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Estratto della relazione presentata al Convegno “Adolescenza: dal disagio alla malattia” Atina, 28 aprile 2001.

Si è scritto molto sull’adolescenza e sulla tossicodipendenza; qualcosa anche è stato fatto. Addirittura si va stabilendo che l’una e l’altra siano delle specializzazioni in sè: ad esempio si parla di “adolescentologia”.
Quanto alla tossicodipendenza, ormai una ventina di anni fa, sono state fatte leggi all’uopo, e Dipartimenti specifici, perchè, sia ben chiaro, “il tossicodipendente non è un malato come un altro”..
Così che troppo spesso si perde tempo prezioso nella definizione delle competenze per questo o quel paziente: è adolescente o ancora bambino? Oppure: è ancora adolescente o già adulto, tossicodipendente o malato di mente?
O, infine, tossicodipendente o adolescente?
Che è poi la fattispecie di cui ho deciso di parlare proprio in ragione della grande incidenza del fenomeno e della mia più generale difficoltà a vedere l’uomo malato (ma anche quello sano) come fatto di pezzetti, con competenze a pezzetti.
Quando si è chiamati nei reparti di Terapia Intensiva e ci si trova davanti ad un adolescente in gravi condizioni perchè intossicato o per un atto suicidario, cadono gli steccati e si passa immediatamente al tentativo di capire.
E’ una delle evenienze più particolari per lo psichiatra abituato e formato all’uso della parola per fare diagnosi e anche per curare.
Eppure queste patologie finiscono fin troppo spesso in rianimazione: occorre tenerlo presente per i tanti casi di tentativi di suicidio, per i gravi disturbi alimentari, per le intossicazoni da droghe, per i comportamenti autolesonistici più o meno coscienti.
Quegli incontri in una grande sala comune, con i letti di emergenza occupati da corpi ignudi collegati a tubi e schermi aderiscono poco ai modelli di setting.
E non ci si abitua allo sconcerto, anzi al dolore, indotto dai giovanissimi ridotti in fin di vita per un comportamento incomprensibile, costretti al silenzio dal respiratore e con lo sguardo disperato.
Mi è capitato di recente di osservare una ragazza appena pubere che aveva assunto quantità e tipi imprecisati di farmaci trovati in casa: era stata da poco liberata dal respiratore, poteva esprimersi, ma non sapeva che dire: si trovava lì perchè “voleva provare”. Che cosa? Mistero. Già in passato aveva pensato di soffocarsi ..”per vedere cosa si prova”… Esclusi i luoghi più comuni (sempre da indagare perchè facili occasioni di rivissuti profondi di perdita-castrazione), decodificare tali curiosità sarebbe impossibile senza l’aiuto di conoscenze esterne al caso, che nel caso possono trovare conferma.
Come scrive Peluffo in un suo articolo del 1991, “il comportamento incomprensibile è legato alle manifestazioni dell’Immagine filogenetica e quindi esiste A PRIORI dallo sviluppo evolutivo e si manifesta in qualunque momento della vita della persona”.
Venendo poi all’adolescente, l’Autore considera come “in quel momento…si completa la maturazione psicobiologica e si riattivano tutte le spinte copulsionali preesistenti.”
Ad esempio, quando riflettiamo sulla definizione classica di Edipo: ”Insieme organizzato di desideri amorosi e ostili che il bambino prova nei confronti dei suoi genitori” notiamo che l’evidenza clinica imporrebbe l’uso di termini più precisi: i “desideri amorosi” stanno per “possesso”, quelli ostili stanno per “annientamento”.
Quanto al concetto di ”insieme organizzato” occorre dire che l’elemento organizzatore è l’ambivalenza che spinge le oscillazioni dal polo ‘possesso’ al polo “annientamento” e li coniuga in un’ altalenante dinamica che accompagnerà l’individuo nelle sue relazioni con il mondo per tutta al vita.
Infatti Fanti ha definito l’Edipo :

“legislazione filo-ontogenetica
che stabilisce psicobiologicamente
l’esigenza aggressivo-sessuale
di possesso-distruzione”

Una definizione che non lascia spazio a mezze misure.
