Sommario
Se sfogliamo le biografie e i testi dei Padri della chiesa, incontreremo frequentemente passi che offrono spunti per riflessioni su aspetti psicoanaliticamente rilevanti non solo del Cristianesimo, ma della religione in generale.
Ho scelto tre Padri della chiesa famosi – Origene, Gerolamo e Agostino – a titolo esemplificativo. Di essi esporrò aspetti significativi delle loro vicende biografiche insieme a brevi saggi tratti dalle loro opere. Le mie osservazioni sono soprattutto concentrate al fondo dell’articolo, nella convinzione che i fatti e le parole di questi uomini contengano con eloquenza fin troppo chiara espressioni relative all’atteggiamento religioso di fronte alla sessualità, all’aggressività ed al sonno-sogno.
Il mio discorso non tocca gli aspetti dottrinali – teologici, filosofici, morali – di questi personaggi, ma solo vicende da loro vissute e affermazioni da loro fatte e scritte, in particolare in merito alla sessualità. Naturalmente sono convinto che occorrerebbe rivedere anche l’aspetto teorico della loro opera alla luce di tali dati: non mi pare che nessuno l’abbia ancora fatto. D’altra parte esaminare in chiave psicoanalitica o micropsicoanalitica il pensiero di qualsiasi filosofo non è una operazione semplice e richiederebbe una serie di chiarimenti preliminari che qui non c’è né lo spazio né il tempo per sviluppare. Perciò mi atterrò essenzialmente all’aspetto fattuale delle informazioni che sottopongo all’attenzione del lettore, rinviando ad altra occasione il lavoro sulla teoria vera e propria.
Gli autori non sono necessariamente esposti in ordine cronologico, non è cosa importante in questo contesto.
Origene ovvero dell’autoevirazione
Durante il regno di Settimio Severo (193-211 d.C.), mentre infuriava una persecuzione contro i Cristiani, Origene, secondo lo storico Eusebio di Cesarea (Hist. Eccl. VI, 8), decise di evirarsi.
Siamo nel 210 d.C.: Origene ha 25 anni. I genitori erano Cristiani e il padre, Leonida, fu condannato fra il 202 e il 203 a morte. Il figlio, allora diciottenne, scrisse una lettera al padre esortandolo ad accettare il martirio di buon grado, senza pensare alle conseguenze che la famiglia e i suoi figli avrebbero patito: e così fu.
Successivamente il vescovo Demetrio di Alessandria lo incaricò ancora giovanissimo di istruire i catecumeni nella Sacra Scrittura, in cui, dicono le fonti, era eccezionalmente versato. Era, infatti, stato suo padre a istruirlo fin da piccolo nella conoscenza a menadito della Bibbia. Fu durante l’espletamento di tale incarico che compì il gesto di autocastrazione. Esso sembra che fosse dettato da una applicazione letterale del seguente brano del Vangelo di S. Matteo (19,12): Vi sono infatti eunuchi che nacquero così dal seno della madre, e vi sono eunuchi che si resero tali da sé per il Regno dei Cieli. Chi può comprendere comprenda. Eusebio precisa che l’autoevirazione fu anche causata dalla giovane età dell’insegnante e dalle dicerie circa possibili sue tresche con alcune allieve. D’altronde non si trattava di un caso isolato. Già l’imperatore Adriano (117-138 d.C.) aveva dovuto emanare una legge che condannava coloro che si castravano volontariamente.
Nelle Omelie su Geremia (19,8-9) a commento del passo di Ger. 20,9 che recita Non pronuncerò il nome del Signore e non parlerò più del suo nome. Nel mio cuore si è acceso come un fuoco ardente che brucia nelle mie ossa e mi divora interamente e non riesco a sopportarlo, Origene scrive: Volesse il cielo che anch’io, subito dopo aver peccato e aver proferito una parola peccaminosa, sentissi nel mio cuore ardere un fuoco che bruciasse nelle mie ossa al punto da non riuscire a sopportarlo…Si tratta di un genere di fuoco che non si percepisce con i sensi, ma provoca un tal dolore a colui che ne vien toccato da essergli intollerabile… Io temo che ci sia riservato un genere di fuoco come quello che arse il cuore di Geremia. Non lo abbiamo sperimentato, però; se l’avessimo sperimentato e avessimo la scelta tra due fuochi, questo e quello esterno con il quale vediamo bruciare coloro i quali vengono torturati dalle autorità, sceglieremmo il secondo piuttosto che il primo. Quello, infatti, brucia la pelle; questo, invece, il cuore e cominciando da esso si diffonde per tutte le ossa, si ingrandisce attraverso tutte le parti del corpo ed avviene che colui che arde non riesce a sostenerlo… Dal momento che è necessario scontare le pene, ciascuno preghi Iddio perché giunga su di lui il fuoco di Geremia, in maniera che egli non sia destinato ad un altro fuoco.
Ne I Principi (III,2) scrive: …per confermare che l’eccesso di questi vizi proviene dai demoni, possiamo facilmente vedere che non meno di quelli che son tormentati dai demoni nel corpo, patiscono quelli che son oppressi da smoderati amori, da ira sfrenata, da eccesso di tristezza: infatti, alcune storie riferiscono che taluni sono diventati pazzi per amore, altri per ira, alcuni per tristezza o eccesso di gioia. Ritengo che ciò avvenga perché potenze avverse, cioè i demoni, entrati nelle menti di costoro grazie all’intemperanza che ha favorito loro l’ingresso, si impadroniscono completamente di tutti i loro sensi, soprattutto quando non li spinge più a resistere la considerazione della gloria che attende la virtù.
San Gerolamo e le sue anoressiche
Nato intorno al 340 o 347 d.C., educato nella cultura e nelle lettere classiche pagane, tra il 358 e il 364 fu battezzato e durante un viaggio in Gallia decise di impegnarsi nella vita ascetica. Il suo temperamento fortemente nevrotico, ma incline a frequenti momenti schiettamente psicotici, si esprime fin da subito. Mi aiuterò per le notizie biografiche con l’espressivo testo di Will Durant, Storia della Civiltà – L’epoca della Fede. Ad Aquileia, nell’odierno Friuli, aveva fondato una comunità ascetica tanto severa che lo stesso vescovo richiamò l’eccessiva durezza dei suoi aderenti verso le naturali debolezze dell’uomo. Gerolamo rispose in modo violentissimo definendo il vescovo ignorante, brutale, uomo immorale, ben assortito al gregge mondano a lui affidato, inabile pilota di una barca di pazzi (Durant, p. 58).
