Sovente, durante le sedute di più ore, mi accorgo di star seguendo l’andamento delle associazioni in rapporto al loro movimento di allontanamento o avvicinamento rispetto al nucleo rimosso che tenta di emergere alla coscienza. Le associazioni sono convergenti o divergenti e a volte l’allontanamento dal nucleo rimosso o dal segreto isolato, è tale che si ha l’impressione che le connessioni tra alcune di loro vengano catturate da un altro nucleo più lontano e nascosto, che disfa il lavoro di rievocazione o semplicemente ne fa un altro che intralcia il primo. Si intuisce che nel cono d’ombra del primo nucleo ne esistono altri, nascosti,un poco quello che succede ai così detti corpi celesti dalle cui deviazioni dalle orbite osservate o calcolate si può dedurre l’esistenza di altri corpi di cui i primi subiscono l’attrazione, senza tuttavia poterli osservare direttamente.
Sembra che uno degli agenti in moto verso il completamento della rievocazione e il passaggio alla coscienza del materiale rimosso, dimenticato oppure isolato, cambi velocità ed entri nell’orbita di un’altra istanza che sta facendo il lavoro opposto, cioè invece di costruire il puzzle ne elimini delle parti e lo renda irriconoscibile.
Da un punto di vista psicoanalitico questa problematica è ben conosciuta ed appare in modo inequivocabile nel lavoro onirico. Nel sogno ad esempio un desiderio semplice come quello che può essere espresso dalla frase “Cerco una donna” viene complicato e drammatizzato in modo inverosimile. I tentativi di realizzare la messa in scena onirica che renda accettabile il sogno a volte assomiglia al lavoro di un architetto che cerchi di costruire una casa per mille padroni palesi (e altrettanti nascosti) ognuno dei quali dica la sua. Un lavoro improbo che a volte si risolve perché tutto il materiale entra nel campo di attrazione di un’impresa di costruzioni più potente e spietata che completa il tutto.
Marvin Minsky, nel suo libro ” La società della mente, Adelphi, Milano 1990″, espone concetti simili pur non usando una concettualizzazione psicoanalitica.
Gli esempi che fa sono molto interessanti. Egli immagina un bambino che con alcuni cubetti costruisca una torre. Definisce in modo antropomorfico l’agente creativo che opera in quel bambino (la funzione del costruire) Costruttore, immagina poi che a quel bambino non piaccia solo costruire ma anche distruggere, per cui vicino all’agente Costruire ve ne sarà anche un altro, il Distruggere (cioè la funzione di distruzione che opera l’azione del distruggere).
Immaginiamo che l’oggetto da distruggere non sia ancora stato costruito, l’agente Distruggere dipende da quello Costruire. La costruzione ha inizio, può succedere però che ad un certo punto la torre di cubetti da buttare giù sia abbastanza alta per Distruggere, che vuole procedere, e non per Costruire (che ci ha preso gusto). Si crea un conflitto tra Distruggere e Costruire.
Potremmo pensare “ma è Distruggere che ha chiesto l’opera di Costruire, quindi comanda”, (il primato della pulsione di morte) tuttavia se consideriamo un altro agente di apparente livello allargato, Giocare con i cubetti, è chiaro che il conflitto tra Costruire e Distruggere può intralciare la funzione Giocare con i cubetti, che a sua volta può essere inserita in una funzione più ampia, p. e. Giocare.
Questo agente Giocare può stare in mezzo ad altri due, Mangiare e Dormire. Ed ecco che il conflitto tra Costruire e Distruggere che rende antieconomico il gioco, che si è permeato di ambivalenza, può indurre il giocatore a ripiegare sull’agente Mangiare e/o su quello Dormire.
I concetti usati sono molto simili a quelli fantiani di tentativi, insiemi di tentativi ed entità; il contenitore, l’essere umano, è unico.
In conseguenza di codesta unicità, lo stesso movimento che monta il puzzle (come una costruzione fatta di cubetti o blocchetti che siano) può smontarlo quando cambi il vettore di direzione del movimento, e/o quando la velocità dei movimenti diventi incoerente con l’espletamento dei meccanismi di regolazione che controllano la funzione, ad esempio del mettere e del levare. In termini psicoanalitici, la costruzione di un insieme rappresentazionale-affettivo, diventa impossibile quando la quantità e la velocità dell’investimento dell’energia sui legami tra le singole parti dell’insieme rappresentazionale-affettivo (p.e. colpire avversario) non siano abbastanza elevate e stabili (p.e. troppo veloce).
