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Relazione ufficiale al Convegno “ESODO: traumi e memorie”, svoltosi a Fiuggi il 4 ottobre 2002,

E’ da tempo noto che le dimensioni psicologiche dei legami che si stringono in rete possono essere di notevole densità ma sovente anche con connotazioni anomale, più o meno evidenti. Invero, qui si realizza una situazione particolare, quella di due “intimi sconosciuti”, dove il tempo di costruzione di un rapporto interpersonale viene ad essere notevolmente accelerato, forse troppo, ma anche dove si può ritenere che qui vengono consentiti margini di invenzione tali da render possibili molti affrancamenti dalle reticenze della vita quotidiana; la mediazione on-line riduce molte censure o ne modifica la perentorietà.

Né è possibile banalizzare o minimizzare il fatto che, attraverso la verità della finzione mediatica, la realtà virtuale rischia di divenire l’unica realtà reale della nostra epoca post-moderna, l’epoca dei simulacri.
Le notizie mediatiche, così sembra, non solo divengono le sole immagini comprensibili, ma vengono ad alterare prospettive di tempo e di storia, facilitando l’evasione in una realtà virtuale come modo di fare fronte a eventi stressanti o semplicemente spiacevoli.
Si può dire che il virtuale sia dentro di noi, ci coabiti, accompagnandoci nel nostro storificarci, scavando pozzi di senso nella piatta distesa dell’immediata presenza e cronaca giornaliera.
Senza chiuderci in questo cerchio di realtà immaginale, dobbiamo tuttavia riconoscere che la centralità della narrazione in psichiatria va sempre più imponendosi (cfr. Martini, 1988) con l’attuale attenzione alla dimensione ermeneutica, pur lasciando impregiudicata la validità dell’informatizzazione del linguaggio analogico.
In generale si può dire che la svolta narrativa nella letteratura medica e psicologica e in quella relativa all’esperienza della malattia ha beneficiato degli interessi più ampi dell’analisi letteraria, sia nelle scienze umane che in quelle sociali. A tal proposito rinvio all’esauriente lemma di G. Bottiroli “Letteratura e Psicoanalisi” nel V° Suppl. dell’Enciclopedia Italiana, 1992, dove si evidenzia l’attrazione del pensiero freudiano da parte del principio narrativo, almeno quanto il pensiero junghiano è attratto dal pensiero allegorico. Il suggerimento di una trama maestra dell’esistenza ci fa tornare a Freud per il fascino della sua scrittura, per il tessuto camaleontico della sua mitologia, per il suggerimento di un masterplot, di un intreccio magistrale (cfr. P. Brooks, Readings for the plot. Design and intention in narrative, Torino, Boringhieri, 1995 ; Oxford, 1984), ricco di interpolazioni e arricchimenti (cfr. Lavagetto M., Freud, la letteratura e altro. Torino, 1985).
Si sa che Ricoeur parla di tempo narrativo; forse però spetta ad Arthur Kleinmann (The Illness Narrative, New York, Basic book, 1988) il merito di avere usato la tradizione antropologica e quella clinica, mostrando “il significato che viene creato dalla malattia”, plasmato dai rapporti sociali e dai valori culturali. Si pensi all’anamnesi fornita dai familiari di un’ossessiva o dai genitori di una schizofrenica. D’altra parte è necessario assumere di volta in volta punti di vista diversi per seguire il filo degli intrecci presentati dal narratore, quando esse propone e viene riconfigurando eventi vissuti, azioni trascorse, prevaricazioni patite, atmosfere appena còlte; inoltre il progressivo svolgersi del racconto anamnestico del paziente induce alla scoperta personale di nuovi significati concernenti sia la ricostruzione della trama della malattia, sia la posizione del paziente nel contesto del discorso, per lo più familiare ma anche lavorativo o scolare. E’ forse proprio qui che, più o meno intenzionalmente, si cerca di revocare l’oblio.
E’ nostra esperienza di terapeuti (a qualunque scuola si appartenga) sentire che la trama narrativa che va dispiegandosi prenda insieme, integrandoli fra loro, eventi svariati e dispersi (Ricoeur, 1983) costruendo, a partire da ciò anche totalità significative, la morale del racconto, la fabula de te narrata. Basti qui pensare alla più comune forma di ricostruzione anamnestica, per es. al “grave” trauma emotivo iniziale, a una grave perdita personale o a un’esperienza di paura: si pensi alle “psicosi da spavento” (F. Panse, Angts und Schreck, Thieme, Stuttgart, 1952).
