Dati, tecnici ma necessari

(tratti da ” Wikipedia, l’enciclopedia libera”)

La guerra del Kippur (Yom Kippur)

guerra del Kippur

I cambiamenti dei confini dopo la guerra del Kippur

La guerra iniziò quando l’Egitto e la Siria lanciarono, nel giorno dello Yom Kippur 5734 (ottobre 1973), un attacco congiunto a sorpresa, rispettivamente nel Sinai e nelle alture del Golan, territori conquistati sei anni prima da Israele durante la guerra dei sei giorni. Gli egiziani e i siriani avanzarono durante le prime 24-48 ore, dopo le quali la situazione cominciò a entrare in una fase di stallo per poi volgere a favore di Israele. Nella seconda settimana di guerra, i siriani erano stati completamente respinti ed erano fuori dalle alture del Golan. Nel Sinai, a Sud, gli israeliani avevano agito sui punti di comunicazione tra le due armate arabe penetrate nella regione, ed erano entrati a loro volta in territorio egiziano dopo il superamento del Canale di Suez (che faceva da frontiera prima del 6 ottobre). Al momento del cessate il fuoco, la III Armata egiziana era totalmente tagliata fuori da ogni linea di rifornimento e di contatto col resto del contingente arabo, pur protetta da un forte sistema missilistico. Il conflitto ebbe implicazioni a lungo termine per molti paesi. Il mondo arabo, che si sentiva umiliato dalla completa disfatta dell’alleanza sirio-giordano-egiziana durante la guerra dei sei giorni, ebbe modo di sentirsi psicologicamente appagato dalle vittorie ottenute nelle prime battaglie e questo spianò la strada al processo di pace che si aprì poco dopo la fine delle ostilità, oltre ad alcune liberalizzazioni economiche che, nel linguaggio egiziano, furono chiamate Infitāḥ (lett. “Apertura”). Non v’è dubbio che, dopo i primi clamorosi successi arabi, la situazione tattica volse con lenta progressione a favore dell’esercito israeliano. Non c’è tuttavia neppure alcun dubbio che, strategicamente, la guerra abbia costituito un’indubbia vittoria egiziana. Il Canale fu infatti superato, contro ogni volere israeliano che aveva infatti costruito lungo tutta la linea del fronte sinaitico una massiccia opera contenitiva di difesa (la cosiddetta “linea Bar-Lev”). Occorre tenere in considerazione che durante lo Yom Kippur gli israeliani, in digiuno e preghiera e con l’intera nazione con radio e TV spenti per 25/26 ore, non poterono neppure essere informati dell’invasione e, poche migliaia di soldati israeliani in servizio (1 a 10 rispetto agli arabi), fecero l’impossibile per contrastare le forze arabe, anche esse però in digiuno e in preghiera per il mese del Ramadan. In realtà alcune categorie (bambini, anziani, donne gravide, malati, ecc.) non fanno il Ramadan, i soldati (in guerra) sono esentati dal digiuno. Il ritorno al controllo del Canale rappresentò inoltre una cospicuo cespite di entrata di divise straniere, necessarie a un paese sovrappopolato ed economicamente sottosviluppato. Gli Accordi di Camp David che intervennero subito dopo portarono alla normalizzazione delle relazioni tra Israele ed Egitto, prima nazione araba a riconoscere l’esistenza dello Stato di Israele..

188ª Brigata Corazzata: conosciuta anche come formazione Barak (“fulmine”), è una brigata corazzata regolare sotto il Comando Settentrionale. Iniziando con la guerra dei Sei Giorni, ha preso parte a tutte le seguenti guerre combattute da Israele. Durante la guerra del Kippur la brigata era la prima linea di difesa il primo giorno di guerra nel sud del Golan e ha subìto le maggiori perdite tra gli ufficiali. Era l’ultima unità ad utilizzare il Centurion, (in seguito rimpiazzati dai famosi Merkava Mk III). Israele modificò i suoi carri Centurion montando un pezzo da 105/22mm, un propulsore diesel AVDS-1790-2A da 750HP e la trasmissione automatica. I primi mezzi così modificati, denominati Sho’t (frusta), entrarono in servizio nel 1970. Fra l’altro, per questioni di ingombro, il propulsore dovette essere inclinato in avanti di 3,5° e il vano motore risultò più alto. Dopo la guerra del 1973, questi carri vennero ulteriormente modificati, con l’introduzione di una nuova cupola per il capocarro e di ulteriori mitragliatrici. La necessità di migliorare la protezione originò l’applicazione delle protezioni reattive a piastrelle ERA e un nuovo sistema per generare cortine fumogene. Attualmente ne sono in servizio circa un migliaio, sia nei reparti attivi che in quelli della riserva. Equipaggio: 4 (capocarro, servente, tiratore, pilota). Durante la guerra del Kippur 2 carri Scho’t riuscirono invece a fermare un’intera divisione di carri armati siriana distruggendo oltre 60 veicoli nemici.