Dopo varie peregrinazioni in Oriente durante le quali fu ordinato prete tra il 377 e il 378, decise di ritornare a Roma. Qui ebbe l’incarico di segretario del papa Damaso. Continuava tuttavia la sua vita ascetica e ben presto attirò l’attenzione di numerose matrone romane e delle loro figliuole, tutte desiderose di intraprendere una vita di totale dedizione a Cristo. In particolare furono Marcella e Paola ad essere le più ferventi e a prendere sul serio quanto Gerolamo diceva. Durant così sintetizza: Attacca poi il clero romano il cui favore lo avrebbe forse elevato al papato, pone in ridicolo gli ecclesiastici profumati e dai capelli arricciati che frequentano la società di moda e i preti a caccia di lasciti che si alzano ancor prima dell’alba per visitare le donne quand’esse sono ancora a letto; condanna il matrimonio dei preti e le loro aberrazioni sessuali, discute a proposito del celibato ecclesiastico e ne dimostra la necessità; soltanto i monaci, pensa, sono veri cristiani, liberi da proprietà, da ambizioni, da orgogli. Con un’eloquenza che avrebbe convinto persino Casanova, Gerolamo esorta gli uomini a lasciare tutto per seguire Cristo, chiede alle matrone di dedicare il loro primogenito al Signore come offerta richiesta dalla legge e consiglia alle amiche, se non possono entrare in convento, di vivere come vergini nelle loro case. Quasi giunge a giudicare il matrimonio un peccato (“Esalto il matrimonio, ma solamente perché mi dà delle vergini”), propone di “abbattere con la scure della verginità l’albero del matrimonio” ed esalta Giovanni, l’apostolo celibe, su Pietro che era sposato (p. 61). Con simili insegnamenti convinse molte donne già propense alla vita ascetica in cui la rinuncia sessuale e il digiuno costituivano la forma più elevata di perfezione. Una figlia di Paola, Blasilla, morì (ott.- nov. 384) probabilmente per le conseguenze di tale regime di vita, …alcuni pagani proposero di gettarlo nel Tevere con tutti i monaci di Roma; senza alcun segno di pentimento, egli indirizzò una lettera di consolazione e rimprovero alla madre, istericamente disperata (p. 62).
L’ 11 dicembre del 384 moriva papa Damaso, il suo protettore. Il suo successore, Siricio, non gli rinnovò l’ufficio di segretario ed anzi fu piuttosto duro con lui. Egli allora se ne andò e si ritirò in Terra Santa a Betlemme, dove fu seguito da Paola e da Eustochio, un’altra sua figlia. Qui fondò un convento femminile, una chiesa, un ospizio per i pellegrini. Qui attese alle sue opere più importanti dal punto di vista culturale, come la traduzione della Bibbia in latino. Ma a noi interessano i lati biografici che mettono in luce gli aspetti patologici della sua personalità. Durant (pp. 63-64) riprende il racconto: Girolamo fu un santo perché visse una vita ascetica, tutta devota alla Chiesa, ma certo, in quanto a carattere, non lo si può considerare tale. E’ triste trovare in un uomo così grande tante violente esplosioni di odio, tante distorsioni della verità nei suoi giudizi e tanta ferocia nelle controversie; così, ad esempio, chiama Giovanni, patriarca di Gerusalemme, un Giuda, un Satana al quale l’inferno non potrà mai dare adeguata punizione; descrive il maestoso Ambrogio come un “corvo deforme” e, per creare noie al vecchio amico Rufino, perseguitò il morto Origene con tale furia da costringere il papa Atanasio a condannare Origene come eretico (400). Ci sarebbe più facile perdonargli alcuni peccati della carne piuttosto che queste durezze dell’anima…Mentre era ancora in vita, le amate Paola, Marcella ed Eustochio morirono; quasi senza voce e senza carne per via delle pratiche ascetiche, curvo per l’età, continuava a lavorare giorno dopo giorno intento ad un’opera dopo l’altra. Il 30 settembre del 420 Gerolamo si spegnava a Betlemme, Paola era morta nel 404, Marcella nel 411 ed Eustochio nel 419, tutte probabilmente anche per gli stenti e le privazioni autoinflittesi.
Circa il rapporto assai conflittuale e morboso con la sessualità, valgano alcuni passi. Il primo è tratto dalla sua prima opera, la Vita di San Paolo Eremita, scritta fra il 377 e il 378. Vi si raccontano episodi della persecuzione avvenuta sotto l’imperatore Decio (249-251), in particolare al cap. III si legge:
Un altro martire, ancora nel fiore della giovinezza, egli [l’imperatore] lo fece portare in un giardino colmo di delizie. Quivi, fra candidi gigli e vermiglie rose, mentre lì accanto serpeggiava un ruscello col suo dolce mormorio, e tra le foglie degli alberi spirava un venticello leggero, lo fece adagiare sopra un letto di piume, e perché non potesse levarsi da quella posizione, lo fece avviluppare da una fitta rete di soavi ghirlande. Mentre si allontanavano tutti gli altri, si fece avanti una meretrice di stupenda bellezza e cominciò ad abbracciare il collo del giovane con teneri amplessi, e poi – cosa peccaminosa perfino a dirsi – a toccargli con le mani le parti virili, affinché , una volta eccitato quel corpo alla libidine, vi si buttasse sopra come una spudorata trionfatrice. Quel soldato di Cristo non sapeva che fare né dove voltarsi. Colui che non si era piegato davanti ai tormenti, stava per essere sopraffatto dal piacere dei sensi. Infine, ispirato dal cielo, si tagliò con un morso la lingua e la sputò in faccia a quella donna che lo stava baciando; fu così che l’intensità del dolore fisico lo rese capace di superare gl’istinti della libidine.
Nell’anno 400-401 Girolamo scrisse la lettera 107 indirizzata alla matrona romana Leta, figlia del pagano Albino, la quale chiedeva consigli circa l’educazione da impartire alla figlioletta Paola. Nel capitolo V racconta un episodio, riferito alla già citata giovane Eustochio, episodio che testimonia ancora il carattere del rapporto del santo con la sessualità: Pretestata, donna già appartenente alla più alta nobiltà, su richiesta del marito Imezio, zio paterno della vergine Eustochio, cambiò l’abbigliamento e il trucco di quest’ultima; le acconciò i capelli, dapprima così trascurati, in una serie di trecce ondulate, allo scopo di far cadere sia la vocazione della vergine, sia l’aspirazione della madre sua [la già citata Paola, madre di Eustochio, n.d.r.]. Ma ecco cosa ti succede: quella stessa notte [Pretestata] vede in sogno un angelo che le si avvicina e con terribile aspetto le minaccia castighi e le butta in faccia queste parole: “Sei tu che hai osato anteporre a Cristo la volontà di tuo marito e acconciare con mani sacrileghe il capo di una vergine consacrata a Dio? Per questo le tue mani diverranno secche, perché tu possa capire, attraverso una simile punizione, il gran male che hai fatto, e, passati cinque mesi, verrai trascinata all’inferno. Se poi, nonostante ciò, tu vorrai perseverare nella tua scelleratezza, resterai priva ad un tempo del marito e dei figli”. Tutto questo si compì con assoluta precisione e quella morte, avveratasi presto, venne a suggellare un pentimento troppo tardivo della povera donna. E’ in questo modo che Cristo si vendica di quanti violano il suo tempio, è così che difende le sue gemme e i suoi gioielli più preziosi. Ti ho riferito questo fatto, non già perché voglia insultare le disgrazie di questi infelici, ma per meglio sottolinearti con quanto timore e cautela tu devi custodire quella figlia [Leta] che hai votato al Signore.