Non vi è dubbio che una narrazione così intensa, proprio nel senso delle biswangeriane “storie interiori di vita”, stimoli e solleciti lo psicoterapeuta ad entrare nel mondo ipotetico, possibile e probabile, del come-se, proposto o appena ventilato dal paziente, attirandolo nelle sue diverse prospettive, varianti, ricostruzioni; un’anamnesi è sempre una metafora alla quale sottostà un’autobiografia del profondo.
Nel resoconto anamnestico del paziente, nel suo svolgersi e riprendersi, lo psicopatologo deve saper cogliere le sequenze alternative della narrazione, narrazione che diviene narranza di significazioni, dove ogni trama proposta o adombrata mantiene aperture variabili, passibili di cambiamento, sia nelle albe che nei tramonti del divenire personale. Il racconto del proprio passato passa sempre per momenti di ricostruzione, non certo inventati o fantasticati, ma sempre carichi di emozione, di mnemotività (come diceva Raimiste). Si pensi ai racconti che il fanciullo fa a se stesso, dove sfaldature e linee di clivaggio possono essere pluridirezionali (cfr. D. Munari Poda ed. , Il volto dell’altro, Milano, Ed. La vita felice, 1999) – Noi siamo sempre di nuovo la storia che narriamo di noi stessi e su noi stessi; e la nostra identità si costruisce mediante la nostra narrazione o, meglio, mediante il nostro farsi narranza. La nostra identità narrativa è, insieme, accertamento di dati e racconto creativo, con una innegabile unione ermeneutica fra fiction e storia vissuta; qui, ancora, Ricoeur (Temps et récit, vol. II): l’uomo come trama di una narrazione che conduce alla scoperta della nostra identità, identità piena di senso e di decifrabilità.
Il mondo della dimensione narrativa è, come quello di ogni esperire umano, sempre un mondo temporale, anzi si potrebbe dire che l’esperienza temporale è sempre articolata in modo narrativo, sia come intreccio che come favola. Si pensi qui, anche, alla trascrizione narrativa del “racconto del sogno”, come comunicato a quel “recettore vivente” che è appunto l’analista, il quale si trova di fronte a una storia raccontata, che va a produrre nuovi significati e nuovi intrecci. E qui compare appieno, nella sua attuale fluenza di significato, il rimanere impigliati e impelagati nelle storie dei nostri pazienti o dei nostri interlocutori on-line (J. Naudin e coll., Evol. Psychiatrique 69,3,1995, pag. 575-591).
Wilhelm Schapp, rinnovando la fenomenologia e l’ermeneutica attuali alla luce della narratività, ci consente di riprendere la lezione di L. Binswanger alla luce di una teoria generale dell’esperienza in tanto che narratività. Invero, la storia interiore della vita (come la intende Binswanger) privilegia la ricerca delle connessioni di senso tra le esperienze vissute. Ecco, allora, con L. Binswanger, la necessità di pensare che il comprendere la storia di ciascuno come storia individuale non basta; questa storia del singolo va ricostruita in seno alle connessioni che ne fanno una storia comprensibile pour autrui, per l’altro-da-noi; questa è appunto la narrazione, che è una storia di decisioni, di svolte patiche e di scelte, attraverso la quale si rivela l’unità di uno stile, la dimensione irriducibile di un esser-narrante, di una narranza. Esperire queste scelte dell’altro-da-noi può rivelare intime connessioni di senso fra l’esperienza vissuta di uno psicotico e altre esperienze vissute da altri uomini (psichiatri inclusi): le connessioni di senso, sia intra- che inter-personale, come fondamento di ogni possibilità di significato.
L’aprirsi a relazioni intersoggettive che nascono e crescono on-line (anche se a volte si incontrano chat lines con inquietanti forums di discussione) ha la struttura stessa di un récit de fiction, denso e a rete. Siamo prossimi alle dimensioni vissute di ogni vicenda clinica, dove le storie degli uni sono incastrate (il plotting) nelle storie degli altri, incastrate e aggrovigliate ma aperte alle due estremità.