Antefatto d’ignominia

Una gelida mattina di febbraio, esattamente quarant’anni or sono, mi stavo recando in 28 rue Serpente, sede dell’Istituto di Psicologia dell’Università René Descartes – Paris V. Avevo appuntamento col Prof. Didier Anzieu, Chef Chargé d’Etudes e responsabile dell’unità di formazione in Tecniche Proiettive. Qualche giorno prima ero stato illuminato da una rivelazione assolutamente geniale ed innovativa, pertanto avevo richiesto al docente di ricevermi cortesemente per ascoltare, ed eventualmente approvare, il mio progetto di ricerca, meritorio con ogni probabilità almeno del Prix Pasteur. Come ogni idea veramente intelligentissima e rivoluzionaria era molto semplice e facile da attuare, dato che riguardava il mistero della natura e l’origine delle Cinestesie Maggiori, cioè le risposte ottenute al Test di Rorschach a contenuto umano in movimento. Percezioni di tal genere posseggono l’unicità di stabilire un perfetto equilibrio tra le funzioni intellettive logico-superiori e le reazioni sensorio – motorie di base: queste ultime infatti vengono fortemente attivate dalla stimolazione cinestesica ma generalmente non si traducono, almeno nei soggetti normo-nevrotici, in movimenti più o meno scomposti o in modificazioni dello schema corporeo, come succede di regola nei soggetti epilettici o etilisti. Al contrario, simili sollecitazioni vengono integrate nell’ organizzazione psichica generale assumendo l’andamento di uno schema interiorizzato, che origina una vera e propria identificazione al movimento percepito. In altri termini, la risposta cinestesica esprime un’esperienza motoria e istintuale, realmente vissuta o anche solo immaginata, che viene canalizzata per spostamento lungo le vie dell’elaborazione corticale, fino a giungere alla realizzazione di sequenze di rappresentazioni ideative e verbali, coerenti e stabilizzate. In sintesi, si concretizza la trasformazione e l’integrazione del movimento in parola.

Le allora recenti ricerche di M. Jouvet avevano verificato come, nei gatti, l’ablazione bilaterale del locus coeruleus comportasse il manifestarsi di complessi schemi di attività motoria organizzata durante le fasi del sonno REM. Tali schemi motori evidentemente risultavano bloccati proprio dall’azione inibente esercitata dal suddetto locus, che si rivelava così necessaria alla loro trasformazione in contenuti onirici. Nell’essere umano, era pertanto lecito ipotizzare che questo nucleo del tronco encefalico, coinvolto nella regolazione dell’attenzione, dell’apprendimento e della percezione, potesse attivare la connessione delle eccitazioni motorie -mediante i collegamenti con il talamo e l’ipotalamo- con la corteccia frontale e temporale, convertendo in tal modo gl’impulsi che trasmettono il movimento in immagini mentali verbalizzabili.

Il tutto era molto semplice, lampante: sarebbe bastato impiantare sufficienti elettrodi all’interno del locus coeruleus di alcuni soggetti che avrebbero costituito il gruppo sperimentale, quindi installare lo stesso numero di elettrodi in un gruppo di controllo con altrettanti soggetti omogenei per sesso, età, livello culturale. Al gruppo sperimentale si sarebbe somministrato il Rorschach mentre a quello di controllo un altro test figurale, quale per esempio il T.A.T., esente da stimolazioni cinestesiche. In tal modo, in occasione di risposte a contenuto umano in movimento, si sarebbe potuto osservare nel gruppo sperimentale importanti variazioni nell’attività bio-elettrica della struttura cerebrale presa in esame.

La differenza di attivazione di potenziale nei due gruppi avrebbe dimostrato senz’ombra di dubbio il ruolo indispensabile esercitato dal locus coeruleus nella produzione di percezioni cinestesiche, non solo al Rorschach, ma anche come meccanismo fondamentale nella visione dei film, della televisione e altre immagini dinamiche.

Anzieu mi fissò dritto negli occhi, con sguardo glaciale, appena sopra la mezzaluna degli occhialini da presbite, e con voce affabile e pastosa mi disse: «C’est une très bonne idée ,mr. Bolmida, mais, vous voyez, en ce moment on se retrouve un peu à court de youppins». (una bell’idea, ma in questo momento siamo a corto di youppins). Pronunciò quella parola, -usata in forma ingiuriosa dai collaborazionisti francesi per indicare gli Ebrei durante le deportazioni in Germania- con estremo spregio, biasimo, disprezzo non rivolto a loro, ma verso di me. Mi stava praticamente attribuendo l’equità e la moralità di un nazifascista. Indietreggiai farfugliando e scomparsi dal suo sguardo accusatorio, ritrovandomi a camminare senza meta per una Parigi sporca, fredda e umida. Come avevo potuto essere così folle da immaginare un piano del genere? All’epoca, apparecchiature elettroniche ipersofisticate, quali la risonanza magnetica polifunzionale, la magnetoencefalografia o l’elettroencefalografia tridimensionale erano ancora in divenire, forse sotto forma di rudimentali prototipi sepolti nelle lucenti caverne di Ginevra 1 o in altri posti più misteriosi ancora. Tutto gravitava intorno alle registrazioni polielettroencefalografiche, ottenute attraverso il reale impianto di elettrodi nel cervello di animali, ratti, conigli, cavie nei piccoli laboratori, cani e scimmie nei centri di ricerca più ricchi e d’avanguardia. Frequentando da anni i suoi corsi, ero ben al corrente che le scoperte di M.Jouvet sul Sonno Lento e Paradosso si fondavano sui tracciati E.E.G. di encefalo esposto di gatti. Ma a questo variegato bestiario non si poteva somministrare il Rorschach, occorrevano esseri umani, vivi, vigili e, nella fattispecie della mia ricerca, con la scatola cranica scoperchiata. Ciò che mi tormentava maggiormente però era la consapevolezza, fredda, feroce, disumana a cui in nessun modo avrei potuto sottrarmi, neanche raccontandomi le frottole più rassicuranti: se fossi vissuto in un altro tempo e luogo, e se Didier Anzieu si fosse chiamato Heinrich Himmler o Sigmund Rascher o Peter Vaernet, io seriamente avrei avuto libero accesso alla mia sperimentazione, dotato di un adeguato numero di soggetti da esaminare e di una notevole attrezzatura per la ricerca scientifica. Tante immagini mi baluginavano in testa, ricordi di racconti di ebrei sopravvissuti, di ebrei miracolati o semplicemente propiziati da benevola stella. Ero troppo soggiogato dalla mia idea innovativa e rivoluzionaria per rendermi realmente conto di quello che avrei potuto fare? Avrei accettato di perpetrare l’esperimento così congetturato? O forse mi sarei risvegliato da questo deliquio passeggero e preso contatto con la ferocia del mio progetto. Il dubbio era assillante: per me, avvezzo a tirar nottata in estenuanti discussioni a difesa degli ebrei nella questione israelo-palestinese, l’essere ricondotto all’abietto personaggio di piaggiatore della gestapo, era quint’essenza di pura ignominia. Camminando disperato, forse preconsciamente indirizzato dalle letture dell’amato Simenon, mi ritrovai a percorrere il viottolo che dalla Senna portava allora al Quai des Orfèvres, all’ufficio del commissario Maigret. L’andirivieni di tutti quei gendarmi sull’imponente scalinata del Palais de Justice m’informò di un profondo bisogno di costituirmi all’ autorità giudiziaria, in un’inutile richiesta di espiazione.

