Sommario

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(estratto della relazione esposta dall’Autore in occasione del II Incontro Intensivo di Psicoanalisi tenuto a Fiuggi il 25 novembre 2007)

Nella frase “Il senso di colpa del successo” sembra esserci un’apparente contraddizione.
In fondo sembra non essere mai esistita, prima d’ora, una società in cui la regola sociale della presentazione non sia più “Salve sono Quirino Zangrilli, qual’è il suo nome?”, bensì “Ciao, sono Quirino: tu quanto guadagni?”.
In una società in cui le persone sono scomparse, le loro storie, i loro cammini esistenziali non considerati, dove al primo posto nelle categorie di giudizio del valore sociale si situano l’abito firmato, la marca di automobile e l’orologio indossato, dove, fin dalla più tenera età, viene inculcato il senso di competizione, sembrerebbe strano che l’affermazione sociale comporti una continua lotta con una parte di sé che percepisce il successo come una colpa.
Desidero precisare, comunque, che per successo non intendo riferirmi solo all’affermazione economica e sociale, bensì alla realizzazione dei desideri profondi.
Intendo dire che la nostra vita è una sorta di tela di Penelope, che con fatica tessiamo e che, nostro malgrado, incessantemente sfiliamo.
Il successo è un obiettivo difficile soprattutto in occidente:
Una ricerca pubblicata sul Journal of personality and social psychology da Shigeiro Oishi dell’università della Virginia, giapponese trasferitosi all’età di 23 anni negli Stati Uniti e interessato a indagare le differenze tra i due popoli, ha studiato i comportamenti di 350 studenti statunitensi, giapponesi e coreani, ed ha osservato che gli occidentali hanno avuto bisogno di due eventi positivi (un complimento o prendere un buon voto) per “digerirne” uno sgradevole. Al contrario dei loro colleghi asiatici ai quali ne bastava uno solo.
Sembra che più una persona in occidente si trovi a vivere eventi positivi – osserva Oishi – più subisca l’impatto di quelli negativi. E’ come se un viaggiatore di prima classe soffrisse un ritardo di mezz’ora del suo aereo più di uno che viaggia in classe economica“, spiega. 1
Quello che a noi interessa è che il successo sembra mettere in difficoltà le persone e che le costringa ad un continuo feedback di espiazione che in alcuni casi può arrivare fino all’autodistruzione.
La storia è piena di esempi preziosi.
Diamo un’occhiata alla seguente frase:

Ogn’uom di Ferruccio 
Ha il core e la mano; 
I bimbi d’Italia
Si chiaman Balilla; 
Il suon d’ogni squilla 
I Vespri suonò.

