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Un altro aspetto importantissimo delle conseguenze psichiche dell’epidemia di covid-19 è quello connesso alla percezione dell’esistenza della morte, ai meccanismi di difesa connessi e attivati da tale percezione, alle eventuali sortire psicopatologiche connesse a questo processo.

La morte nell’inconscio NON esiste. Lo vediamo nei sogni, dove molti Personaggi degli stessi sono indifferentemente vivi o morti, persino nel corso dello stesso sogno.

Il bambino non sa cosa sia la morte, la più grande angoscia che sperimenta è quella della scomparsa degli oggetti durante l’addormentamento: non sa cosa sia il sonno, non sa che al risveglio ritroverà molto probabilmente sua madre e i suoi cari, la pappa, il suo mondo ed è questa la ragione della difficoltà del bambino a prendere sonno, l’angoscia di allontanamento dall’Oggetto. Le prime domande sulla morte se le pone in genere quando vede qualche animale morire, ed allora la cosa che più lo turba è la fissità del cadavere: come ci ricorda Piaget, per il bambino la vita è associata al movimento: persino un orologio è vivo, finché si muove. Se si ferma è morto.

Probabilmente la più grande impresa psichica che compie l’essere umano, sia ontogeneticamente che filogeneticamente, è il tentativo di rappresentarsi la morte, la perdita, la fine: questa elaborazione segna il passaggio dalla vita infantile, dominata esclusivamente dal principio di piacere (le uniche cose che esistono sono quelle che mi recano piacere) a quella adulta, dominata dal principio di realtà e, ahimé, dalla presenza non più diniegabile della Morte. Ipotizziamo che la stessa civiltà umana per come la conosciamo si sia formata proprio grazie ai rituali di inumazione e alle speculazioni dell’essere umano sulla fine della vita e sull’ipotesi di una continuazione dell’esistenza dopo la morte dell’involucro biologico.

Se c’è un fenomeno che può connotare il raggiungimento dello stato adulto di un essere umano questa è la comprensione che la fine esiste, ci riguarda (“avete saputo che non muoiono sempre gli stessi?” diceva Totò…) ed è ineludibile. L’accettazione dei limiti, dell’impotenza e dunque l’inizio della autentica potenza umana: dar vita ai pochi tentativi che la nascita ci ha assegnato in nuce.

La quarantena imposta dall’epidemia del coronavirus, con la necessaria abolizione del tran tran quotidiano, delle “distrazioni” della frenetica attività moderna, ci rimette nella situazione infantile e nella depressione del crepuscolo serale, dove i bambini sono alle prese con il venir meno del legame percettivo con l’oggetto e con l’emergere, con il sogno-sonno dei desideri distruttivi verso lo stesso, tenuti a bada dai meccanismi di difesa di veglia.

la morte era stata eliminata dalla vita moderna. affidata ai medici, i moderni sacerdoti dell’oltretomba: gli anziani spessissimo muoiono in Ospedale, lontano dai loro congiunti, sovente dopo il viatico inutile di un processo di rianimazione che prima dell’emergenza non si negava nemmeno agli ottantenni.

Ora la visione di centinaia di bare accumulate nelle chiese, delle colonne di camion militari incaricate dello smaltimento dei cadaveri, della scomparsa di centinaia di persone conosciute (ci sono piccoli centri che hanno perso centinaia di cittadini), ci ripropone il problema facendo saltare tutti i meccanismi di diniego e l’angoscia si ripropone.

Forse questa congiuntura servirà a ricordarci che il nostro viaggio psicobiologico, almeno per quanto sia sperimentabile, ha una fine assegnata, che la nostra storia non è eterna, che il nostro tempo è lineare e ci avvicina ad una parola poco comprensibile che si chiama Fine. L’accettazione della finitezza dell’esistenza umana implica il vero possesso degli attimi dell’esistenza.

© Quirino Zangrilli
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