Nel rientrare che era quasi buio, mi guizzò fastidiosa la voce dell’affittacamere, ricordandomi che in serata sarebbe giunto il nuovo pigionante, ma non me ne calai più di tanto, troppo oppresso dalla mia sadica stupidità. Sopraffatto dal senso di vergogna e dall’inutilità dei miei studi, decisi che non avrei potuto sopportare oltre un eventuale sguardo di un docente qualsiasi, carico di rimprovero e commiserazione. Me ne sarei tornato a casa, in Italia, sconfitto ma non più esposto al pubblico ludibrio. L’unico problema rimaneva il giustificare l’abbandono dell’università ai miei genitori, che tanto mi avevano incoraggiato e sostenuto: come spiegare che un figlio si era appena arruolato nella Totenkopfver bände?

Un bussare alla porta, perentorio ma non arrogante, mi strappò dalle mie preoccupazioni. Imprecando andai ad aprire.

Una possibilità di redenzione

Aveva un aspetto vagamente familiare, solo in seguito realizzai quanto rassomigliasse al giovane John Wayne di “Ombre Rosse”, ma più largo di spalle, più compatto nel torace, più alto: anche erigendomi stiracchiando allo spasmo la colonna vertebrale, gli arrivavo a malapena allo sterno. All’indice sinistro gli penzolava una grossa sacca tonda da marinaio, stipata di effetti personali che ripose sull’altro letto. «Mi chiamo Elia» mi disse in inglese. Il suo vero nome e grado sono gli unici dettagli non veritieri di questa vicenda. Dalla rozza tela della sacca sortì una fiaschetta di bourbon a cui subito aggiunsi la mia mezza stecca di chesterfield Oriental Special. Diventavamo in tal modo complementari, lui comandante carrista dell’esercito israeliano, io dichiarato inabile al servizio per insufficienza toracica dalle forze armate italiane alla leva del ’50: non ci si poteva dar fastidio in alcun modo né entrare in competizione, neanche volendo. Eravamo destinati a diventare amici per i prossimi tre mesi, la durata del suo congedo per convalescenza (path to recovery), ma ci misi un po’ di tempo per capirlo. Intanto era iscritto all’Alliance française de Paris, parlava già perfettamente tre lingue, oltre l’ovvio ebraico, arabo, inglese e tedesco. Nel caso il Mossad avesse accolto la sua richiesta, aveva deciso d’adoprare la licenza nell’affinamento del francese. Furono giorni densi e smaglianti, ricchi di sorprese. Alla mattina ci recavamo entrambi alle rispettive università, destinando i dopo cena al cinema, ai teatri e ai concerti: dopo l’audizione di Yehudi Menuhin alla Salle Pleyel, ne uscimmo entrambi stravolti e commossi. Una volta al mese si giocava a poker insieme a Tim, un newyorkese un po’ snob, e a Marc, un francese figlio di una hostess della Pan Am. L’americano era un letterato ricco e coltissimo, che cercava di compilare e tradurre in inglese tutto l’ampio e complesso erbario sparpagliato nella “Recherche” di Proust, onestamente non sono mai più incappato in un’occupazione tanto snervante quanto inutile e tediosa; l’altro, un giovane studente di Belle Arti, lavativo e scansafatiche ma estroverso e piacevole. Il sabato sera si andava per locali e sale da ballo, abbordando demoiselles. Superfluo puntualizzare a quale braccio rimanessero sempre appese le più amabili e carine, ma anche la seconda scelta non era per niente male, almeno, io non mi lamentavo, perfettamente consapevole che senza Elia non avrei mai potuto accedere a tutta quella grazia di dio. Il problema, o meglio la risoluzione del problema, era costituito dalle notti, un vero calvario di penitenza e redenzione.

Poco meno di cinque mesi prima, durante la guerra del Kippur, Elia aveva partecipato alla controffensiva israeliana contro le truppe sirio-egiziane e, in perlustrazione col suo tank alla ricerca di reparti nemici da disperdere e respingere dalle alture del Golan, aveva urtato una mina anticarro. L’ordigno era esploso esattamente al centro del cingolato, sfondando la corazza inferiore, ed aveva ucciso pilota e puntatore. Elia era stato proiettato col suo seggiolino contro la paratia superiore della torretta, spezzandosi due costole e rimanendo imprigionato tra le lamiere, impossibilitato a muoversi, mentre l’inserviente al pezzo giaceva rantolante accanto a lui, gravemente ferito. Occorsero quasi due giorni e la notte frammezzo prima che i commilitoni lo rintracciassero e salvassero, unico superstite dell’equipaggio, dato che nel frattempo il cannoniere era morto dissanguato. Dopo tre mesi trascorsi in ospedale militare, era stato dimesso e inviato in licenza.