Qualcuno di voi avrà riconosciuto il soggetto.
Ma se noi sentissimo la sequenza musicale dell’inno nazionale italiano credo che 10 italiani su 10 lo riconoscerebbero all’istante.
Ma chi ha scritto la musica?
In fondo sfido il lettore, sempre che non sia un melomane appassionato, ad elencare gli autori dei testi de “La Tosca” di Puccini, del “Barbiere di Siviglia” di Gioacchino Rossini, della “Cavalleria rusticana” di Pietro Mascagni, del “Don Giovanni” di Amadeus Mozart e così via dicendo…
Da che mondo è mondo, è l’autore della musica che rimane nella storia…
L’autore della musica del nostro inno nazionale è Michele Novaro, che nacque il 23 ottobre 1818 a Genova, dove studiò composizione e canto. Nel 1847 è a Torino, con un contratto di secondo tenore e maestro dei cori dei Teatri Regio e Carignano. Convinto liberale, offrì alla causa dell’indipendenza il suo talento compositivo, musicando decine di canti patriottici e organizzando spettacoli per la raccolta di fondi destinati alle imprese garibaldine.
Di indole ritirata e modesta, non trasse alcun vantaggio dal suo inno più famoso, neanche dopo l’Unità. Tornato a Genova, fra il 1864 e il 1865 fondò una Scuola Corale Popolare, alla quale avrebbe dedicato tutto il suo impegno. Morì povero, il 21 ottobre 1885, e lo scorcio della sua vita fu segnato da gravissime difficoltà finanziarie e da problemi di salute. 2  Ecco la descrizione, fatta dall’Autore stesso, del momento della stesura della musica dell’Inno:
“So che piansi, che ero agitato, e non potevo star fermo. Mi posi al cembalo, coi versi di Goffredo sul leggio, e strimpellavo, assassinavo colle dita convulse quel povero strumento, sempre cogli occhi all’inno, mettendo giù frasi melodiche, l’un sull’altra, ma lungi le mille miglia dall’idea che potessero adattarsi a quelle parole. Mi alzai scontento di me; mi trattenni ancora un po’ in casa Valerio, ma sempre con quei versi davanti agli occhi della mente. Vidi che non c’era rimedio, presi congedo e corsi a casa. Là, senza neppure levarmi il cappello, mi buttai al pianoforte. Mi tornò alla memoria il motivo strimpellato in casa Valerio: lo scrissi su d’un foglio di carta, il primo che mi venne alle mani: nella mia agitazione rovesciai la lucerna sul cembalo e, per conseguenza, anche sul povero foglio; fu questo l’originale dell’inno Fratelli d’Italia.”
L’autore stesso ci dice che nell’atto stesso della creazione stava per appiccare il fuoco all’opera ed allo strumento musicale che la aveva prodotta!
Tra l’altro non può sfuggirci l’ovvia constatazione che Novaro compose la musica di getto, ma per farlo dovette star solo: affetto da coazione all’insuccesso non poteva mostrare le sue capacità anche al più piccolo gruppo di amici.
Quanti musicisti di straordinario talento passano nell’ombra la propria vita artistica per l’impossibilità di esibirsi?
E che dire dell’espiazione che alcuni scienziati hanno consumato per aver minato i riferimenti religiosi e scientifici delle loro epoche?
Basterà citare la biografia della Marchesa Gabrielle Du Chatêlet, magistralmente ricostruita da David Bodanis nell’avvincente lavoro “E=mc2. Biografia dell’equazione che ha cambiato il mondo” 2 , che qui sintetizzo e di cui raccomando caldamente la lettura.
Occupiamoci un attimo della famosa equazione di Einstein che tutti conosciamo

E= mc2

Concentriamoci sull’unico numero presente, l’elevazione a quadrato, oggi un termine scontato, ma non nella metà del 1700…
Nella sua opera di divulgazione dei lavori di Newton, Lavosier aveva sostenuto tesi consolidate: quando si analizzavano oggetti in collisione a quei tempi, l’unico fattore che si teneva in considerazione era il prodotto della loro massa per la loro velocità, ovvero la loro mv1
Se una palla di cannone da 5 Kg viaggia ad una velocità di 10 Km all’ora, essa possiede 50 unità di energia.
Ma l’amante di Voltaire, Gabrielle Émilie le Tonnelier de Breteuil, marquise du Châtelet, per nostra comodità, Mme Du Chatêlet, era a conoscenza di un’altra ipotesi, alternativa a quella di Newton, elaborata dal grande filosofo Leibniz, secondo il quale il fattore da prendere in considerazione era invece

