna dell’analizzato, accecata dall’odio e dal dolore dopo poco tempo abbandonò la figlia in un brefotrofio. Quest’ultima, dopo una vita comprensibilmente difficile, sposò un uomo dal quale ebbe una figlia (la madre dell’analizzato). Lo sposo morì a distanza di soli tre anni dalla nascita della figlia, come poi del resto accadrà alla stessa madre dell’analizzato che morì anch’essa quando questi aveva tre anni. Il giovane dopo aver preso coscienza che molti dei suoi tentativi ripetitivi convergono verso la ricostruzione inconscia del trauma genealogico dell’abbandono (l’analizzato spesso ripeteva: ”Mi devo per forza creare una storia d’amore che finisca in modo drammatico”), riesce a dare una spiegazione ed un corpo all’odio infinito e fino a quel momento assolutamente incomprensibile che prova per il mondo prendendo coscienza di essere entrato nel ruolo del vendicatore del filum materno. D’altra parte anche la madre doveva aver subito la stessa tremenda consegna inconscia e probabilmente proprio a causa di un massiccio rivolgimento all’interno dell’aggressività ideica si era ammalata e morta prematuramente. Ecco alcune associazioni dell’analizzato: ”La realizzazione di questo desiderio di darmi alla vita mi è impedita da un’immagine di morte e di vendetta: ricreare le stesse persone che mi hanno creato e quelle che le hanno create per fare loro tutto ciò che hanno fatto perché paghino per la mia sofferenza…ma la mia sofferenza, o quella di mia nonna?”. La svolta liberatoria del caso arriva con l’analisi di un sogno che il giovane porta in seduta insieme ad una cornice contenente la foto della madre che per tanti anni aveva conservato gelosamente sul comodino. Il contenuto manifesto del sogno in sintesi è il seguente:
– Sono nel mio letto; arriva mio nonno che rivuole il suo posto. Io devo andare alla radio e lui rioccupa il suo posto. Sono a letto, lei mi sta facendo una seduta ed aveva il posto della cornice che le ho portato. Mi trovo a chiedere l’informazione di un luogo a qualcuno pensando che è molto strano che io mi sia perso. Finalmente arrivo alla stazione. Poi vedo un branco di cani bianchi ma io devo andare per la mia strada” (Cioè deve uscire dal branco).
Ecco una minima parte del materiale associativo che viene spontaneamente prodotto nel corso di una seduta di quattro ore su questo sogno: ”E’ come se ognuno debba riprendere il posto che gli spetta…ogni pedina ritorna al suo posto. E’ come se nella mia vita si riproduca l’agonia di mia madre, quella di suo padre, l’odio di mia nonna abbandonata. Parlavo dell’immagine: questa immagine mi tormenta ed è come dovessi mettere tutte le mie forze al servizio di questa immagine. Io faccio di tutto per entrare in quella foto…”. Gliela ingrandisco al massimo delle possibilità proiettandola con un episcopio. Piange: ”Da quando non si muove più si muove in me…io occupavo il posto sbagliato…mio nonno rivoleva il suo posto, che ero andato ad occupare io…avevo creato ciò che aveva creato me…io cerco di prendere il mio posto alla radio…poi arrivo ad una stazione – (urla) – io sono una stazione!…E’ stato bellissimo! Sono una stazione, sono un punto fermo, non una meteora che vaga nello spazio! Non posso più tornare indietro: ho superato un muro; rimango piantato!”.
Ecco la trasformazione che si compie. La ricostruzione della vicenda traumatica filogenetica, l’abreazione dell’affetto ad essa connesso, la verbalizzazione dei propositi di vendetta, di un odio inespresso, che non competeva la sua esistenza, eppure viveva in lui, come affetto di accompagnamento ad una serie di immagini che replicavano il dramma genealogico, disinnescano il gorgo succhiante della ripetizione, questo incessante risucchio all’indietro che si serve della pulsionalità di morte come forza motrice e che mobilita un’enorme angoscia. L’analizzato riesce ad attualizzarsi, a trovare finalmente il posto che gli compete nell’esistenza, mentre le immagini degli avi si placano e ritornano nei loro sacelli.
Seguendo queste dinamiche, verificandole di continuo nel corso del lavoro genealogico sono progressivamente giunto ad una visione della sindrome paranoica che mi induce ad interpretarla come un difetto di attualizzazione dello psichismo umano che continua ad essere rapportato all’arbitrio dell’immagine che detta in modo anacronistico e ripetitivo le modalità ontogenetiche dell’esistenza. Considero la paranoia alla stregua di una virosi in cui l’agente infettante è l’Immagine che si serve dell’ospite ontogenetico per ricreare le condizioni di un trauma che affonda nella filogenesi e che richiede più repliche per essere abreagito. Questo spiega, tra l’altro, la frequenza dei vissuti di impossessamento o del delirio di influenzamento nelle psicosi paranoiche: il paranoico è effettivamente un posseduto dai messaggi dell’immagine che si trasmettono attraverso un’attività onirica non sufficientemente ab-onirizzata; è un altoparlante che tenta disperatamente, senza riuscirvi, di diventare centro trasmittente. Nel mio articolo precedentemente citato, seguendo la strada tracciata da Nicola Peluffo 6 avevo definito la paranoia come il precipitato filogenetico del fallimento di tentativi trnsgenerazionali di permettere l’ingresso dell’Altro nel rapporto fusionale. Avevo ipotizzato che nel patrimonio genealogico di questi soggetti si fossero effettivamente determinate delle situazioni traumatiche che, potendo determinare la distruzione dell’individuo, evocassero delle risposte difensive catastrofiche.