Ogni notte, più o meno verso le tre di mattina, Elia reindossava l’uniforme della sua gloriosa “188ª brigata Barak”, introducendosi nel carro squarciato e riviveva quelle ore di terrore spasmodico, insieme ai commilitoni morti o agonizzanti. Rare volte urlava a squarciagola, abitualmente si rincantucciava sull’angolo interno del letto, fracido di sudore, tremando e ansimando orribilmente. Era quel sibilo irregolare e straziante a risvegliarmi, spingendomi a trovare un qualche modo per aiutarlo. Alla fine della prima settimana, avevo capito che non dovevo disturbarlo, non accendere la luce, non parlargli né soprattutto toccarlo, perché si trasformava in orso infuriato. Occorreva che l’incubo si esaurisse, scemando d’intensità. Quando i battiti del suo cuore rallentavano, lentamente anche le apparizioni si dissolvevano, allora potevo picchiettargli leggermente il dorso della mano, chiamandolo con voce bassa e rassicurante. In quel momento, sovente, iniziava a parlare, non so se in ebraico o yiddish, non afferravo neanche una parola e avevo tralasciato persino di forzare il mio misero inglese, dato che Elia si trovava ancora all’interno del corazzato, col suo equipaggio, e non poteva udire nulla. Bastavano parole piane, non aggressive, pronunciate a bassa voce,così discorrevo in italiano, raccontandogli cose importanti o solo sciocchezze, fin quando emergeva totalmente dal sogno funesto. Di regola, tutto l’episodio si esauriva in meno di mezz’ora e poi si riprendeva sonno. Una volta però, mi sarebbe tanto piaciuto conoscerne il motivo, l’incursione dell’incubo si protrasse per quasi due ore e alle cinque e mezza, entrambi completamente svegli, si decise d’andare a mangiare la ‘soupe à l’oignon’ in un bistrot notturno per camionisti. Poi si seguirono i rispettivi corsi universitari.

Non so bene discernere chi avesse aiutato di più l’altro, dato che il dedicarmi, col sacrificio notturno, a superare anche solo parzialmente quei brutti momenti, mi affrancò totalmente dal senso di colpa, riconciliandomi con l’esistere, ma soprattutto facendomi sentire realmente e concretamente utile a un esponente del popolo di David. Quella sensazione di sporcizia e vergogna generata dalla convinzione di essere inconsciamente un nazista si era dileguata, risistemandomi in una giusta prospettiva, potevo così frequentare l’ambiente accademico a testa alta, incurante di eventuali pettegolezzi sul “maccaronì fassiste”, come dicevano loro.

Fu così che un giorno, rientrando, Elia mi annunciò la sua prossima partenza: purtroppo la domanda di arruolamento nel Mossad non aveva avuto buon esito, era stato richiamato in qualità di ufficiale carrista istruttore per i giovani arruolati. Lo guardai fisso negli occhi e gli chiesi, prima di andarsene, di rendermi un ultimo favore.

Oggi sono ben consapevole che tutta la successione dei fatti non sia stata altro che lo sviluppo preconscio, quindi manifesto, di desideri rimossi di derivazione utero-infantile, ma ho serbato un buon ricordo di quell’esperienza. Anche se si tratta solo d’immaginazione, mi è molto forte la tentazione di affermare che, tramite la fantasia degli elettrodi, si fosse all’epoca stabilito uno stato di ‘etranglement quantistico’ con gli strati più profondi dello psichismo di Elia. Comunque, la concatenazione degli avvenimenti dimostra senz’ombra di dubbio la complessità delle interazioni che avvengono tra le particelle a partire dal vuoto. In breve, se il mio inconscio non mi avesse suggerito la teoria del locus coeruleus, io non sarei sprofondato in uno stato devastante di colpa e vergogna, dal quale mi fu possibile attingere l’energia necessaria a sopportare le torsioni incubiche di Elia. Avrei senza dubbio cambiato alloggiamento, privandomi così della possibilità di entrare in possesso del primo, preziosissimo protocollo di una persona traumatizzata, esperienza che fu veramente fondamentale per il prosieguo e sviluppo della mia attività professionale, considerando che mi è servita da traccia e modello in moltissime diagnosi di traumi, aggressivi e sessuali, subìti da adulti e minori.

Una sottile, fortuita rete di eventi, che concorrono a formare ciò che noi chiamiamo “vita”.

Nevrosi traumatiche di Guerra

Periodicamente, le nevrosi di guerra assumono, in Clinica, un’importanza pressoché assoluta, per essere successivamente quasi trascurate e dimenticate. Benché non esista un’entità nosografica specifica definibile nei termini di nevrosi di guerra, le forme molto simili ed affini che si verificano anche durante i periodo di pace in seguito a un evento critico abnorme (terremoti, incendi, nubifragi, incidenti stradali, abusi sessuali, atti di violenza , attentati terroristici, scorrerie banditesche in banche, negozi o supermercati) regolarmente non vengono ricollegate e ricondotte alle esperienze belliche, che ne costituiscono comunque il sostrato diagnostico differenziale e spesso ne suggeriscono il trattamento riparativo . Tuttavia, lo studio di tali affezioni si dimostra estremamente importante, sia per la conservazione delle risorse umane durante i vari conflitti sia perché queste nevrosi posseggono un nucleo sindromico di massima importanza per la psicodinamica in generale e in particolare per la dinamica psicoanalitica. Per esempio, è a tutti nota l’elaborazione che fu compiuta da S. Ferenczi, S. Spilrein e S. Freud a partire dai traumi di guerra, fino a giungere alla formulazione del concetto di Pulsione di morte e il consequenziale basilare corollario della coazione a ripetere, ma occorre anche segnalare come fu proprio sugli aspetti patologici prodotti nella struttura interna dell’Io dagli eventi traumatici bellici che S. Freud fondò la sua teoria del Reitzschutz – la difesa retroattiva volta alla ricerca di uno stato di quiete antecedente al trauma – dato che i sogni dei traumatizzati contraddicevano palesemente il principio della realizzazione mascherata di desideri inconsci durante l’attività onirica. In Clinica Patologica inoltre, tutto il concetto di ‘Nevrosi da stress post – traumatico’ riposa sulle alterazioni causate da eventi catastrofici in guerra e riportate in ambito civile.