mv2

Se una palla di cannone da 5 Kg viaggia ad una velocità di 10 Km all’ora, essa possiede 5 x 102 ovvero 500 unità di energia: una gran bella differenza, non credete?
Quale delle due tesi era corretta?
Oggi noi dovremmo essere in grado di immaginare la scienza separata dalla religione, ma nel ‘700 non era così! In verità nemmeno oggi, ma per pudore tralasciamo!
Newton credeva che verificando la validità di mv1 si sarebbe dimostrata l’esistenza di Dio!
Immaginiamo due gravi di metallo che si scontrano frontalmente. Un istante prima della collisione, nell’universo era contenuta una grande quantità di mv1: dopo l’impatto, quando ormai i due gravi si sono ridotti a un ammasso informe di metallo, le due distinte componenti della v1 sono scomparse: si sono annullate a vicenda.
Nella concezione di Newton questo significava che tutta l’energia posseduta dai gravi prima dello scontro era scomparsa, lasciando un buco da qualche parte, al di fuori del nostro universo visibile. Poiché collisioni come questa si verificano in ogni momento, se è vero che viviamo all’interno di un enorme orologio è altrettanto vero che tale meccanismo ha bisogno di essere continuamente caricato. Facendo ricorso a svariati argomenti geometrici astratti, Leibniz aveva affrontato la questione dell’esistenza dei buchi di energia nell’universo ipotizzati dalla teoria newtoniana.
Egli scrisse: «Secondo la dottrina (di Newton), Dio Onnipotente ha bisogno di ricaricare il suo orologio, di tanto in tanto, perché, altrimenti, esso smetterebbe di funzionare. A quanto sembra, Egli non sarebbe stato abbastanza previdente da imprimere al suo orologio un moto perpetuo».
Risultò che considerando l’energia pari a mv2 si riusciva ad aggirare questo problema. Immaginiamo che il valore di mv, di un grave che viaggia verso ovest sia 100 unità di energia mentre quello di un altro che procede in direzione opposta, in rotta di collisione con il primo, sia sempre 100 unità. Secondo Newton durante l’urto le due energie dovrebbero annullarsi reciprocamente, mentre secondo Leibniz dovrebbero sommarsi. Quando i due gravi si scontrano, tutta la loro energia continua a esistere ed è in grado di proiettare in aria pezzi di metallo, riscaldarlo e, di solito, provocare un boato assordante.
In questa visione di Leibniz nulla va perduto. Il mondo funziona da solo; non ci sono buchi o falle da cui l’energia può fuoriuscire accidentalmente in modo tale che solo un Dio sarebbe in grado di introdurla nuovamente. Siamo soli. Per pura ipotesi, come acutamente ricorda Bodanis possiamo aver avuto bisogno di Dio all’inizio, ma in seguito sicuramente non più.
Emile Du Chàtelet e i suoi collaboratori trovarono la prova decisiva della teoria di Leibniz negli esperimenti di Willem Jacob’s-Gravesande, un ricercatore olandese che aveva analizzato la caduta di alcuni pesi su una superficie di argilla mettendo in evidenza che la formula sembrava rappresentare, per chissà quale strana ragione, una regola fondamentale in natura.
Le pubblicazioni della nobildonna destarono grande impressione. Dopo la pubblicazione del suo lavoro, la Du Chàtelet si concesse una breve vacanza ma tornata a Cirey scrisse precipitosamente una lettera ad un’amica:

3 aprile, 1749, Castello di Cirey
Sono incinta e puoi immaginare… quanto sia preoccupata per la mia salute, e addirittura per la mia stessa vita … dovendo partorire all’età di quarant’anni.

icaroAlla sua età una donna incinta non aveva molte probabilità di sopravvivere. Il 1° settembre del 1749 scrisse al direttore della Biblioteca reale, comunicandogli che avrebbe trovato nel pacco che accompagnava la lettera le bozze di un saggio su Newton a cui stava lavorando. Tre giorni dopo iniziò il parto a cui la donna sopravvisse solo per morire una settimana più tardi, a causa di un’infezione. La Du Châtelet pagava immediatamente il proprio ardire, come Icaro nella sua sfida al Sole.

A questa vicenda possiamo agganciare associativamente anche un altro evento speculare: quello della nascita. L’abbassamento enorme della mortalità perinatale e neonatale che la moderna medicina tecnologica ha conseguito, non deve farci dimenticare che per centinaia di migliaia di anni il parto dell’essere umano è stato un vero e proprio evento chiave per la sopravvivenza della gestante o del nascituro o per entrambi.
Dalla notte dei tempi milioni di donne sono morte per il parto, e milioni di neonati non sono sopravvissuti. Il primo successo dell’essere umano è dunque la nascita ma esso si associa spesso al dolore o a volte all’invalidità ed alla morte di chi ci ha custodito e nutrito per nove mesi.
Sulle spalle degli sfortunati inconsapevoli che hanno avuto una madre morta di parto o gravemente colpita nella salute per l’evento gestazionale grava un peso che molto difficilmente può essere rimosso.