In altri termini si verifica una iperattivazione del polo di morte della pulsione di morte – di vita, connessa ad una situazione traumatica reale filogenetica, che viene vincolata attraverso l’utilizzo di un servomeccanismo difensivo (uno dei più efficaci, in quanto imperniato sul diniego di realtà, è quello paranoico) ma potrebbe essere, in conformità con il terreno, l’appetenza per un farmaco-feticcio e dunque la tossicodipendenza, o l’investimento somatico con la costruzione di malattie-schermo. Questi automatismi difensivi inseriti nell’es generazionale si riattivano in presenza della situazione di penetrazione del terzo nell’universo fusionale. L’esito è la ripetizione coatta del fallimento dello stabilirsi di una relazione d’oggetto con ritorno massiccio alla situazione di narcisismo primario che a sua volta nutre i sintomi di onnipotenza megalomaniaci 7 .
Questa visione ci consente una lettura moderna della Gradiva di Jensen che tanto appassionò Freud 8 . Come è noto, nella Gradiva, il protagonista Dr. Norbert Hanold ha potuto ammirare nei musei vaticani un bassorilievo che riproduce una figura femminile che lo ha molto turbato e che chiamerà Gradiva. Norbert comincia a sentire una ossessionante attrazione per la figura di pietra. Poco dopo, fa un sogno in cui si trova nell’antica città di Pompei proprio nel momento in cui il Vesuvio in eruzione sta per distruggere la città. Nel sogno scorge Gradiva davanti a lui e gli sorge l’idea, decisiva per la strutturazione del delirio, che Gradiva fosse pompeiana e che entrambi fossero vissuti, contemporaneamente, nell’antica Pompei. Prima che egli possa avvertirla, la Gradiva viene sepolta dall’eruzione. Non riuscendo ad ab-onirizzare tale sogno, il delirio si impossessa di lui. Un interesse occupa completamente la sua mente e cioè il problema “di quale essenza fosse l’apparenza corporea di un essere, come la Gradiva, contemporaneamente morto e vivo, anche se vivo solo durante l’ora meridiana degli spiriti”. E’ lei stessa che entra nel suo sogno per guarirlo, utilizzando, sottolinea Freud, dei procedimenti che molto somigliano a quelli della psicoanalisi. Alla fine Norbert riconosce in lei Zoe Bertgang, la graziosa vicina, un tempo compagna dei suoi giochi d’infanzia e i suoi sentimenti si spostano dalla donna di pietra alla donna di carne, rompendo il cerchio del delirio.
Credo vi appaia chiara l’attrazione per lo splendido scritto di Jensen: si parla di un grande trauma che affonda nel passato, rappresentato letteralmente dal cataclisma di Pompei, che si tenta inconsciamente di riattualizzare per cambiare il corso degli eventi. La Gradiva è la Statua errante, la Sfinge, l’Immagine che cattura tutte le energie vitali di Norbert. La guarigione avviene nel momento in cui lo psichismo del protagonista riesce a svincolarsi dall’imperio della statua (cioè dal delirio) e ad attualizzarsi nel presente, ponendo fine al risucchio nel passato. Un passato che molto spesso ha le fattezze di uno spirito errante, di un’entità inquieta. D’altra parte, e per finire, molti dimenticano che già lo stesso Edipo sconta una maledizione che non compete la sua ontogenesi: sconta le colpe di suo padre Laio che, esule alla corte di re Pelope a Pisa, si innamorò del figlio del re, Crisippo, e lo rapì: per questo tutta la sua stirpe fu maledetta e i discendenti pagarono una colpa mai direttamente commessa.

NOTES:

1 – M. Tartari • Fantasmi familiari e immigrazione • Convegno “I segni e i sensi del male”, Torino, ottobre 1988.
2 – S. Fanti • La micropsicoanalisi • Borla, Roma, 1983.
3 – S. Fanti, op. cit.
4 – N. Peluffo • Immagine e fotografia • Borla, Roma, 1984.
5 – Q. Zangrilli • Microdinamica del transfert • Bollettino dell’Istituto Italiano di Micropsicoanalisi n°6, 1988.
6 – N. Peluffo • La situazione • Bollettino dell’Istituto Italiano di Micropsicoanalisi n°5, 1987.
7 – P.L. Bolmida • La scelta anaclitica in prospettiva filogenetica • Bollettino dell’Istituto Italiano di Micropsicoanalisi n°7, 1988.
8 – S. Freud • Il delirio e i sogni della Gradiva di Wilhelm Jensen • Opere, Vol. 5, Boringhieri, Torino, 1975
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