Nonostante esistano innumerevoli studi e ricerche svolte in questo campo, è difficile segnalare in Psicologia Clinica e Patologica una sezione più disarmonica e disordinata di questa. Non si riesce praticamente a rintracciare nessuna forma di continuità nella trattazione dell’argomento, a partire dalla Grande Guerra -o prima, dalla Guerra Civile Americana- fino a giungere alle ultime ostilità in Afghanistan. Ogni Autore utilizza un proprio schema di riferimento, sia pur basato su lunghissime bibliografie e la stessa letteratura si trova in vero stato di anarchia. In molti casi le nevrosi di guerra hanno preso il nome dalla situazione in cui si sono originate (nevrosi da deflagrazione, da gas, da bombardamento, da collisione, da mitragliamento, ecc.) e la sintomatologia ha fatto da guida alla patologia e alla nosologia. Questa prassi ha sovramoltiplicato, ma solo in apparenza, il numero di sintomi generati in battaglia, mentre, parallelamente, sul versante opposto si è diffusa la teoria che la nevrosi di guerra altro non sia che il proseguimento di una nevrosi precedente, in cui l’evento bellico abbia agito come agente scatenante. Benché sia vero che una situazione di conflitto armato possa riattivare sindromi preesistenti fino ad allora latenti, essa può crearne anche delle nuove, considerando che nessuno che si sia esposto a reali esperienze di combattimento se ne possa destreggiare senza produrre qualche sintomo di sindrome traumatica, per quanto lieve e temporaneo possa essere: molti sintomi infatti sono transeunti e scompaiono col riposo e il venir meno della situazione di pericolo. D’altronde, la situazione del tempo di guerra è così complessa che non esiste aspetto della personalità umana che non sia sottoposto a una tensione gigantesca, che coinvolge allo stremo l’intero apparato psicofisico. Questa è perciò la condizione in cui ogni soggetto schizoide è suscettibile di precipitare in un rovinoso stato di destrutturazione e rovina psichica. Paradossalmente e specularmente, per moltissime personalità con nuclei schizoidi e narcisistici, questa è anche una condizione di ricompattamento e di parziale riallineamento a una parvenza di normalità adattativa, dato che le difese alimentate dall’ onnipotenza primaria vengono sollecitate ai limiti dello spasmo somatopsichico e alla distorsione degli istinti auto conservativi, commisurati al pericolo di distruzione. A questo proposito, mi sembra interessante notare come P.Bernard e H. Baillarger affermino che nei periodi di guerra si assista a una netta diminuzione delle psicosi e di tutti i deliri cronici nella popolazione civile, e questo anche nei paesi non belligeranti. Per gli Autori, la guerra avrebbe come effetto di ricongiungere gli stati allucinatori e deliranti con i semplici disturbi legati alla nevrosi d’angoscia. Un fenomeno particolare, che andrebbe valutato come espressione diretta della costanza, diffusione e distribuzione epidemiologica della pulsione di morte all’interno della popolazione generale in una determinata contingenza, in cui la circolazione potenziata a livello collettivo della spinta distruttiva ne ridurrebbe proporzionalmente l’importanza a livello individuale. Proprio sotto questo aspetto, ogni combattente rappresenta un caso a sé stante, molto difficile da categorizzare in tassonomie militari.

Queste distinzioni tuttavia non sono sufficienti a definire la nevrosi provocata dalla situazione di stress, vale a dire dalla crisi di autoconservazione innestata dalla minaccia distruttiva. La reazione di fronte al pericolo di morte incombente è il nucleo patologico intorno al quale si organizza una nuova forma di adattamento. È proprio questa nuova organizzazione, e l’insieme delle reazioni del soggetto ad essa, che costituiscono la sindrome definita come “Nevrosi traumatica di guerra”.

Come già accennato, nonostante una voluminosa letteratura, i principi clinico – teorici cui riferirsi nella valutazione di tale sindrome raramente risultano espliciti, non si riesce a individuare uno schema di riferimento stabile e vi sono poche idee fondamentali sulla patologia della sindrome, dato che l’aspetto più ovvio è che essa debba essere ricollegata ai meccanismi adattativi rispetto al mondo esterno, tramite l’intero apparato sensoriale e neurologico. In linea teorica, si potrebbe affermare che questa nevrosi lede profondamente l’istinto di auto-conservazione, ma è del tutto assurdo tentare di isolare un tale istinto, che si distribuisce su una moltitudine di meccanismi riflessi innati e di comportamenti acquisiti e appresi (vedi l’addestramento militare)ed è perciò quasi impossibile identificane il nucleo centrale di base. Per molto tempo si pensò che il trauma potesse dare origine a una qualche lesione specifica del sistema nervoso centrale, tesi che fu sostenuta dai neurologi fin dalla Grande Guerra. Tuttavia, si dimostrò quasi impossibile identificare una effettiva lesione neuro-anatomica e, anche quando vi si riusciva, non fu mai possibile stabilire una correlazione soddisfacente tra i sintomi osservati e le lesioni appurate.