In genere si pensa che le situazioni di progresso, di avanzamento, le realizzazioni, l’espansione sociale, sentimentale ed umana, non possano costituire materia di interesse ai fini del lavoro analitico. E ci si sbaglia, perché, paradossalmente, la parte finale di ogni psicoanalisi, e l’essenza di piccole parti di lavoro richieste da analizzati che hanno da tempo ultimato (se così ci si può esprimere) la loro analisi, sono spesso motivate da un intenso senso di vuoto che il soggetto prova in concomitanza con un importante situazione di successo. Obbiettivi conseguiti, lavori faticosamente portati a compimento, apici di carriere felicemente raggiunti, coronamenti di estenuanti corteggiamenti, nascite desiderate, non importa quale situazione di piccolo o grande trionfo venga esperita, essa determina spesso un’intensa sofferenza, una sensazione di freddo e di vuoto.
In un altro lavoro, “I sette peccati capitali”, pubblicato su questa stessa rivista ho avanzato l’ipotesi che i sette peccati siano in realtà uno, il peccato fondante della civiltà umana. Il parricidio, cui fanno seguito le relative condotte di espiazione-riparazione.
Ma come reagisce Dio ai peccati del suo popolo? Suggellando un patto sacro con il popolo eletto: gli Ebrei.
E qui siamo veramente alla prova del nove!
Il Berit Milà o Brit Milà (lett. Patto del taglio), conosciuto in lingua Yiddish come Bris (dall’ebraico berit, “patto”), è una cerimonia della religione ebraica con cui si da il benvenuto ai neonati maschi nella comunità. Si tratta di una circoncisione rituale effettuata da un mohel alla presenza di familiari ed amici, al termine della quale si offre di solito un rinfresco.
La cosa particolarmente interessante è che la milà deve essere compiuta all’ottavo giorno dalla nascita durante le ore diurne: se per errore la circoncisione è stata effettuata prima dell’ottavo giorno o durante la notte, non è valida e si deve procedere a stillare una goccia di sangue a guarigione avvenuta.
A nessuno può sfuggire che l’otto è l’evento che segue il sette!
Non tutti sanno che la milà comprende anche la metzitzà, succhiamento del sangue della ferita, che ai nostri occhi appare la ripetizione rovesciata del pasto totemico: tu figlio hai ucciso il padre e te ne sei cibato, io Padre, ti uccido nella parte per il tutto e mi riprendo oralmente quello che mi è stato sottratto!
Inoltre dato che è notorio come l’eliminazione del prepuzio diminuisca notevolmente il piacere sessuale, nell’atto rituale vi è anche il tentativo di disinnescare la spinta al parricidio che, come ho esposto nel saggio “I sette peccati capitali” deriva dal desiderio ardente delle donne di famiglia!
A tale proposito va sottolineato l’enorme impatto traumatico delle operazioni di circoncisione che vengono eseguite in tenera età per patologie mediche, quali la fimosi, la parafimosi o il frenulo breve.
Nel trattamento di un caso grave affetto da una patologia border-line fu possibile ricostruire la disgregazione egoica della mente del paziente durante le notti passate in un reparto per adulti dopo un intervento di frenulectomia: dal bambino la cosa fu vissuta come una vera e propria evirazione talché, avvalendomi del mio statuto di medico, durante una seduta, fui costretto a chiedere al paziente di mostrarmi il pene, giacché lui parlava da un centinaio di ore della sua sostanziale assenza.
L’organo, ovviamente, era al suo posto: era semplicemente sparito dalla sua mente.
E qui converrà insistere ancora ed ancora sull’importanza del vissuto personale, cioè su quella che noi definiamo fantasmatica, cioè l’insieme delle fantasie, impastate con l’affetto, le emozioni, che strutturano le rappresentazioni psichiche della realtà.
Per i bambini di entrambi i sessi nel profondo del loro inconscio non esistono il maschio e la femmina: esiste un individuo dotato di fallo ed un individuo che è stato castrato.
Mentre con la visione del sesso opposto il bambino ha la prova provata che le minacce di castrazione del padre o dei sostituti sono un pericolo reale (la sorellina o la cugina era un maschio cattivo a cui hanno tolto il fallo), fatto che determina un rinforzo enorme della paura di castrazione, la bambina sente di essere un essere incompiuto, accusa la madre del suo handicap ed inizia ad invidiare e desiderare di avere un fallo.
Queste protoesperienze esistenziali stampano i cliché su cui si impernierà l’intera esistenza delle persone.
Il desiderio potentissimo per la madre nel bambino lo spinge al confronto con un essere alto 4-5 volte più di lui, dotato di un fallo immenso: queste proporzioni faranno da metro di confronto per tutta la sua vita sentimentale e sessuale.
Gli ultimi figli, specie se nati a distanza di anni da fratelli più grandi, conserveranno un vissuto di inferiorità ben difficile da ridimensionare.
Essi si trovano a contendere l’oggetto edipico a dei veri e propri ciclopi: il padre e i fratelli.
Non uso il termine a caso: il Ciclope è proprio la rappresentazione del fallo, che sta a guardia dell’antro!
E di fatto bisogna diventare un signor Nessuno per sfuggire alla loro attenzione!
La bambina conserverà nel profondo un senso di inferiorità verso il maschio ben difficile da vincere.
E’ per questa ragione che professioniste, artigiane, scienziate che nulla hanno da invidiare ai loro colleghi maschi spesso conservano una paura inspiegabile nei loro confronti ed una sopravvalutazione del maschio.
Conosco colleghe di assoluto valore professionale e scientifico che conservano un’inspiegabile, irrazionale, considerazione, per colleghi assolutamente mediocri.
Per i bambini, tormentati dall’angoscia invincibile dell’imminente castrazione, può farsi strada l’unica soluzione possibile: l’autocastrazione.
Il senso inconscio è: lo faccio da solo, così non mi uccido e mi faccio meno male.
Non mi metterò nelle sue mani.
Il risultato è quel classico comportamento autodistruttivo che nutre gran parte delle nevrosi di destino, contraddistinte da una continua condotta di rinuncia e comportamenti auto-punitivi.