In altre parole affinché un’azione oppure un pensiero sia iniziato e concluso (ed eventualmente distrutto) la regolazione interna che mantiene il coordinamento spazio-temporale non può oscillare oltre certe soglie vettoriali (direzione e velocità). Cioè, p.e., per ogni movimento verso una certa direzione (o scelta anche involontaria) può esistere un movimento in senso contrario ma affinché l’azione si concluda ( cioè non fallisca completamente) il movimento in senso contrario deve avere una energia di spinta inferiore all’altro movimento. Noi analisti lo verifichiamo continuamente in seduta nella dinamica dei movimenti associativi (di cui ho parlato all’inizio di queste riflessioni) e nell’organizzazione delle resistenze, in quanto forze d’inerzia della rimozione.
Un ‘Entità (Agenzia), sia essa psichica o materiale, o mentale o psicobiologica è composta di un insieme di sottoentità elementari più semplici (relativamente) che “svolgono il lavoro” separatamente ma interconnesse. Ognuna fa la sua parte, nessuna conosce l’intero piano, che è stato ordinato ad un ‘Agenzia che direttamente non lo fa perché il piano lo richiede un’altra Agenzia che a sua volta fa parte di una relativamente più grande o relativamente più piccola (in un confronto di grandezze anch’esse relative) e così via. Un ipotetico osservatore esterno che volesse studiare tutto il fenomeno, probabilmente non capirebbe niente se studiasse i singoli agenti o le Agenzie (in termini micropsicoanalitici i singoli “essais”); capirebbe di più se centrasse la sua attenzione sulle interconnessioni tra i vari agenti e le interazioni tra le varie Agenzie, che oltre un certo grado di complessità sono continuamente mutevoli, sovradeterminate. In altre parole sono interconnesse a vari livelli sulla base di piccoli dettagli comuni. In questo senso la psiche è una famiglia di funzioni interconnesse che comunicano tramite induzioni associative collegate per mezzo dell’affetto. La mente è quella parte della psiche che opera sugli aspetti cognitivi di tali funzioni. Non è strano che abbia delle difficoltà a capire se stessa, nella sua totalità. Segue il destino del cervello.
E’ un dato banale ma che vale la pena di essere meditato, il fatto che il cervello (anche tramite le sue diramazioni periferiche), per definizione l’organo di conoscenza, al punto che, non solo per i neurologi ma anche per la maggior parte degli psicologi moderni le funzioni cognitive e quelle affettive stanno al cervello come la digestione sta allo stomaco (all’apparato digerente in generale), non sia in grado di conoscere se stesso ed il proprio funzionamento se non con un faticoso e lunghissimo lavoro in cui è implicata l’intera Entità psicobiologica (o Agenzia) uomo. Quindi la funzione percettivo-sensoriale e quella cognitiva servono a studiare il funzionamento del cervello e della mente, che più o meno non sanno come funzionano perché la maggior parte delle informazioni permangono in quella zona della mente che sfugge all’attenzione vigile della mente stessa, cioè nell’inconscio.
E’ un ragionamento che sfiora il paradossale e persino il ridicolo eppure non mi sembra facilmente confutabile.
Mi sembra, quindi, che la funzione cognitiva del cervello serva a studiare il funzionamento del cervello che, in apparenza, non sa come funziona. La mente che, per i neurologi, “è ciò che fa il cervello” serve al cervello per cercare di conoscere se stesso. Tante “piccole menti parziali” con piccoli compiti che funzionano più o meno in sinergia risolvono tanti piccoli compiti che ne compongono uno relativamente più grande che è risolto, ma non si sa come. Un po’ quello che succedeva alle catene di montaggio funzionanti nell’industria in cui un singolo lavoratore faceva il proprio pezzo privo di finalità funzionali note, senza a volte sapere che fine avrebbe fatto. Il problema è: l’uomo inventa la catena di montaggio perché il suo cervello funziona in quel modo, oppure è il contrario, cioè concepisce il suo cervello come una catena di montaggio? In altri termini, noi spieghiamo il funzionamento del cervello e delle agenzie che compongono la mente come una catena di montaggio perché nella nostra produzione manifatturiera abbiamo semplificato la costruzione di oggetti complessi dividendoli in parti e riducendo i compiti complessi a compiti più elementari, assemblandoli in una serie di produzioni a catena, oppure funzioniamo così perché non possiamo funzionare in un altro modo?