In un Simposio tenutosi nel 1918 dedicato proprio alle nevrosi traumatiche di guerra 2, furono presentate alcune importanti ipotesi per opera di Ferenczi, Abraham, Simmel e Jones, che tentavano l’inquadramento delle suddette nevrosi in funzione della teoria della libido. In tale occasione, Freud riformulò tutto il concetto di trauma, definendolo come un’influenza esterna che provoca un arresto dello sviluppo, cioè la “fissazione”, a cui si ritornerebbe per mezzo di un processo chiamato “regressione”. Soltanto in seguito Freud annunciò una nuova definizione del trauma, come una brusca rottura delle difese contro gli stimoli interni ed esterni. Tale rottura trascinava seco una fortissima angoscia, evidenziabile nei sogni, che esprimevano il tentativo da parte dell’organizzazione psicosomatica di liberarsi di questa gravissima inquietudine, reagendovi in modo frazionato e frammentario, attraverso la ripetizione compulsiva, compiuta durante l’attività onirica, del momento devastatore. Si delineava in tal modo l’ipotesi che la nevrosi traumatica, anziché manifestare una forma morbosa di malattia sintomatica, si ponesse in realtà come una nuova forma di adattamento, cioè come tentativo di guarigione, fondata sulla ripetizione e frazionamento del nucleo centrale del disturbo. Il meccanismo patologico dominante è infatti molto affine alla rimozione ed ha come scopo l’allontanamento e l’oblio dell’esperienza traumatizzante, nel tentativo di diminuire in tal modo l’ansia creata dal brusco collasso delle funzioni vitali. Naturalmente, questa specie di negazione ed isolamento del trauma comporta una forma di esistenza parassitaria, compatibile con la diminuzione delle risorse, e trascina forme di adattamento ‘mutilato’, depressivo e fortemente minacciato dalle stimolazioni esterne. Il frazionamento reiterato tramite la ripresentazione onirica dell’esperienza, corredata dall’ansia progressivamente sempre più indebolita rispetto ai livelli originari, giungerà al fine a disgregare l’insieme monolitico dell’impatto traumatico, e il processo di guarigione sarà compiuto. Il problema, come brillantemente evidenziato da G. Marzi nell’ipotesi di un ‘Pianto endemico con rinforzo generazionale3, è che tale minuzioso lavorìo di disaggregazione del monolito- trauma, nei casi più gravi e per debolezza costituzionale, può distribuirsi lungo diverse generazioni successive, che si troveranno coinvolte in questa operazione di ‘metabolizzazione’ del momento lesivo senza neppur conoscerne la ragione.

Nessuna interpretazione fondata sulle vie neurologiche attraverso cui si verificano e si trasmettono tali reazioni patologiche transgenerazionali può fornire una valida spiegazione al fenomeno: occorre elaborare il processo per via metapsichica, introducendo alcune ipotesi relative al funzionamento Quantum – Brain. Ma, per la maggior parte, questa discussione è gratuita.

Per concludere, è possibile suddividere in modo approssimativo la nevrosi traumatica di guerra in due sbrigative ed imprecise categorie, quella passeggera, caratterizzata da fenomeni morbosi essenzialmente riconducibili alla nevrosi d’angoscia e le sue espressioni classiche, e da disordini psicosomatici neurovegetativi semplici. Caratteristica comune di questi stati è la loro rapida risoluzione, che avviene entro sei – al massimo dodici mesi. Tuttavia, alcune di tali alterazioni tendono a cronicizzarsi, sotto forma di disturbi di tipo dissociativo schizoide o, più frequentemente, assumendo l’andamento caratteriopatico di disturbi borderline o disturbi depressivi ricorrenti: saranno proprio queste trasformazioni patologiche che richiederanno il supporto della discendenza a venire per ab-onirizzare il Trauma.

Il Protocollo

A distanza di quattro decadi esatte, credo di poter esimermi dal segreto professionale e pubblicare e discutere il materiale relativo alla somministrazione del Test di Rorschach al Comandante Elia, che mi piace immaginare oggi in pensione con un grado di ufficiale superiore, ma soprattutto che spero, con sicura convinzione, abbia interrotto le incursioni notturne nel suo Scho’t deflagrato.

Tav. I : Tl.: 47”

La testa di due cani un po’ buffi, a pelo raso e col collo lungo e le orecchie alzate

(?) D laterali sup. + Dd di collegamento (collo) Sono le sfumature di colore che suggeriscono l’idea del pelo corto

Dd, FClob, Ad

La testa di due ragazzi col berrettino di lana

(?) Dd estremi sup. per la forma classica del berretto

Dd, K, Ud

Un uomo grassoccio con un gran nasone

(?) Dd laterali di bordura, per la forma

Dd,K,U

Due alberelli cespugliosi, all’incontrario

(?) Dd inferiori del D centrale, per la forma

Dd, F+, Nat.

Si evidenzia nel trattamento dello stimolo una palese condotta di evitamento, la percezione si sposta dalla centralità dell’immagine,localizzandosi su percezioni anodine e poco importanti al fine di sfuggire all’impatto angosciante della massa scura e dello Choc iniziale. Tale operazione difensiva fondata sullo spostamento – evitamento tuttavia si compie sotto il controllo delle facoltà logico superiori senza generare risposte degradate o troppo sovraccariche di affetto negativo,risultando ben integrate e ben accomodate alla situazione. Il tempo di latenza leggermente superiore alla media definisce l’intenso lavorìo intrapsichico necessario a dominare l’angoscia e costringerla entro schemi percettivi adattati al Reale.

Tav.II : Tl.: 72”

Sangue, schizzi di sangue ovunque, sopra e sotto. Non vedo altro (allontana la Tavola)

D, C, Sangue, Choc al Rosso, Choc al vuoto -> Rifiuto

L’impatto con la struttura perforata dello stimolo ingenera per identificazione una grave angoscia veicolata dal deterioramento dello schema corporeo alterato dal trauma, con cui entra in risonanza affettiva. Il controllo logico e il funzionamento razionale ne risultano fortemente compromessi, impedendo uno sviluppo percettivo corretto.

Lo Choc al Vuoto, eventualmente accompagnato dallo Choc al Rosso, è patognomonico delle personalità traumatizzate, essendo un derivato diretto della Nevrosi d’Angoscia.