Come nelle chat lines, l’esperienza clinica procede a zig zag nel senso stesso di questo plotting, di questo restare impigliato in storie, empetré dans des histoires, (1992, J. Greisch), il cui orizzonte può ben essere anche quello delle comunicazioni on-line; qui, al posto del primato della percezione, subentra quello della cosa, della cosa-per (la “Wozuding” di Schnapp) che deborda ampiamente il campo dell’utensile per ritrovarsi nella storia stessa. In altri termini, ciò che caratterizza la cosa-per è il suo sorgere, emergere, pro-porsi insieme con una storia, tutt’uno con la narrazione, meglio con una narranza, ondivaga. Questa tesi fenomenologica fonda ogni narrativa: nell’uomo la storia prende il posto della percezione – e ciò si coglie allo stato nascente nella comunicazione on-line.
Importa allora – e importa radicalmente – vedere e cogliere come gli altri si impigliano nelle loro storie vicendevoli; è proprio questo che cerchiamo di comprendere allorché parliamo di far sì che, lévinasiamente, “l’autre devienne autrui”. E ogni storia ci appare aprirsi ad un orizzonte, ci si propone come connessione con altre storie, senza un inizio e una fine: e l’on-line non ha fine.
Questo nella connessione vivente mi pare essere il filo conduttore della filosofia narratologica. La storia di un uomo, la sua storia intima, può estendersi anche a dismisura verso l’ascoltante, e intrecciarvisi e impigliarvelo. Narrazione e ascolto, racconto e recezione non sono riducibili a mera trasmissione d’informazione, ma vanno a costituire parte inscindibile di connessioni viventi.
Su questa linea si può ben dire che esiste anche un auto-impigliarsi, un intrecciarsi narrante di storie in prima persona, specie in numerose storie passate, il cui intreccio sovente è a mala pena rintracciabile.
Non si tratta qui di sola introspezione; si tratta piuttosto di scoprire il nostro conficcarsi e immergersi nelle nostre storie, seguendo a tastoni queste palafitte, a volte costruendone il “mobile assetto” con l’ausilio dell’immaginario.
Nulla di meglio, qui, dell’internettizzazione delle relazioni umane, fino all’Internet Relay Chat e al MUD, ai giochi di ruolo con valore di psicodramma, ed anche a forme di relazioni intersoggettive on-line a valore psicoterapeutico: proteanismo e appartenenze multiple, come analisi del virtuale, come fuori dal “ci” dell’esserci. Problema di psicopatologia potrebbe allora divenire quello della minaccia all’unità delle varie storie: auto- ed eteronarrazioni non come mucchio di pietre o ponteggio, ma come intrico di rami germoglianti, in attesa dei propri grovigli. E dall’intrico pluridirezioni di crescita, narranze già predisposte per ulteriori tessiture, conformi ai venti che modellano la direzione di crescita, il piegarsi, il riprendersi, la resiliency.
Ecco allora, per i futuri terapeuti in internet, il racconto che trae forma, che sopravanza se stesso e pur continuamente si ripiega indietro, in una presenza di passato e di futuro, in un orizzonte itinerante della narrazione, con evadere e far fronte, come les enfants sans lien, di Cyrulnik, come i mondi sospesi di Di Petta.
A me pare che la concezione delle connessioni viventi di (Schapp) che fanno le storie interiori di vita, gli intrecci che ne formano la contestura binswangeriana, facilitino un’altra via di accesso a quello che la psicoanalisi chiama inconscio (come ben ci mostra Ravasi Bellocchio in un suo recente bel contributo): appunto l’accesso offertoci dalla dimensione narrativa in cui ogni relazione si innicchia e si invischia. Questo ci consente di comprendere come il racconto (le recit) del nostro passato sia un’anticipazione, un’intenzione di andare a cercare nella nostra memoria qualche ricordo (Paul Valéry diceva “le souvenir de l’avenir”) per comporre una narrazione: un racconto da indirizzare agli altri ma anche a noi stessi. Ciò significa che ogni racconto, come dice Cyrulnik, è una coproduzione (pag. 163).
Ecco allora il nostro co-involgimento con le storie dei nostri pazienti, un coinvolgimento non raramente profondo e denso. Lasciando da parte le implicazioni pratiche di ciò, a volte con un mirabile passaggio dall’alienità all’alterità, insisterei piuttosto sul ritorno alla fenomenologia comprensiva come pensiero delle connessioni viventi proprio secondo la concezione dell’analisi narrativa di Wilhelm Schapp. E’ in questo senso che possiamo evocare le storie del paziente mentale, storie che, sovente, sono in sé ancora piene di senso e sono anche ricollegantisi le une alle altre: dall’alcove obscure de souvenirs, di Baudelaire, a le glacier des vols qui n’ont pas fui, di St. Mallarmé, e a la recherche du temps perdu, di Proust.