Una volta sottolineata la pregnanza della situazione edipica consideriamo che l’adolescente, con il completamento del processo maturativo e il raggiungimento della piena funzionalità dell’apparato riproduttore deve fare i conti con i desideri preesistenti l’età di latenza, con la loro potenziale realizzazione e con l’angoscia che tali desideri ambivalenti determinano.
Solo per fare qualche esempio tratto dall’esperienza clinica ricorderò un sedicenne che, alzandosi in piedi durante un rimprovero del padre, realizzò di essere più alto e più forte e che, come nelle sfide comuni nel mondo animale, lo scontro avrebbe potuto volgere a suo vantaggio. Il giovane ridusse lo studio, la vita sociale e sportiva: entrò cioé in una fase depressiva sostenuta dall’angoscia di castrazione.
Correlato da parte genitorale è il caso della madre adottiva di una ragazzina sudamericana. La signora ha avuto bisogno per la prima volta dello psichiatra per Disturbo da Attacco di Panico scatenato da una colluttazione con questa prestante adolescente di 10 anni (pubere dall’età di 9), vivace e ribelle. La situazione veniva associata a fatti di cronaca relativi al matricidio operato da un’adolescente, evento che aveva attivato fantasmi ridondanti in più situazioni cliniche o sub-cliniche. E in quel caso la possibile concomitanza di uso di sostanze psicotrope faceva capolino fra i commenti che riempivano le pagine dei giornali.
Che l’uso di droghe sia presente in molti dei comportamenti incomprensibili, autolesionistici o a rischio posti in essere dagli adolescenti, talvolta a scopo autoterapeutico, è fenomeno diffuso; ma ciò non deve distoglierci da quanto affermato poco prima e che, cioé, tali comprtamenti derivino da ragioni profonde che in sé prescindono dall’uso delle sostanze anche se esse stesse finiscono con il rientrare nella categoria del comportamento potenzialmente mortifero (si veda anche l’articolo di Daniela Marenco in “Scienza e Psicoanalisi”, “I comportamenti autodistruttivi in adolescenza “, gen. 2001).
Potrei fare innumerevoli esempi: un giovane si è lanciato nel vuoto all’uscita dal cinema. “Aveva visto il film sull’omicida-cannibale” hanno scritto i giornali.
Ma era anche positivo ai tests per psicotropi.
Tutti quei morti sulle strade nelle notti dei week-end: escono dalle discoteche dove alcolici e sostanze attivanti fanno parte dei rituali.
E’ vero, come hanno scritto Peluffo e, recentemente, Zangrilli sulle pagine di “Scienza e Psicoanalisi” (Tossicodipendenza e sofferenza familiare, 1 nov. 2000), che la forma di queste modalità coatte autodistruttive cambia da una generazione all’altra e che i giovani che andavano a farsi ammazzare volontari in qualche guerra sono gli stessi delle discoteche, degli sport estremi o degli invischiamenti in relazioni amorose sadomasochistiche: attività svolte in gruppo o individualmente, ma che rispondono comunque alla logica della coazione a ripetere . Cioè alla insopprimibile necessità inconscia di rimettersi in situazioni pericolose e sgradevolissime nel tentativo di curare un’antica ferita.
E’ un meccanismo inconscio che funziona sul processo, non sui prodotti, e in questo senso è diabolicamente efficiente.
Certo c’è il rischio che tale efficienza venga meno e che, correndo in macchina, si finisca schiantati o che una dose di eroina sia fatale, ma il meccanismo è, lo ripeto, inconscio e i coinvolti difficilmente possono fare valutazioni sui rischi. Agiscono in spirito di onnipotenza, per stare meglio: ovvero per abbassare la tensione.
La coazione a ripetere è ben una situazione dolorosa, ma può avere un’anima salvifica nel senso che precostituisce la situazione stessa della ripetizione: come potrebbe altrimenti riproporre l’odioso carosello di rimettersi nella condizione assurda e umiliante al nobile fine di evitarla? Infatti non la evita: a meno che non si sia fatta una strenua analisi fino a raggiungere le componenti filogenetiche della ripetizione.