Tav. III: Tl. : !6”

Due negroidi che cucinano qualcosa in un pentolone sopra un fuoco

(?) Percezione normale in posizione ortogonale

G,K, U, Ban

D,C’F Ud (negroidi per la pelle scura)

D, F±, Ogg. (pentolone)

Dd, mogg./EF, Fuoco

Nei soggetti traumatizzati a struttura di personalità normo-nevrotica,che non abbiano sviluppato complicanze caratteriopatiche o depressive, la Banale superiore in Tav.III è sempre mantenuta

Tav. IV: Tl.: 82”

Una piccola lumaca che striscia

(?) Nel Dd centrale del D superiore, per la forma

Dd F+, A

Di nuovo la testa di due omini col naso lungo, visti di profilo

(?)Nei Dd rotondi di bordura, prima del D laterale

Dd, K, U

Due alani accucciati, qui nel grigio chiaro

(?) Dd inferiore degli “scarponi”

Dd, F+,A

Due piedi di un mostro

(?) D laterali, perché hanno un aspetto orribile

D, FClob-, (Ad)

La testa del mostro, con occhi orribili, cattivissimi

(?) D inferiore centrale, le macchie più scure sono gli occhi cattivi

D, ClobF, (Ad) Choc al Nero

Dd, C’F, occhi

Il soggetto tenta di utilizzare gli stessi meccanismi di evitamento e spostamento già messi in opera in precedenza, ma a causa dell’impatto massiccio con lo stimolo scuro, le difese cedono bruscamente, lasciando emergere l’angoscia soggiacente, che interferisce con i processi adattativi e veicola profondi vissuti persecutori.

Tav. V: Tl. : immediato

La testa di un leprotto, basta non vedo altro

(?) D superiore centrale, per la forma appuntita delle orecchie

D, F+, A

All’inchiesta dei limiti di Klopfer:

Due teste di coccodrillo

(?) Nei dettagli laterali inferiori, per la forma allungata e i denti

DDbi, FC’, Ad

Il soggetto non fornisce la risposta in Banale superiore

La percezione relativa ad ogni volatile -vivo, intero ma non necessariamente avvertito in movimento- fornita alla Tavola V, costituisce la prima risposta in Banale superiore ad apparire nei protocolli infantili e, dal punto di vista della Psicologia Genetica, definisce il completamento dell’acquisizione definitiva ed irreversibile dello “Schema Corporeo”. Con questo termine, si intende l’immagine spaziale del proprio corpo che ogni essere umano si costruisce durante la prima infanzia, sotto la spinta della programmazione genetico – ereditaria e l’interiorizzazione delle varie esperienze psico motorie durante le successive fasi di assimilazione e accomodamento. Il concetto fa riferimento a una funzione complessa di sintesi che permette di riconoscere l’organizzazione somato-psichica come unità inscindibile, di individuarne la morfologia, i rapporti esistenti con i suoi vari segmenti e la mutevole posizione nello spazio. La possibilità di localizzare gli stimoli che provengono dall’ambiente esterno e di conoscere la posizione e l’orientamento spaziale del proprio corpo rispetto ad essi, rappresenta una necessità primordiale strettamente legata alla sopravvivenza (4).

I disturbi relativi alle caratteristiche della regolazione propriocettiva e propriocinestesica sono stati studiati in clinica neurologica e definiti come “aschematia”, intesa come anestesia delle capacità di riferimento spaziale del corpo. Osservazioni recenti permettono di ritenere che il costrutto dello schema corporeo utilizzi, oltre alle informazioni sensoriali (vista, udito ,tatto,ecc.), anche delle componenti mnestiche affettive e rappresentazionali innate, e venga sostenuto dall’attività di una rete neurale distribuita in modo estremamente complesso, determinata geneticamente, però ampiamente soggetta a influenze epigenetiche. Lo scompiglio di tale delicata rete neurale può verificarsi anche in assenza di lesioni neuro anatomiche, e l’immagine dello schema corporeo può apparire alterata, durante intossicazioni, infezioni, quadri psicotici (stati depressivi e schizofrenia), e ovviamente nelle nevrosi post-traumatiche.

Tav. VI: Tl.: 18”

Il sole al tramonto

(?) Parte semicircolare “raggiata”del D superiore, per la forma e l’effetto d’irraggiamento

D, EF, Nat

Sotto una pelliccia, la pelle di un castoro

D, EF, Ad, Ban

Tav. VII: Tl.: 89”

Delle nuvole, sparpagliate

(?) Tutta l’immagine, per questo senso diffuso di nebbia e il colore grigiastro

G, EF, Nat.

E qui sotto … il genitale femminile

(?) Nel Dd centrale inferiore, per la forma e il senso di profondità

Dd, EF-, Anat./Sex, Choc sex depressivo

      L’articolazione percettiva tra la Tav. VI e la VII, che definisce come un insieme articolato il profondo impatto causato dallo Choc Sex ingenerato dalla struttura dello stimolo, è essenziale nella valutazione delle nevrosi post traumatiche. In particolare, l’engramma “sole al tramonto” localizzato in Dd superiore, si è rivelato statisticamente molto significativo in tali personalità, in quanto veicola la traccia mnestica che si forma nel sistema intrapsichico in seguito all’esperienza di stress (bellico o altro). L’angoscia suscitata dagli elementi a chiara determinazione genitale propri dello stimolo, viene elaborata per introiezione in senso depressivo, ossia interiorizzando l’aggressività in direzione autoplastica. Nei casi di normo-nevrotici traumatizzati, il processo si avvia alla Tav. VI, dove i meccanismi di regolazione riescono a vincolare l’eccesso di tensione , trasformandola in percezioni a contenuto anonimo, calmante e antalgico che riescono a mantenere una relazione adattativa con la realtà della stimolazione. Tuttavia, il reiterarsi dei contenuti a connotazione sessuale alla Tav. VII acquisisce la forza di stimolazione sufficiente per scardinare il sistema difensivo, costringendo la percezione a considerare le qualità sgradevoli e imbarazzanti dell’immagine. Tale operazione, di per sé altamente disorganizzante, riverbera ed entra in risonanza affettiva con la destrutturazione traumatica già presente ed operante nel sistema. Il risultato sarà di attivare quei profondi vissuti di colpa,incapacità, auto rimprovero e scarsa stima di sé che regolarmente si producono nei soggetti traumatizzati e costituiscono la base della reazione depressiva .