Ecco allora l’importanza della comprensione ermeneutica, del recit ricoeuriano, delle connessioni viventi di Schapp.; esperire significa stabilire connessioni di intenso significato in seno a una storia intima di vita, continuare un illimitato discorso a intreccio, un agire che non può essere còlto al di fuori della narrazione. In tal senso l’analisi esistenziale (allo stesso titolo della psicoanalisi) è un’analisi narrativa. Una tale “analisi narrativa”, espressione forse criticabile linguisticamente, mantiene la sua ambiguità ove ci si chiede se essa sia (o sia anche) un metodo terapeutico; si potrebbe ben dire che la psicoterapia sia una vera e propria variante del colloquio narrativo.
L’auto-impigliarsi come sottomissione a un tema divenuto autonomo (si pensi ad uno sviluppo delirante) è un vero orizzonte di chiusura, zona perenne di penombra, sempre più fitta, incomprensibile (jaspersianamente), perché solo la comprensione, stabilendo connessioni viventi, è apertura ad altri campi, al altre storie, ad altri orizzonti. Ecco profilarsi una precisa riformulazione del compito dello psichiatra e della psicoterapeuta: col colloquio, con l’entretien, con la connessione, egli deve recuperare o instaurare un accesso ad altre storie, ad altre narrazioni, ad altre significanze, riaprendo così connessioni viventi nell’ambito di una dialogicità ritrovata, di un nuovo co-empetrement (Fédida).
L’internet narrante può facilitare in non pochi casi l’accesso ala dimensione narrativa di una storia, all’articolazione di nuove connessioni viventi nell’intimità dell’esperienza; potrebbe profilarsi una analisi strettamente narrativa, con una propria sintattica, semantica, pragmatica; il che potrebbe arricchire e intensificare quella “Social Construction of Reality” così ben evocata da Berger e Luckmann.

Da quanto sono venuto dicendo appare ben delineabile il rischio della chiusura nella realtà immaginale (una volta si parlava forse, a questo proposito, di “autismo ricco” – cfr. A. Ballerini), di attingimento a nuove forme di coesistenza (ad es. la sociabilità di Liliana Deroche-Gourcel); e qui si giustifica l’allarme della Turkle, “la strizzacervelli del cyberspazio”;; la quale ritiene (in: Life on the Screen, 1966) che il concetto di Io andrà considerato sempre meno come indicante un’istanza unitaria e sempre più come la risultante di molteplicità di frammenti e di proiezioni (il Sé proteico, di Lifton, 1993), che rispecchiano e riproducono il mondo-ambiante, l’Um-Welt; questo sé proteico, come identità multipla e decentrata o pluricentrica, non necessariamente da interpretarsi come segno di isteria o di schizofrenia.
Certamente il rischio è maggiore nelle personalità più vulnerabili e labili; è il rischio che la realtà virtuale possa condurre fuori del reale, a volte generando inquietanti sintomi di onnipotenza, con discontrollo della critica, che riverberano nella realtà giornaliera, con evidente disadattamento. Soprattutto, queste eventualità ci autorizzano a chiederci se, in un eventuale, ben delineata, psicopatologia propria del circolo Internet, sia possibile alternarsi fra un mondo concreto e uno virtuale senza rischiare drammatiche conflittualità psicopatogene. Va detto anche che la dimensione e narrativa dell’esistenza, come qui prospettata da me nei suoi aspetti più attuali e individuabili, rischia di divenire modalità di abuso o di addiction, checché ne sia , va sottolineato che sono le chat-rooms a dare più dipendenza; in vero, per molto le relazioni virtuali sono il miglior tipo di rapporto o quello più a portata di man o, dove il singolo può assumere qualsiasi identità e dimensione d’esistenza, colmando vuoti, anche consistenti, costituiti dai bisogni insoddisfatti di comunicazione interpersonale, di dialogo, di reciprocità. Si tratta di tematiche che nei prossimi anni saranno crescenti, anche dal punto di vista etico.

© Bruno Callieri

Bibliografia:

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