Attingo ancora una volta dalla clinica elementi che esplicitino quanto appena esposto.
Dato un giovane in adolescenza piena, ancora non sufficientemente emancipato da dinamiche conflittuali di Edipo-castrazione. Egli ha già percorso individualmente e in gruppo il tentativo di abbassare la tensione attraverso la pratica di sport estremi diventando esperto scalatore. E’ andato però incontro a diversi incidenti che lo hanno costretto a lunghi periodi di immobilità, nel frattempo ha anche incontrato una donna molto sofferente che si dichiara “uscita” da esperienze di droghe. Da qui la storia ripercorre le centinaia di altre: il “cattivo” incontro, le droghe leggere, l’uso saltuario di sostanze più incisive, attivanti. Del resto la vita sessuale del giovane alpinista non era affatto soddisfacente, invece l’alterazione dello stato indotto dagli psicotropi, in particolare se eccitanti, consentiva l’accesso al piacere.
La vicenda ha avuto in epilogo un ricovero in psichiatria per un episodio psicotico acuto. Ciò si presenta con sempre maggiore frequenza proprio per il diffondersi di anfetaminosimili e cocaina: quest’ultima, in particolare, inibisce il trasportatore di dopamina e determina pertanto l’accumulo di questo neuromediatore che è implicato nei fenomeni psicotici (i farmaci antipsicotici riducono la dopamina). La cocaina quindi è in grado di determinare quadri di psicosi paranoidea virtualmente non distinguibili dalla schizofrenia propriamente detta. Si tratta di una situazione legata ad abuso e a sensibilizzazione del sistema dopaminergico mesolimbico che deve liberare progressivamente sempre più dopamina fino a che lo stato di abuso cronico non produce una reale psicosi.
Ho sentito molti tossicodipendenti descrivere le condizioni di psicotizzazione come espressione di fragilità di chi ne rimaneva vittima: proprio come prove rituali di resistenza, versioni rivisitate delle “passatelle” al superalcolico.
Del resto la traccia filogenetica di queste ritualità di passaggio si può trovare quale tentativo di contenimento catartico, nelle religioni come nella mitologia e nelle cerimonie ancora presenti in popolazioni meno contaminate dalla globalizzazione.
In diverse etnie d’Africa si celebra il passaggio alle responsabilità adulte (ivi compresa la possibilità di prendere moglie) con prove di forza e sfide del pericolo: durante le cerimonie è in uso il taglio dei capelli e l’aspersione di parti del corpo con sostanze dense o grasse.
Nella mitologia classica i riti di passaggio che segnavano la fine della fanciullezza prevedevano il taglio dei capelli o la loro legatura e l’unzione del corpo in preparazione delle prove di caccia e abilità fisica con le armi. Infatti, nella lotta corpo a corpo, tenere i capelli legati e le membra scivolose significava avere più possibilità di sottrarsi alla presa del nemico giocando sull’agilità.
Vediamo anche l’esempio della Cresima o Confermazione: nella religione cattolica è il sacramento che fa del fanciullo l’ ”Unto del Signore” (crisma=unzione), conferma l’iniziazione cristana data dal Battesimo e sancisce il passaggio a una professione di fede anche a costo della vita.
In epoca contemporanea i riti di passaggio si inventano, si sovrappongono e si riciclano in brevissimo tempo; sono condivisi da piccoli gruppi e spesso sono privi di contenuti simbolici. Come scriveva Daniela Marenco nell’articolo già citato a proposito del suicidio, ”un’incompleta simbolizzazione, che sostituirebbe o ritarderebbe l’azione“, lascia il posto a “modalità estremamente arcaiche di risoluzione dei problemi: le modalità preverbali”.
Così prepariamoci al nuovo film sui saltatori di Parigi, gli Yamakasi: sette giovani , ormai cresciuti che cominciarono 10 anni fa, in piena adolescenza, a saltare da un tetto all’altro e che hanno lanciato una moda e si sono venduti bene sulla piazza del voyeurismo autodistruttivo.

© Gioia Marzi