Il conseguimento del successo, l’uccisione del padre, implica automaticamente la dissoluzione dell’ostacolo, del rivale, del persecutore (qualsiasi forma esso abbia in precedenza assunto). L’eliminazione dei limiti, se pur si accompagni spesso ad un confortevole senso di libertà, dilata enormemente i confini dell’essere, aumentando la percezione del vuoto universale e amplificandone l’angoscia. Se l’analizzato non riesce a metabolizzare l’impatto con l’illimitato, che implica il contemporaneo sentire della sua completa inutilità individuale, spesso mette in atto dei tentativi, retti dalla coazione a ripetere, di rieditare situazioni persecutorie di ancoraggio e vincolamento. E’ ovvio che, man mano che l’analisi procede, il gioco diviene sempre più scoperto e meno praticabile.

seconda parte

Written by: Quirino Zangrilli © Copyright

(videografica: Luca Zangrilli ©)

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Parole chiave

senso di colpa
successo
castrazione

Riassunto

L’affermazione sociale comporta una continua lotta con una parte di sé che percepisce il successo come una colpa e spinge a pericolose condotte di autocastrazione punitiva.

Note:

1 Suh, E., Diener, E., Oishi, S., & Triandis, H. C. (1998). The shifting basis of life satisfaction judgments across cultures: Emotions versus norms. Journal of Personality and Social Psychology, 74, 482-493. 
2 David Bodanis, E=mc2: A Biography of the World’s Most Famous Equation, Walker & Company, October 2005,