Il peggio di sé sotto il profilo psichico Girolamo lo dà però nella lettera XXII alla vergine Eustochio per segnalarle gli ammaestramenti necessari per la vita di una buona ragazza cristiana. In un passo abbastanza oscuro al capitolo XXV Girolamo si riferisce ai turbamenti notturni che nel sonno possono sopravvenire alla fanciulla. Con ripetuti riferimenti biblici al Cantico dei Cantici allude al rapporto spirituale con lo Sposo, Cristo, che la stuzzicherebbe per ricordarle in realtà che ella si mantiene pura e vergine per Lui. Il brano è ambiguo anche per il ruolo di seduttore-tentatore che assume la figura dello stesso Gesù al di là di qualsiasi possibile significato simbolico. Le citazioni riprese dal Cantico sono messe tra virgolette: Ti custodisca ognora il segreto della tua cameretta, e lo Sposo giochi sempre con te in quella dolce intimità. Se preghi, tu parli con lo Sposo; se leggi, è Lui che ti parla. Quando il sonno graverà su di te, egli si accosterà alla parete, infilerà la sua mano attraverso lo spiraglio1 e toccherà il tuo seno; allora sorgerai tutta tremante e dirai “Son ferita d’amore”2 , e di rimando ascolterai le sue parole: “Giardino chiuso sei, mia sorella e mia sposa: giardino chiuso e fonte sigillata”3.
Circa invece il rapporto conflittuale-sadico con il cibo e il modo in cui impone alle giovani cristiane oltre all’astinenza sessuale anche quella nutrizionale valga questo florilegio di passi tratti dalla lettera XXII ad Eustochio:
cap. X: Innumerevoli e sparsi un po’ dappertutto sono i passi della scrittura che condannano la golosità e mettono in risalto i cibi frugali. Ma poiché non intendo per ora approfondire l’argomento del digiuno – d’altra parte una completa trattazione di esso comporterebbe un titolo e un volume a sé stanti -, basterà qui accennare ad alcuni tra i moltissimi esempi. Del resto, potrai tu stessa crearti una vera collezione, sulla base dei seguenti modelli: ricordando cioè come il primo uomo fu scacciato dal Paradiso, in questa valle di lacrime, appunto per la sua sottomissione al ventre piuttosto che a Dio, e proprio con la fame Satana tentò nel deserto lo stesso Signore; inoltre l’Apostolo [S. Paolo] esclama: “Il cibo è per il ventre e il ventre per il cibo, ma Dio distruggerà e l’uno e l’altro” ( I Cor., 6,13), e lui stesso [ancora s. Paolo], riguardo a i mangioni: “Il loro Dio è il ventre” (Fil., 3,19). Ognuno infatti adora ciò che ama: di conseguenza, coloro che l’ingordigia ha fatto espellere dal Paradiso, provvedano con ogni sollecitudine a rientrarvi mediante la fame;
cap. XVII: Ti siano compagne unicamente quelle donne che vedrai dimagrite dal digiuno, col volto soffuso di pallore, d’età matura e di condotta esemplare; esse che cantano ogni giorno nell’intimo del cuore: “Dove pasci il tuo gregge? Dove riposi al meriggio?” (Cant., 1,6), e ripetono con tutta sincerità: “Desidero morire ed essere con Cristo” (Fil., 1,23);
capp. XVII-XVIII: Chi ha mortificato le sue membra, e andava in giro quasi ridotto ad una larva, non teme di affermare: “Son divenuto come un otre esposto alla brina” (Salmi, 118,83), perché qualsiasi umore del corpo mi si è tutto riarso e “ho le ginocchia malferme per il digiuno” (Salmi, 108,24); e ancora: “Mi sono scordato di mangiare il mio pane; a forza di emettere gemiti, mi son ridotto a pelle e ossa” (Salmi, 101, 5-6). Sii la cicala della notte. Tutte le notti lava il tuo letto col pianto, irriga di lacrime il tuo giaciglio;
cap. XXX: Molti e molti anni fa , con un taglio netto, mi sbarazzai della casa, dei miei genitori, della sorella, dei parenti e – cosa più difficile ancora – dell’abitudine a una mensa piuttosto raffinata, per il regno dei cieli…;
cap. XXXV: Il digiuno è uguale per tutto l’anno, eccettuata la Quaresima, nella quale si permette un’astinenza più rigorosa. Da Pasqua fino a Pentecoste, si fa coincidere la cena con il pranzo, sia per conformarsi alla tradizione ecclesiastica 4, sia per non appesantire lo stomaco, prendendo due pasti al giorno.
Nella lettera 107 a Leta sull’educazione della figlia non mancano anche qui consigli ‘dietetici’ per la bambina, che si può supporre ancora piuttosto piccola. Nel cap. VIII afferma: Non prenda i pasti in comune, vale a dire, alla stessa tavola dei genitori; così non vedrà certi cibi che altrimenti potrebbe desiderare… Già sin d’ora s’abitui a non bere vino, “che è fonte di lussuria” (Ef., 5,8). Poi, data la tenera età della piccola, fa una concessione: Tuttavia, un’astinenza troppo rigida è pericolosa per i bambini, che hanno ancora il fisico gracile, prima di giungere all’età della robustezza. Fino a questo tempo, proprio se è necessario, vada pure ai bagni, beva altresì un po’ di vino per le esigenze dello stomaco, e si corrobori nutrendosi di carne, perché le sue gambe non abbiano a vacillare ancora prima di cominciare a correre. Ma “questo io lo dico a titolo di concessione, e non di comando” (I Cor., 7,6). La bambina deve crescere sana in modo da potersi preparare alle astinenze della vita cristiana. L’accenno ai bagni ci fa capire che la vita cristiana implica anche il non lavarsi, rinunciando all’igiene intima.
