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Tratto dalla conferenza ai volontari dell’ “Associazione Fiori sulla luna- amici della Neuropsichiatria Infantile” di Cuneo.

Negli incontri precedenti l’approccio con la malattia neurologica grave ed invalidante è avvenuto attraverso la conoscenza obbiettiva: vi sono stati descritte le varie sindromi come la paralisi celebrale infantile, è stato dato risalto alle disfunzioni neurologiche e mentali che esse comportano e alcune nozioni di fisioterapia vi hanno permesso di avere degli utili strumenti per approcciare i bambini affetti da queste sindromi ed accudirli in modo adeguato.
In questo incontro vi propongo un approccio diverso, soggettivo: l’incontro con il vissuto di malattia, o meglio, dato che ci occupiamo prevalentemente di bambini piccoli e gravemente danneggiati, il vissuto di malattia del figlio. Lo choc al momento della diagnosi, la difficile ed ambivalente accettazione della malattia del figlio,  vale a dire il trauma, la rottura e le modificazioni degli equilibri familiari che tale trauma può ingenerare.
Prima di tutto bisogna distinguere tra l’insieme di conoscenze razionali ed obbiettive dell’individuo o del gruppo e il vissuto soggettivo.
Cos’è il vissuto?
Ogni nostra nuova esperienza, intesa sia a livello intellettuale che affettivo, non viene semplicemente inglobata nel nostro bagaglio esperienziale ma interagisce con esso modificandosi e modificandolo. Questa interazione non avviene ad esperienza conclusa ma nello svolgersi stesso: sono le nostre esperienze precedenti, le nostre motivazioni, i nostri affetti che interpretano e giudicano la situazione attuale tracciandoci, per cosi dire, la via da seguire.
Non solo la nuova esperienza è modificata dalle esperienze precedenti ma essa, se entra in dissonanza con le precedenti, può modificarle portando ad una ristrutturazione del campo cognitivo ed emotivo di conoscenza.
Si può definire il vissuto come tutto ciò di cui si è fatto esperienza non solo a livello intellettuale ma totale, di tutto l’organismo compresa la parte affettiva. Il vissuto è  il punto di riferimento attraverso cui spieghiamo la realtà esterna e ciò che ci guida nella risposta allo stimolo esterno.
Alla sua costruzione partecipano, interagendo con le informazioni dateci dal mondo esterno, le motivazioni, gli affetti e le rappresentazioni consce ed inconsce del soggetto.
In poche parole il vissuto è il filtro attraverso cui passa la conoscenza del mondo esterno e che ci guida nell’interazione con esso. Esso si costruisce fin dalle prime interazioni con l‘ambiente e nell’adulto porta le vestigia di queste prime interazioni infantili.
Variabili culturali e variabili personali (le esperienze affettive e relazionali della nostra infanzia) influenzano profondamente ogni nostro atto di conoscenza e portano ad interazioni e comportamenti diversi.
Chiarifichiamo questo concetto con degli esempi.

Variabile culturale: Nella nostra società, in cui il tasso di mortalità infantile è molto basso e così pure quello di malattia cronica infantile, la morte di un bambino o la malattia cronica invalidante sono vissute come eventi gravemente perturbanti e traumatici.
In altre società, in cui questi eventi non sono così rari, esistono, standardizzate culturalmente, credenze che difendono l’individuo dall’insorgenza di un vissuto traumatico e che portano i genitori ad un atteggiamento più stoico di fronte a questa eventualità.
Per gli indù, ad esempio, ogni individuo gia prima della nascita è governato da un karma, il bambino nato malformato ha un karma negativo, l’eventuale morte è una liberazione  da questo karma e gli dà la possibilità, attraverso la successiva reincarnazione, di andare incontro ad un destino migliore.
Sarebbe un grave errore pensare che i genitori indù amino meno i loro figli; in un paese in cui la mortalità infantile è molto alta e un bambino malato non ha alcuna chance di sopravvivenza, la soglia di dolore psichico rispetto  questo evento deve essere maggiore. La credenza consolatoria di poter, attraverso la morte, dare maggiori chances al proprio bambino, aiuta i genitori a superare il lutto, la credenza del karma allontana i genitori dalle angosce genetiche ed allevia il senso di colpa.