Io penso che l’ipotesi più probabile sia la seconda, poiché, almeno per il modello di Fanti, le entità sono composte di tentativi elementari che a loro volta sono entità (con le loro qualità) discrete anche se appartenenti ad un tutto dinamico. Se accettassimo la prima ipotesi saremmo costretti a farne un altra, vale a dire postulare l’esistenza di un architetto universale che fa i piani: dio.
Un insieme di tentativi è tale, e si automantiene e riproduce come l’essere umano, se i meccanismi di regolazione che funzionano al suo interno sono riusciti a comporre i conflitti più importanti tra i tentativi psicobiologici elementari che formano gli insiemi e le entità ( le cellule ed i sistemi di cellule per esempio). Lo stesso discorso che vale per le cellule ed i sistemi di cellule vale anche per le altre entità psicobiologiche, i pensieri, le emozioni, i desideri, i sogni.
Io penso veramente che la Psiche ed il Cervello siano l’espressione di un fenomeno associativo, gravitazionale (almeno in senso figurato) più vasto simile a quello che obbliga le polveri cosmiche a costituirsi in insiemi e che mantiene la coesione tra le varie parti dei corpi celesti, e, quando ci siano le condizioni, lascia apparire quel fenomeno di fermentazione che noi chiamiamo vita. La Psiche e il Cervello si sono costruiti tramite il lavoro di un insieme di meccanismi di regolazione senza ragione alcuna, diciamo per caso, e continuano a lavorare nello stesso modo in cui hanno lavorato i meccanismi che li hanno messi assieme, cioè a comporre dei conflitti per mantenere un’omeostasi adatta alla sopravvivenza per il tempo sufficiente a rinnovarsi: una vita.
Gli agenti e le agenzie, continuano a lavorare (non possono fermarsi) e la vita dell’essere umano diventa sempre più lunga e i problemi sempre più complessi, i quadri di riferimento sempre più vasti e, di conseguenza, le necessità di frazionamento dei compiti sempre più pressante. A quadri più vasti corrispondono frazionamenti sempre più microscopici e lontani dalla comprensione dell’uomo comune che in confronto ai suoi prodotti (tecnici) diventa sempre più ignorante ed alienato (nel senso di alieno), estraneo ed in rottura con la realtà in cui vive, cioè psicotico. La scena che mi viene alla mente (quasi visiva) sono le vaste masse di “giovani sradicati” che girano senza apparente direzione nelle vie principali delle città specialmente al sabato pomeriggio. Una scena da realismo sovietico con toni da espressionismo tedesco, specie nei volti dei personaggi: volti intrisi di smarrimento e di paura. L’essere umano moderno è roso dalla paura; non sa perché ha paura e cerca delle cause che normalmente sono ritrovate per contiguità come nel ragionamento dello schizofrenico. Oppure, e sono certamente le persone più intelligenti, comprende che gli argomenti che gli servono per spiegare la sua paura sono pretesti, avvenimenti o fatti o fenomeni sproporzionati alla sua angoscia e va alla ricerca di cause più credibili tramite le tecniche di analisi della psiche. Oppure cerca di operare sulle cellule, cioè sul cervello, usando sostanze chimiche, più o meno naturali (il vino, le piante tranquillanti o allucinogene, etc.) o più sofisticate, le specialità farmaceutiche.