Sant’Agostino e sua madre
Santa Monica e suo figlio
Agostino nacque a Tagaste nel 354, da Patrizio, piccolo proprietario terriero, e Monica, di famiglia cristiana. Dopo gli studi giovanili nella località africana di Madaura, poté, grazie agli aiuti economici prestati da un lontano parente e amico di famiglia, Romaniano, andare a Cartagine, la città più prestigiosa dell’Africa nord-occidentale di quei tempi. Qui visse in modo spregiudicato, come giovane inquieto e fortemente aggressivo. Seguiva gli spettacoli teatrali, che all’epoca avevano spesso caratteristiche simili ai nostri spettacoli pornografici, e andava al circo, che nell’antico mondo romano era la messa in scena di una violenta aggressività guerriera ormai sopita e repressa da secoli in cui la spinta espansionista del dominio romano si era affievolita. Si legò ad una ragazza di modesta condizione sociale da cui ebbe giovanissimo un figlio a cui fu imposto il nome significativo di Adeodato, “donato da Dio”. Intanto continuava gli studi di prestigio dell’epoca, volti soprattutto a fare di lui un professore di retorica, cioè di quel campo del sapere la cui preparazione era indispensabile per tutti i ragazzi di buona famiglia che avessero voluto entrare nelle élites dirigenti della pubblica amministrazione e di quella classe senatoria che costituiva il ceto più ricco ed elevato del tempo.
Tornato a Tagaste, si legò per un certo periodo alla setta religiosa del Manicheismo, una delle concorrenti del Cristianesimo nella lotta per prevalere nel primato religioso nell’impero a spese del sempre più morente paganesimo. Attraverso un suo esponente, Fausto, egli si trovò di fronte ad una concezione che affermava l’esistenza di due divinità, una del bene e l’altra del male, in perenne lotta fra loro. Sulla Terra v’era il campo di battaglia di questa guerra e, ovviamente, i Manichei erano schierati coi buoni contro i cattivi. Il Manicheismo andava molto forte in Oriente, oltre i confini di Roma, nel vicino impero persiano e cercava di diffondersi altrettanto bene anche nell’impero. Agostino rimane convinto a metà, ma riceve anche da Fausto lo spunto per andare a cercar fortuna nella città più importante e prestigiosa dell’impero: Roma. La partenza dal porto di Cartagine è un episodio che molto ci rivela dell’attaccamento morboso della madre, Monica, al figlio: ella lo vuole seguire ad ogni costo e lui con un sotterfugio riesce a sottrarsi alle sue grinfie ed a imbarcarsi da solo. Dopo un mese lei lo raggiungerà immancabilmente: il suo sogno era di vederlo diventare cristiano e possibilmente monaco (sogno da lei fatto veramente): un figlio dedicato a Cristo è meglio che un figlio dedicato ad un’altra donna.
A Roma Agostino non ha fortuna. La capitale a quell’epoca era un caos, frastornante e priva di ogni fascino dell’antico splendore. Egli era morbosamente ossessionato dalla ricerca della Verità, di una verità definitiva che risolvesse una volta per tutte la sua nevrosi d’angoscia nella quale non riusciva a trovare requie. Dapprima si ammalò, poi cominciò a insegnare, ma gli studenti erano indisciplinati e fuori controllo, soprattutto non gli pagavano i conti alla fine del mese! Cadde in depressione, abbracciò la filosofia scettica assumendo un atteggiamento cinico e disincantato di fronte alla vita. Monica, cristiana fervente, lavorava per farlo convertire al Cristianesimo. L’occasione arrivò. Ottenne un buon posto a Milano, dove era vescovo sant’Ambrogio. Milano era ben altra città da Roma: di fatto era una delle capitali dell’impero d’Occidente se non la capitale vera e propria. Qui Agostino poteva trovare ben altro spirito ed ordine di vita. La città era poi dominata dalla figura del suo vescovo, uomo energico ed abile politico, capace di incutere timore agli stessi imperatori romani. Cominciò a seguire le prediche di Ambrogio e ne rimase progressivamente affascinato fino a giungere alla conversione (impossibile non pensare che Monica non avesse comunque avuto un ruolo in tutto ciò). Finalmente la “famiglia” era riunita: acquistata una villa a Cassiciaco in Brianza, Agostino vi dimorò con la madre ed il figlio, Adeodato, ricostituendo un vero e proprio nucleo familiare edipico mascherato sotto il velame del sodalizio religioso. La madre naturale di Adeodato si era già da tempo allontanata diventando suora e tornando in Africa (Monica c’entra qualcosa anche in questo? le fonti non ci dicono nulla, possiamo solo sospettarlo). Nella villa vi sono anche amici e discepoli. Tra il 386 e il 387 inizia a scrivere alcune delle sue opere più importanti. Nell’aprile del 387 riceve il battesimo da Ambrogio e nell’ottobre-novembre dello stesso anno Monica muore. Ora Agostino era “libero” e poteva rientrare in Africa. Una volta tornato, mantenne tuttavia salda la sua fede, fondò una congregazione monastica, fu fatto vescovo di Ippona e soprattutto scrisse e scrisse moltissimo in difesa del Cristianesimo contro eresie, paganesimo ed altre religioni, facendo confluire nelle battaglie religiose e teologiche la sua aggressività repressa che in passato aveva rivolto contro se stesso, entrando così nella spirale dell’angoscia. Riempì la sua vita di mille impegni e doveri che gli permisero di trascorrerla attivamente, ma ebbe anche modo di riflettere su di sé e di pensare costruendo il suo capolavoro filosofico e letterario, Le Confessioni, nel quale emerge con chiarezza il suo violentissimo e patologico senso di colpa verso tutto e verso tutti che si traduce nell’affermazione dell’inesorabile peccaminosità non solo sua, ma di tutta l’umanità. Essa è una “massa dannata”, condannata geneticamente al peccato dopo quello originale dei progenitori, Adamo ed Eva. Oscuramente e inconsciamente Agostino rilegge la sua vita dopo la morte della madre come un costante riferimento al peccato della carne, nella nostalgia di un Edipo mai pienamente realizzato sul piano fisico e trasposto e sublimato su quello religioso nella forma dell’unione “spirituale” con Dio ed attraverso di esso con la madre. Rapporto però vissuto in modo drammaticamente conflittuale fino alla teorizzazione della radicalità del peccato e della colpa in tutta l’umanità, colpa che si trasmette geneticamente da una generazione all’altra, inconsapevole espressione del vissuto dell’incesto nella forma dell’Immagine e come elemento costitutivo della stessa specie umana: siamo figli di fratelli, Adamo ed Eva, congiuntisi carnalmente fra loro e ripetiamo in noi questo desiderio.
Qualche testo vale forse a chiarire questo rapporto difficile con la madre in Agostino.