Variabile individuale: Ajurguerra nel suo trattato “Manuale di psichiatria del bambino” sottolinea come la malattia cronica e/o mortale del figlio può riattivare nei genitori vissuti molto arcaici di origine infantile. Ad esempio il bambino malato può, per uno dei genitori, essere identificato, a livello inconscio, con un proprio fratello e riattivare reazioni simili a quelle avute nell’infanzia nei momenti di malattia del fratello.
Tale eventualità, più frequente nei padri, può portare a sviluppare sentimenti di gelosia nei confronti del bambino che monopolizza la moglie, oppure ad un tenersi in disparte, in allontanarsi, replicando ciò che aveva fatto da bambino: essere un bambino buono, non richiedente, giudizioso.
Se tale comportamento aveva un’importante funzione adattativa e vitale quando era bambino, la replica nell’attuale potrà però portare ad equilibri familiari precari, rafforzando il legame esclusivo madre – bambino e allontanando vieppiù il resto della famiglia da questi due membri.
L’evento traumatico in questo caso fa vacillare nel genitore il suo ruolo di padre e lo sospinge a regredire al ruolo di figlio.
Può apparire anacronistico nel 2006 pensare che il ruolo paterno comporti ancora l’immagine di protettore della famiglia, di interfaccia tra il gruppo familiare e l’ambiente esterno, ma non è così.
Ogni bambino coltiva l’immagine di padre onnipotente che può risolvere ogni suo problema, che lo protegge dai pericoli; tutti noi quando diventiamo adulti ci portiamo dietro questa credenza e cerchiamo di incarnare questa immagine quando diventiamo genitori.
Il padre può sentirsi veramente molte volte impotente. Se la moglie può ancora incarnare, anzi di più, l’aspetto della madre che cura, soprattutto se il bimbo è piccolo, il marito può sentirsi spiazzato, non utile, come un piccolo bambino che vede la madre affaccendata e mentalmente occupata con il fratellino malato, in una parola si sente di non avere più un ruolo.

Possiamo pensare alla famiglia come ad un gruppo, le dinamiche relazionali tra i singoli membri determinano la struttura di questo gruppo. Ogni struttura ha l’intrinseca esigenza di mantenere stabile la sua organizzazione, vale a dire tende a strutturarsi e a funzionare secondo un certo equilibrio che permette la conservazione dinamica e flessibile della struttura. La flessibilità comporta la possibilità di tollerare variazioni e modificazioni, anche eventuali perturbazioni mantenendo una stabilità: il gruppo non si scinde, nessun membro viene isolato od espulso, permane in ciascun membro  un identità di gruppo.
Una buona flessibilità permette cambiamenti anche importanti della struttura nel tempo: l’inglobamento di nuovo elementi (i figli), la modificazione del tempo degli elementi e delle relazioni tra i membri (modificazione dei rapporti con i figli secondo l’età, l’invecchiamento dei coniugi, ecc). La struttura e l’organizzazione però rimangono stabili, semplicemente i mutamenti della vita stimolano la creazione di nuovi equilibri e punti di stabilità.
Qual è l’impatto di un evento potenzialmente traumatico su questa struttura?
Quali difese psichiche può attivare per fronteggiare l’evento traumatico?
Il primo tentativo che scatta spesso al momento della diagnosi, vale a dire al momento dell’impatto traumatico, è la negazione della realtà.
Ci si difende rifiutandosi di prendere atto della malattia, o meglio da un lato si prende atto di parte della comunicazione, dall’altro si rifiuta e si sostituisce una fantasia, un’illusione. Ad esempio la famiglia può da una parte accettare la malattia del figlio ma ne nega l’incurabilità costruendo l’illusione che, se il bambino viene adeguatamente curato, il danno potrà scomparire o per lo meno scompariranno gli effetti invalidanti.
Il mantenimento di questa illusione porta alla ricerca di sempre nuovi consulti medici. Comportamento comprensibile, alle volte anche utile, non nego certo che un centro specializzato possa dare indicazioni utili e curare in modo più adeguato, ma si assiste spesso ad un tour senza fine da un centro all’altro, da una città all’altra, tour che ha come unico risultato la non cura del bambino ed il mantenimento dell’illusione da parte dei genitori. Nessun centro è quello adatto, anche il più all’avanguardia, perché purtroppo nessun centro può dare la salute al figlio.
Correlato alla negazione si assiste al fenomeno della proiezione. Lo stress continuo, il dolore lancinante si tramuta presto in aggressività, aggressività che,  se mantenuta all’interno del gruppo, può dilaniarlo e rompere i legami tra i membri. Spesso essa viene proiettata all’esterno e messa al sevizio del mantenimento dell’illusione.
Si forma cioè l’idea che gli altri, medici, operatori vari, società in generale, non facciano abbastanza, che la malattia del figlio non viene debellata a causa di questa generale inefficienza.
Anche qui trovo giusto avere un atteggiamento attivo e richiedere ciò che spetta al proprio figlio come cittadino italiano portatore di disagio ma l’eccessiva rivendicazione porta ad una totale perdita di fiducia in ogni tipo di cura, ad una diffidenza con caratteri persecutori.
La famiglia si isola e si sviluppa il vissuto di sentirsi soli in un mondo indifferente ed a tratti ostile.
Voglio sottolineare che questi tentativi, per quanto disturbanti ad autolesivi, sono tentativi di difesa da un dolore intollerabile, sono tentativi di mantenere una coesione, di ritrovare un equilibrio, anche se patologico, per salvaguardare l’integrità del gruppo famiglia.
Spesso, inoltre,  queste reazioni non esautorano tutto il potenziale sia del gruppo sia dei singoli membri; accanto ad esse possono coesistere sentimenti di gratitudine, richieste sincere di aiuto, bisogno di aver fiducia.

© Daniela Marenco