In entrambi i casi cerca di usare delle agenzie e degli agenti che rimettano ordine nelle interazioni tra i lavori presenti e passati che accadono in lui. Nel caso dell’azione verso la psiche cerca di eliminare i nodi conflittuali che esistono tra il pensiero e l’emozione, in modo che la paura appaia solo quando ha la funzione di un meccanismo di regolazione che assicura la sopravvivenza e verifica la realtà (p.e. non buttarsi da una torre alta cinquanta metri pensando di volare come gli uccelli, oppure come si può fare in sogno) e non quando non è necessaria o anzi è nociva (non poter mangiare un certo cibo anche quando sia l’unico disponibile); nel caso dell’azione sulle cellule cerca dei mediatori chimici che facciano più o meno la funzione di un capo-traffico in una stazione ferroviaria. In entrambi i casi si tratta di ripulire, e riordinare le tracce che assicurano le interconnessioni adatte perché le interazioni funzionino in accordo con il reale, cioè con il compito da svolgere che garantisce l’adattamento con il minor uso di energia possibile.
Bisogna quindi affrontare il problema della traccia che io intendo come un’impronta che una volta impressa può servire da sentiero quando il futuro agente espleta il suo lavoro. Lo fa, più o meno bene, seguendo una traccia in un labirinto di intersecanti e si trova alla fine con un risultato senza sapere bene cosa è successo e perché prova l’emozione (o sentimento) che prova. Il bello è che anche l’agenzia (entità psicobiologica, essere umano) può provare il sentimento che prova l’agente in completa dissonanza con ciò che, in una situazione simile, statisticamente si dovrebbe provare.
Per esempio Costruttore sta per mettere in moto gli agenti che costruiranno la torre di cubetti ma una paura, anzi un’angoscia indicibile, gli impedisce di girare la chiavetta della messa in moto. Il problema è che quasi sempre la machina è già partita e Costruttore (Homo faber) si trova a dover mettere in moto una moltitudine di altri agenti per gestire la paura (preferisco parlare di paura anche se non è un termine molto preciso, perché è di uso comune, molto più di ansia o angoscia).
Quando si verifica una situazione simile, con un linguaggio freudiano si parla di ritorno del rimosso sotto forma di sintomo e di conseguente inibizione totale o parziale ad eseguire il compito. Se l’azione fosse interrotta l’angoscia cesserebbe (ciò che si manifesta nella fobia) il problema è che nella maggior parte dei casi, il soggetto Costruttore ha l’intuizione dell’assurdità della risposta non adeguata allo stimolo e mette in atto delle procedure per continuare a costruire. Si crea un conflitto tra agenti, alcuni si fermano intralciando il lavoro che diventa molto più dispendioso (in termini energetici) mentre altri continuano, mentre nell’agenzia serpeggia la paura che può trasformarsi in angoscia, sino al terrore e al marasma.

psicoanalisi

Fotocomposizione di Luca Zangrilli ©

Se come Osservatore (neutro) ci chiedessimo che cosa sta succedendo, la risposta più semplice che potremmo darci sarebbe che Costruttore sta facendo un errore di interpretazione. Inserisce una variabile pericolosa in un compito in cui essa non esiste e quindi per eliminare la sua paura basterà spiegargli il fenomeno nei particolari del suo svolgimento. Ma se esso ci darà la dimostrazione di conoscere perfettamente le procedure, di essere al corrente della non pericolosità dell’operazione ma di provare lo stesso una grande paura, saremo costretti a ipotizzare almeno due possibili soluzioni. La prima è che la paura del Costruttore, provenga da uno (o più) tra i suoi agenti di cui egli non conosce l’esistenza (una delle sue microscopiche menti ha paura), l’altra è che nessun agente abbia paura ma che l’esperienza di paura esista nelle vie di interconnessione tra agenti ed interazione tra le agenzie. In altre parole che l’esperienza che ingenera il vissuto di pericolo imminente e quindi la paura, come difesa, esista come energia potenziale di un’azione non espressa in quanto pericolosa, in una delle tracce (strade) che gli agenti percorrono.
E’ il non espresso che si sta per esprimere che ingenera la paura. La metafora che penso è una strada con un bivio e una gamba alzata nel passo, che se calasse, forse, si poggerebbe su una mina antiuomo. La mina è ormai anacronistica ma la paura che serve a non abbassare la gamba è rimasta sul posto: è “verdrängen” cioè non-mossa, o come si dice impropriamente, rimossa.

© Nicola Peluffo