Quando era andato a Cartagine, vivendo, come già detto, esperienze di giovane scapestrato, la madre, addolorata per la condotta del figlio, fece un sogno che egli ci racconta nelle Confessioni (III,11): Sognò infatti che se ne stava ritta in piedi su di un’assicella e che uno splendido giovane le veniva incontro lieto e sorridente, mentre essa si consumava nella tristezza e nella desolazione. Egli le chiese la cagione di quella sua mestizia e di quel suo piangere continuo; non che avesse bisogno di sentirselo dire, ma, come succede, per aver modo di dirle quanto voleva. Avendo ella risposto che piangeva la mia rovina, egli volle che si riconfortasse, esortandola a ben notare ed a vedere che là dove era ella, qui mi trovavo anch’io. Ed ella riguardò e vide che io le stavo accanto sulla stessa assicella. Perchè quel sogno, se non perché porgevi [si rivolge a Dio] orecchio al suo cuore, Tu, o buono e onnipotente, che ti prendi cura di ciascuno di noi come fosse l’unico oggetto delle tue preoccupazioni, e di tutti insieme come di ciascuno? E come mai poi quest’altro? Quando ella mi ebbe narrato quello che aveva visto, io tentai di spiegarne il significato nel senso che ella piuttosto doveva sperare di diventare quale ero io: ma sull’istante, senza ombra di esitazione,: “No”, disse, “Non mi è stato detto : “Dove lui, ivi tu”; ma “Dove tu, ivi lui”. Il sogno lascia intravedere, pur nella sua simbologia di copertura dei desideri latenti di origine utero-infantile, l’intenzione di trascinare il figlio verso di sé in una forma di sessualità sublimata attraverso la religione e la comune fede che consente di eliminare tutti i membri che possono ostacolare il legame: così verrà “eliminata” la madre del figlio, Adeodato, così viene eliminato il padre di Agostino. La figura paterna di Agostino, non coinvolta nella religiosità morbosa cristiana della madre, rappresenta la sessualità fallica, che la madre Monica non manca mai di castrare sistematicamente con una vera e propria opera di persuasione sistematica in contrasto con quella paterna, di cui Agostino stesso ci è testimone: Ma quando, in quel sedicesimo anno [della mia vita] le condizioni domestiche per un certo intervallo mi tennero lontano dalla scuola e vissi coi miei genitori, i rovi delle passioni crebbero più alti del mio capo; né mano alcuna li stroncava. Che anzi un giorno, al bagno, quel padre mio, notati in me i segni della pubertà, le inquietudini dell’adolescenza, quasi già rallegrandosi dei nipoti futuri, lo fece sapere esultante a mia madre, esultante di quella ubriacatura data dal vino invisibile di una volontà guasta e inclinata alle bassezze, ubriacatura che fa dimenticare a questo mondo il Creatore e fa amare in sua vece la creatura.
Ma nel cuore della madre mia Tu stavi già edificando il tuo tempio, il fondamento della tua santa casa: egli invece era ancora catecumeno, ed anche da poco. Perciò ella ebbe un sussulto di angosciosa, pia trepidazione, e, quantunque io non fossi ancora tra i tuoi fedeli, paventò per me la strada falsa su cui cammina chi ti rivolge il dorso e non la faccia.
Ahimè! ed io oso dire che Tu, o mio Signore, non mi parlavi quando sempre più mi allontanavo da Te? Non mi parlavi? Ma di chi erano se non tue le parole che per mezzo della madre mia, tua fedele ancella, Tu facevi risonare alle mie orecchie? Ma purtroppo nessuna di esse penetrò nel mio cuore fino a farmele seguire. Voleva, e ricordo con quale intensa sollecitudine me ne ammonisse in segreto, che io mi astenessi dalle fornicazioni e, soprattutto, dall’adulterio (Confess. II,3).
La madre qui svolge la funzione di castrazione del principio maschile rappresentato dal padre, ma il gioco dell’Edipo non può essere eluso. Il rapporto edipico è sempre un triangolo e richiede un padre da escludere nella relazione madre-figlio. Un padre tanto potente da essere inesistente, un padre che sancisca l’unione “sull’assicella” fra madre e figlio, senza che ne sia lesa la potenza rispetto a tale relazione: anzi, essa, di per sé incestuosa, viene avvalorata, poiché entrambi sono uniti non più nella sottomissione ad un padre carnale, bensì ad un padre spirituale. Il vincolo edipico è quindi sublimato nella dimensione religiosa. L’assassinio metaforico del padre carnale è compiuto a spese della sessualità procreativa maschile e femminile di entrambi gli assassini, madre e figlio. Il figlio castrato-casto si sottomette al nuovo Padre spirituale, ed ha come premio la madre e la ricostituzione di un nucleo familiare con il figlio Adeodato e con la madre-sorella-moglie in Cristo Monica nella villa di Cassaciano, dopo il trasferimento a Milano. Non è un caso che il Cristianesimo avesse così grande successo fra le donne, soprattutto fra quelle sposate con figli. Esse potevano attraverso di esso eliminare il marito per trovare un Padre Onnipotente, un ideale dell’Io perfetto in Cristo, a cui dedicare una volta per tutte il proprio desiderio, fino al sacrificio personale. Se il figlio è maschio, come nel caso di Agostino, lo si castra per possedere anche lui, ed il figlio accetta questo gioco che gli consente la sottomissione al Padre (amore omosessuale per il genitore dello stesso sesso) e il possesso della madre (amore eterosessuale per il genitore di sesso opposto). Il ciclo di Edipo è così ripetuto e risolto a spese della sessualità ed a prezzo del sadomasochismo legato al fantasma di castrazione. Il padre carnale scompare dal proseguimento delle Confessioni come figura legata alla vita presente e ricompare soltanto il suo ricordo soltanto quando si parlerà della morte della madre nel libro IX. Qui egli è il contraltare di Monica: facile all’ira e pieno di difetti di contro a lei, modello di virtù (IX,9); oppure si parla di lui morto e seppellito insieme a Monica.
Come ogni amore edipico, come ogni amore che lo riproduce, non mancano i contrasti, il lasciarsi per poi riconciliarsi. Quando Agostino parte per Roma, egli descrive la scena in cui abbandona la madre, che voleva impedirgli questo passo o comunque che voleva andare con lui. La scena è sembrata ad alcuni interpreti avere un sapore biblico: come un novello Mosè, Agostino parte per la sua nuova missione che lo porterà alla conversione, Terra Promessa del Cristianesimo. Ma ad altri non sono sfuggiti i riferimenti al passo in cui Enea nell’Eneideabbandona Didone (Aen. IV, 584-705), la regina di Cartagine, perdutamente innamorata di lui, per seguire il suo destino. Qui il desiderio di distacco dalla presenza soffocante di Monica si traduce nella fuga dall’amante, fuga inutile perché Edipo corre con Agostino e Monica di lì a poco lo raggiungerà (cosa che Didone non poteva fare, ella si suicidò per il dolore): Tu invece lo sapevi, o Signore, perché io dovessi andarmene di qui e recarmi colà: ma non lo lasciavi capire né a me né a mia madre. Ella fu atrocemente addolorata della mia partenza; mi seguì fino al mare: mi si aggrappava a forza, voleva farmi tornare indietro o partir meco: ed io la ingannai fingendo di non voler staccarmi da un amico finché, levatosi il vento, egli intraprendesse la navigazione. A mia madre mentii, a quella madre! E fuggii.