Tav. VIII: Tl.: 14”

Due animali, strani felini

(?) Per la forma del corpo, il muso allungato, una grossa coda, forse volpi

D, Kan, A, Ban

Si stanno arrampicando su una montagna

(?) Per la cima appuntita, l’insieme delle rocce,

D, F+, Nat.

Il tutto una specie di vaso

(?) Per i due manici, sembra un vaso in grès moderno, destrutturato

G, F±, ogg.

La reazione a questa stimolazione illustra in modo indicativo la struttura pre-traumatica del soggetto, esente da elementi depressivi e molto adattativa alle sollecitazioni esterne. L’inibizione al percetto cromatico testimonia inoltre come la personalità di base si sia organizzata su un terreno ossessionale – pertanto non ossessivo- sviluppando quegli elementi di meticolosità, attenzione e precisione, indispensabili all’attitudine al comando e allo svolgimento di compiti complessi e articolati.

Tav. IX: Tl. : 53”

Due stregoni che lottano

(?) Localizzati nei D superiori arancioni, per il cappello a punta e la bacchetta magica che hanno in mano

D, K, U-> Complex

Sull’orlo di un baratro, di un vulcano

(?) L’insieme confuso della parte sottostante, sembrano nuvole di vapore, con lava magmatica

D, CF/M.ogg Fuoco, Complex.

La minaccia dell’aggressione cromatica non strutturata disorganizza la tenuta delle difese logico-razionali, improntate all’intellettualizzazione, lasciando intravvedere elementi di temperamento collerico soggiacente, quasi sicuramente di origine costituzionale.

Tav. X:Tl. : 15”

Un’immensa voliera, sostenuta da un’impalcatura centrale

(?) Impalcatura: D centrale grigio, per la forma a punta

(?) Tutti gli altri elementi mi danno l’idea di tanti uccelli che svolazzano

G secondarizzata, CF/M.an., A, -> Originalità +

Scelta preferenziale + : La III e la X, mi hanno messo allegria

Scelta preferenziale – : Sicuramente la II, la IV e la VII

 

Diagnosi

Trattasi di un soggetto normo-nevrotico, che presenta una struttura di personalità definita da meccanismi di difesa riconducibili all’interno del terreno ossessionale, senza per altro presentare segni tipici di nevrosi compulsiva. Le funzioni logico superiori sono ben conservate e non si evidenziano importanti segni di disturbi di tipo depressivo, schizoide o comunque pre psicotico. Su questa organizzazione, si innestano chiare ed evidenti manifestazioni di una formazione pseudo – fobica, che delineano l’esistenza di una nevrosi d’angoscia non strutturale, ossia derivata da un traumatismo precedente. Le indubbie alterazioni dello schema corporeo sono quasi sicuramente passeggere, come si dimostra dalla capacità di formulare G secondarizzate e la percezione di numerose risposte cinestesiche umane superiori, ben adattate al contesto e integrate nei processi di percezione e di elaborazione dei vari stimoli.

Prognosi

Poiché i processi di controllo sono ancora utilizzabili, la struttura interna dell’Io appare integra, e i sistemi di azione non risultano inibiti e tendono a condurre un’esistenza indipendente e normale, è estremamente probabile che le manifestazioni angosciose, soprattutto determinate dal lavoro onirico di riparazione e superamento dell’impatto lesionante, siano transitorie ed entro breve tempo il soggetto possa recuperare completamente la situazione pre traumatica senza sviluppare sindromi più gravi e invalidanti.

Considerazioni conclusive

L’utilizzo del Test di Rorschach è certamente inutile e troppo dispendioso per individuare l’esistenza di una nevrosi traumatica, bellica o civile, in quanto tale sindrome si auto – impone all’osservazione clinica e scaturisce spontanea da un’accurata indagine anamnestica. Ciò che lo rende particolarmente prezioso, direi quasi indispensabile nella prassi clinica, è l’indeterminazione che molto sovente si ingenera fra un traumatismo e una struttura pre psicotica soggiacente: quando l’equilibrio si spezza, gradualmente si stabilisce un nuovo adattamento, di cui il trauma è solo un elemento scatenante. Il processo che si consolida al termine di questa situazione alterata costituisce un vero e proprio problema psicodinamico, che consiste nello stabilire se il crollo dei sistemi di adattamento si inserisce o meno in una patologia pre esistente, nel qual caso le conseguenze saranno disastrose e praticamente  irreversibili, in quanto la struttura dell’Io non possiede, per proprie qualità intrinseche, la capacità di ripristino dei processi di adeguamento  e gli schemi di azione non saranno più suscettibili di controllo e di una qualsiasi reazione di adattamento. Le risorse disponibili saranno insufficienti per opporsi alla regressione e ne risulterà un Io “monco e invalido” , fissato all’evento catastrofico. In linea di massima, la nevrosi traumatica tenderà a cronicizzarsi  in forme più o meno esplicite e virulente di delirio di rivendicazione, con il suo corollario depressivo – paranoideo. Nessun intervento di tipo farmacologico e psicoterapeutico avrà buone probabilità di successo.

Note:

(1) La tomografia a emissione di positroni (Positron Emission Tomography) è stata messa a punto al Cern nei primi anni 70 del secolo scorso.  torna su!

(2) S.Ferenczi, K. Abraham, E. Simmel, E. Jones: Psychoanalysis and the War Nevroses, Internat. Psychoanalyt. Press, New York, 1921  torna su!

(3) G. Marzi: “Il pianto: ipotesi filogenetica“, in: Scienza e Psicoanalisi, 9 marzo 2003  torna su!

(4) J.Piaget: “La psychologie de l’enfant“, Presses Universitaires de France, Paris, 1966  torna su!