Per la tua misericordia anche questo mi perdonasti; sozzo qual ero di colpe detestabili, mi facesti salvo dalle acque del mare fino a quelle della tua grazia: mondato da questa si sarebbe asciugato il fiume delle lagrime di cui la madre ogni giorno, sotto il tuo sguardo, irrorava la terra.
Siccome non voleva assolutamente ritornare senza di me, dovetti convincerla a passare la notte in una cappella dedicata al beato Cipriano, molto vicina alla nave. E in quella notte, mentre ella, piangendo, stava assorta nella preghiera, io me ne partii di nascosto.
Che cosa ti domandava, o Signore, fra tante lagrime? Che Tu non mi lasciassi partire. Ma tu, nei tuoi profondi disegni, per esaudire la parte sostanziale del suo desiderio, non facevi caso a quello che desiderava in quel momento per render me quale sempre aveva desiderato.
Si levò il vento, gonfiò le nostre vele e tolse ai nostri sguardi il lido; dove ella il mattino seguente, pazza di dolore, stancò le tue orecchie con lamenti, con gemiti che Tu, però, non prendevi in considerazione, perché mi facevi correr dietro alle mie passioni per farla finita proprio con le passioni e giustamente battevi con la sferza del dolore il suo rimpianto troppo terreno. Ché ella , come tutte le madri, anzi molto più della maggior parte di esse, faceva tutt’uno del suo amore per me e della vicinanza, ignara dell’immensa gioia che Tu le avresti procurato dalla mia partenza. Ignara: e perciò piangeva e ululava; e da quei tormenti si poteva riconoscere il retaggio di Eva: cercava tra i gemiti ciò che aveva partorito tra i gemiti. Infine, deprecati il mio inganno e la mia crudeltà, ridotta di nuovo a pregare per me, dové riprendere la vita consueta: io giunsi a Roma (Confess. IV, 8).
I protagonisti del dramma edipico sono sempre tre: prima un padre eliminato, una madre ed un figlio, poi un padre-superio-ideale dell’io, una madre ed un figlio. Il triangolo si ripete: le parole di Agostino, intense, ma non per questo prive di riferimenti biblici e classici, rifinite dall’artificio retorico, tuttavia trasudano Edipo. Egli fugge, ma sa che cederà all’amata tramite un Padre ora sadico che infligge sofferenze alla novella Didone, per darle poi il premio tanto desiderato: un figlio cristiano tutto per lei.
Per un breve attimo la famiglia è composta, come già detto, a Cassaciano: Agostino, Monica, Adeodato. Ma il Padre Padrone si riprende ciò che il desiderio di incesto voleva togliere: Monica muore e lascia Agostino. Tutti e due si sottomettono nuovamente all’autorità di questo Padre Padrone, che prima dà, poi toglie, poi ridà, per poi di nuovo togliere in un continuo gioco sadico a cui acconsente il masochismo di Monica e di Agostino stesso. Nel libro IX quest’ultimo dedica ben 6 capitoli alla morte della madre (dall’ 8 al 13) e la preoccupazione massima del filosofo è di evitare che ella possa essere punita per i suoi peccati dal Padre/Padrone. Quali i peccati di Monica? Un oscuro sentimento preconscio del desiderio edipico verso di lui? Impossibile dirlo, poiché Agostino parla solo genericamente di non esser sicuro che dal giorno del suo battesimo nessuna voce mai contraria alla tua legge sia uscita dalle sue labbra (IX, 13) e di un peccatuccio di Monica giovinetta a cui dedica tutto il capitolo 8. Assaggiava il vino che i genitori la mandavano a prendere non perché fosse una amante del bere, ma per una di quelle bravate fanciullesche che si sfogano in impeti di gioco e vengono represse nei giovanetti dall’autorità delle persone anziane. Una serva una volta la vide e l’accusò di essere una ubriacona ed ella se ne vergognò tanto da non farlo più. L’immagine che Agostino ci dà di Dio è quella datagli dalla madre: il Padre Jahvé autoritario e severo punitore di peccatori senza speranza. In questo clima il contrasto edipo-superio è fortissimo in entrambi e si conclude con la vittoria del più forte: il Padre.
Un commento: qualche ipotesi interpretativa
Tra il I ed il V secolo d. C. si è scatenata nell’impero romano una lotta senza quartiere fra religioni per conquistarsi l’anima della gente. E’ quella che solitamente si chiama “crisi morale e spirituale” dell’impero romano. E’ un periodo in cui le nevrosi individuali e collettive assumono i connotati dell’angoscia e della ossessione. Sono momenti in cui in una società la percezione collettiva del vuoto di cui si è parte e delle sue magmatiche caotiche e casuali dinamiche svelano il volto dell’abisso: paura della morte, perdita dei punti di riferimento, senso di abbandono da parte delle autorità politiche, religiose, statali tradizionali, crisi esistenziale di un modo di vivere basato su di una tradizione costruita dalle generazioni precedenti che avevano inventato valori e autorità di riferimento. Su tutti grava il peso degli antenati, di una storia già fatta, che ha portato Roma all’Impero. I nuovi nati si sentono inseriti a forza in questa storia, eredi di una tradizione che non è la loro, costretti da padri, nonni, agnati impressi nella loro Immagine onto e filogenetica a vivere una vita che non è la loro. Questi sono alcuni dei fattori sociali che, al pari della genesi di una nevrosi individuale, caratterizzano quest’epoca di crisi. A rigore veramente si potrebbe dire che tale situazione c’è sempre, ma è anche vero che in determinati momenti i coaguli dello stress e dell’angoscia si fanno tali da divenire preponderanti. Nella fase storica precedente, quando Roma era una civiltà ed un mondo in crescita alla conquista, l’aggressività assumeva connotati tipici di una sessualità-aggressività anale, dove la conquista del mondo e l’acquisizione di ricchezze sono le forze direttive dell’attività sociale. Così sembra essere fino alla fine della Repubblica e al passaggio all’Impero.
Poi questa spinta rallenta, ma le forze copulsionali che la generano no. Cambia perciò la forma con la quale si esprime l’attività sociale, ma non l’energia di base che la alimenta.
Durante l’impero, nel periodo in cui il Cristianesimo lotta e si afferma, sul piano delle tre attività fondamentali dell’uomo, la crisi ha un impatto devastante.
Per quanto riguarda l’aggressività, questa viene spesso introiettata, inizia a prevalere una fase masochista autodistruttiva, poiché la società subisce l’impatto di quella sadica degli antenati, il cui peso inibisce la volontà di potenza. L’espansionismo guerresco si arresta, la conquista delle ricchezze rallenta: potere e ricchezza si ottengono ora per corruzione oppure si nasce già ricchi. Non c’è nulla da conquistare che gli antenati non abbiano già conquistato. La coazione a ripetere spinge l’aggressività nella forma della distruzione e dell’autodistruzione. Non ci sono più nemici all’esterno da conquistare o da combattere. Nasce un forte senso di colpa e di persecuzione, di inadeguatezza di fronte all’Immagine degli antenati. Per cercare di imitarli ci si inventano nemici fittizi: iniziano le lotte religiose che culminano nelle persecuzioni, negli scontri di piazza, nei linciaggi. Il fanatismo e l’intolleranza imperano in tutte le religioni, l’una contro l’altra armata. Pagani contro cristiani prima e cristiani contro pagani poi, cristiani contro cristiani in una serie ininterrotta di violenze inaudite. Un caso tipico è quello dei Cristiani di Alessandria in Egitto guidati dal vescovo Cirillo che assassinarono la filosofessa neoplatonica Ipazia tra il 413 e il 415. Lo storico inglese settecentesco e illuminista Edward Gibbon nella sua Storia della decadenza e caduta dell’impero romanoracconta l’episodio: Ipazia, figlia del matematico Teone, era iniziata negli studi del padre; i suoi dotti commenti hanno meritato la geometria di Apollonio e di Diofanto, ed ella insegnava pubblicamente in Atene e in Alessandria la filosofia di Platone e di Aristotele. Nel fiore della bellezza e nella maturità della sapienza, la modesta giovane respingeva gli amanti e istruiva i suoi discepoli. Le persone più illustri per grado e per merito ambivano di visitare quella donna erudita, e Cirillo osservava con occhio geloso il pomposo seguito di schiavi e di cavalli che si affollava alla porta della sua accademia. Tra i cristiani si sparse la voce che il solo ostacolo alla riconciliazione del prefetto e dell’arcivescovo fosse la figlia di Teone , e quest’ostacolo fu presto rimosso. Un giorno fatale, nella sacra stagione della quaresima, Ipazia fu strappata dalla sua carrozza e uccisa da Pietro il Lettore [fanatico cristiano seguace di Cirillo] e da una turba di spietati e selvaggi fanatici. Le fu staccata la carne dalle ossa con gusci di ostrica e furono abbandonate alle fiamme le sue membra ancora palpitanti. L’inchiesta del delitto e la sua giusta punizione furono fermate con opportuni donativi; ma l’assassinio d’Ipazia ha impresso una macchia indelebile sul carattere e sulla religione di Cirillo Alessandrino (pag.1816 edizione italiana Einaudi).
Altrimenti l’aggressività ormai psicotica si rivolge contro se stessi, come nel caso di Origene e di tanti altri seguaci dei culti e delle religioni di quei tempi. Vi è una fase di impotenza sessuale e in generale un volersi far male, un volersi autopunire per oscure colpe verso un oscuro mondo di fantasmi e dei. Gli antenati hanno compiuto un peccato terribile di cui l’umanità è erede, vera massa dannata, grida con terrore Agostino. Edipo II a livello sociale aggredisce le giovani generazioni con una brutalità feroce, alla quale essi rispondono con un’aggressività autopunitiva per le colpe scaricate loro addosso. I mores sono abbandonati, più nessuna certezza, più nessuna morale tradizionale. La religione dei padri, il paganesimo, è abbandonata. O non si crede più in nulla o ci si abbandona letteralmente anima e corpo ai nuovi culti. Tutti i miti del passato congiurano per far sentire deboli e incapaci, ed allora meglio ribellarvisi e gettarli via. Un contrasto continuo fra un odi et amo nei confronti di un mondo passato e tradizionale che da un lato è fonte di esempi, dall’altro è fonte di ribellione a questi stessi esempi.
Sul piano del sonno-sogno, il sogno, momento fondamentale della vita dell’uomo, direttore d’orchestra della nostra vita diurna, è prevalentemente sonno d’angoscia o incubo. I desideri aggressivo-sessuali dell’inconscio potentemente repressi dall’attività religiosa sessuofobica si trasformano in allucinazioni demoniache, in visioni del pene-diavolo o della donna-demonio sempre pronta a tentare e a mettere in gioco la coscienza del fedele. Spesso si tratta di sogni di angoscia in cui ci si sente perseguitati o di fronte ad un tribunale o sotto le torture, come accade al monaco Evagrio (Palladio, La storia Lausiaca, 38,4ss) o a Gerolamo (Ep., 22,30). Oppure il sogno di Monica, madre di Agostino, in cui il desiderio di incesto è tradotto in simboli religiosi (Dove tu, ivi lui, Confess. III,11). Prevalgono sogni che esprimono desideri inappagati o che rivelano una forte conflittualità psichica con la censura superegoica. Nel sogno emergono paure, angosce, soprattutto l’angoscia abbandonica e quella dell’essere puniti, schiacciati, come in una ripetizione della guerra intrauterina che nascondono la voglia di abbandonare, uccidere, schiacciare, soffocare il soffocante passato/presente parentale. La gente ne ha oscuramente consapevolezza. Si moltiplicano gli interpreti dei sogni, indovini, astrologhi, impegnati a spiegare e decodificare sogni. In generale il sogno di questi secoli vuole evadere, fuggire dal padre/madre tradizione anche se ciò genera senso di colpa. Fuggire nel nuovo, all’apparenza, in realtà è un voler ritornare al padre/madre in un movimento contraddittorio con il precedente (di qui la conflittualità interna). Il sogno diventa la voce del Padre, di Dio, del Dio dei nuovi culti, Padre nuovo che reincarna i vecchi Padri. A metà strada fra allucinazione e sonnambulismo le divinità misteriche, Iside, Serapide, Mitra, il Dio cristiano in tutte le sue forme, parlano a i loro adepti direttamente o indirettamente (messi, angeli, madonne…). Abbandonare tutto, anche i propri genitori, per ritornare a loro in tutto.
Sul piano della sessualità i testi citati sono fin troppo eloquenti. Si può parlare di sessuofobia e di psicosi paranoide nelle religioni di questi secoli, ma soprattutto nel cristianesimo. E’ vero che si sviluppa anche una sessualità apparentemente di segno opposto, fortemente “perversa”, ma essa non è che l’altro volto del medesimo fenomeno: la paura per la sessualità fallica, aggressivo-paterna. Allora o si nega la sessualità, come fa, ad esempio il cristianesimo, o si scelgono forme di sessualità prefallica o omosessuale, nel medesimo intento di negare il padre fallico come espressione dell’Immagine. La sessualità paterna, quella del guerriero, quella della società patriarcale che rese Roma, nel mito che essa stessa si è costruita, grande, viene ora messa in discussione. L’Edipo materno porta ad una tendenza alla sottomissione di fronte ad un Madre-Regime, che prende la sua rivincita sul patriarcato. Le madri comandano. Nella famiglia imperiale fra il I e il V secolo intrigano alle spalle dei meriti imperatori, complottano con figli e figlie. Livia, moglie di Augusto, Agrippina, madre di Nerone, Iulia Domna e Iulia Mesa ai tempi dei Severi, per citare solo le più famose.Le Madri-Regime delle religioni non sono da meno: Iside e la Madonna chiedono ai loro adepti le stesse cose: sacrificio, sottomissione, astinenza, castità. Il fantasma di castrazione e l’invidia del pene femminile dominano fornendo alimento alle particolari forme sado-masochiste della sessualità del tempo. L’uomo è il pene che la Madre-Regime cerca di ottenere. Così nel caso di Monica con Agostino. La pratica dell’autocastrazione è diffusa ed Origene non è certo un caso isolato.
Sull’equivalente sessuale del cibo la situazione è la stessa: il rifiuto del sesso e il rifiuto del cibo sono la stessa cosa. Il monaco Evagrio, già citato, ne è un esempio: “Da quando son giunto nel deserto non ho toccato una lattuga , né alcun altro legume verde, né frutta, né uva, né carni, né acqua per lavarmi”. Infine, dopo sedici anni di questo regime privo di cibi cotti, poiché il suo corpo, a causa della debolezza dello stomaco, aveva bisogno di alimenti passati attraverso il fuoco, non toccò più il pane, ma prese solo un po’ di verdure, o tisane o legumi secchi per anni, e mentre seguiva questo regime morì… (Historia Lausiaca, 38, 12-13). Ma sono soprattutto le donne colpite dal fenomeno dell’anoressia, di cui i passi relativi a San Gerolamo sono stati un eloquente esempio. Per esse il digiuno è equivalente alla mortificazione sessuale, al rifiuto della loro femminilità, in quanto la donna nei suoi attributi sessuali è il demonio. Mascolinizzarsi, attraverso il digiuno che fa perdere gli attributi della bellezza femminile, significa perdere il demoniaco che è in te, ma contemporaneamente realizzare quel processo di fusionalità col padre amato e desiderato. Fusione che avviene sul piano sublimato della spiritualità come, unione, identificazione con il Padre celeste, fino all’autoannullamento nella morte, cioè al ritorno allo stato originario indifferenziato, dove non c’è né maschile, né femminile.
Il Cristianesimo vince la sua battaglia perché diventa la religione che più di tutte riesce a coagulare la psicosi sociale che domina in questi secoli. La spia di questo si ha nell’esame del vissuto sul piano delle tre attività fondamentali: aggressività sadomasochista, sonno-sogno con sogno, incubo, allucinazione di angoscia e persecuzione, sessualità negata o pervertita. Il fenomeno era talmente diffuso che non stupisce che gli imperatori romani fossero costretti con Costantino a far adottare allo stato il Cristianesimo come religione ufficiale dell’impero (con Teodosio addirittura diventa poi religione di stato). Non si tratta di una vittoria completa in realtà, altre forme di religiosità sopravviveranno clandestinamente, ma è significativo che lo Stato stesso adotti una religione psicotica o vissuta in modo psicotico, come sua ideologia, come sua forma culturale e spirituale ufficiale, per comprendere fino a che punto fosse esteso il diffondersi di tale psicosi sociale.
Si tratta solo di un’ipotesi interpretativa, me che cerca di mettere in luce come gli elementi del fanatismo, dell’intolleranza e dell’integralismo tipici del fondamentalismo religioso in genere (quindi ancora oggi) siano fondate su dinamiche psichiche e somatiche che solo le metodologie e gli studi tracciati nel solco della psicoanalisi freudiana possono rischiarare.
© Alessandro Zannella
Note:
1 Riferimento a Cantico 5,4. Bisogna tenere presente che le serrature nel mondo antico erano molto grosse e attraverso di esse poteva facilmente passarvi una mano.
2 Cantico 5,8.
3 Cantico 4,12.
4 Secondo tale tradizione non era previsto nessun digiuno durante il tempo pasquale. Allora San Girolamo consente di cibarsi, ma in modo tale da ridurre il pasto a una sola volta al giorno, a mezzogiorno. Cfr. SAN GIROLAMO, Opere scelte, vol. I, a cura di E. Camisani, Torino Utet, 1971, p. 373 nota 172.
Bibliografia:
SANT’AGOSTINO, Le Confessioni, acura di C. Mohrmann, Milano Rizzoli 1981.
DURANT WILL, Storia delle Civiltà, L’epoca della fede, Milano Mondadori 1958.
FANTI SILVIO, La micropsicoanalisi, continuare Freud, Torino Borla 1983.
FANTI SILIVIO, CODONI PIERRE, LYSEK DANIEL, Dizionario di psicoanalisi e di micropsicoanalisi, Torino Borla 1989.
GIBBON EDWARD, Storia della decadenza e caduta dell’impero romano, a cura di G. Frizzi e A. Momigliano, Torino Einaudi, 2000.
SAN GIROLAMO, Opere scelte, a cura di E. Camisani, Torino UTET 1971.
ORIGENE, I Principi, a cura di M. Simonetti, Torino UTET 1968.
PALLADIO, La storia Lausiaca, Fondazione Lorenzo Valla – Mondadori 1998.
PELUFFO NICOLA, Immagine e fotografia, Torino Borla 1999.
SCIACCA MICHELE FEDERICO, Sant’Agostino, in Grande Antologia Filosofica, vol. III, pp. 253-358, Milano Marzorati 1973.
LA TEOLOGIA DEI PADRI (Testi dei Padri latini e greci orientali scelti per temi), vol. 1 Dio, Creazione, Uomo, Peccato, Roma Città Nuova 1974.
Alessandro Zannella è nato a Torino il 9 maggio del 1956. Si è laureato in Filologia classica presso l’Università locale con una tesi in storia Romana, dedicata al problema dell’ordine pubblico nella città di Roma fra il I e il III secolo d.C. Appassionato da sempre di studi filosofici, storici, religiosi, antropologici, psicoanalitici, insegna storia e filosofia presso il Liceo Scientifico di Moncalieri.