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(La presente relazione è stata presentata all’ XI European Congress of Psychology – Oslo 7-10 July 2009 e una sua sintesi sarà pubblicata in “Psicologi e Psicologia in Sicilia” – Notiziario dell’Ordine degli Psicologi della Regione Siciliana, Anno XII n 9 novembre 2009)

I trapianti d’organo già da alcuni decenni sono entrati nella pratica clinica relativa a gravissime patologie di parecchi organi. Essi costituiscono l’estrema speranza di salvare una vita e di riportare il malato ad una esistenza relativamente normale. I progressi della scienza e della tecnologia medica in questo campo sono stati imponenti e tuttavia permangono alcune difficoltà che limitano il numero dei trapianti eseguiti e gli esiti positivi degli interventi, peraltro già assai numerosi. Oltre alla insufficiente quantità di donazione di organi da cadavere e da vivente, una importante difficoltà è conseguenza di una gestione dell’operazione di trapianto da un punto di vista che è ancora, in alcune realtà ospedaliere, in sostanza, esclusivamente quello del medico pur essendo i sanitari del tutto consapevoli della natura fortemente unitaria del soggetto trapiantato, cioè delle strettissime interazioni tra mente e corpo. Negli ultimi anni però si è assistito ad una graduale ma sempre maggiore integrazione tra le discipline mediche e quelle psicologiche, dal momento che si parte dal presupposto fondamentale dell’unicità mente-corpo. Infatti è un dato ormai scientificamente acquisito e consolidato che il supporto psicologico al paziente in tutte le fasi del trapianto, facilitandone l’accettazione della propria condizione e consolidandone la determinazione a sostenere l’intervento, lo dispone più facilmente ad adottare quei comportamenti che agevolano gli interventi terapeutici ; che l’accettazione dell’organo possa ridurre in misura sensibile il pericolo di rigetto è ipotizzato da un numero sempre crescente di Autori.

La realtà del trapianto, così, mette in evidenza l’impossibilità di separare la psiche dal soma e quindi la necessità di guardare l’uomo nella sua totalità evitando obsoleti dualismi.
La Medicina dei Trapianti, quindi, adotta uno dei principi cardine della Psicologia della Salute: il principio olistico secondo il quale l’unità inscindibile mente-corpo determina una concezione della salute come armonia tra soma, psiche e mondo esterno. Tutto ciò porta a riconsiderare la integrazione degli interventi tra i diversi professionisti della salute quale fondamentale metodologia d’intervento prima del trapianto e soprattutto dopo di esso. L’esperienza del trapianto, perciò, così come quella della malattia, richiede dall’ambito sanitario un approccio globale alla Persona.
Il trapianto di organi è un intervento particolarissimo mediante il quale un organo compromesso nelle sue funzioni viene sostituito con un altro e tale operazione di “innesto” di una porzione di una persona in un’altra ha delle profonde ripercussioni nell’individuo che riceve l’organo, sia sul piano biologico e in particolare immunologico sia, come vedremo più approfonditamente, sul piano psicologico e più in generale sul piano relazionale.
La diversità dagli altri interventi ha profonde ripercussioni a diversi livelli. Il primo riguarda l’aspetto bio-immunologico: il problema, tutt’ora, aperto del rigetto dovuto all’incompatibilità genetica e quindi immunologica tra donatore e ricevente. Al giorno d’oggi non sono più le difficoltà anestesiologiche e chirurgiche ad ostacolare il trapianto d’organo, bensì il “rigetto acuto” (scatenamento violento del sistema immunitario subito dopo il trapianto) frenato da massicce dosi di immunosoppressori e poi il ”rigetto cronico” che invece è sempre attivo, sebbene fortemente smorzato dai farmaci immunosoppressori.
Il secondo riguarda il livello psicologico che ha effetti molteplici sia nel paziente (prima e dopo il trapianto) sia nei parenti del donatore: si tratta di resistenze psicologiche che hanno origini assai profonde. Nel caso della donazione da cadavere, l’atto medico-chirurgico viene fortemente condizionato dalla morte di un altro essere umano; mentre nel caso della donazione da vivente viene condizionato dalla immaginaria predazione compiuta nei confronti della vittima-donatore e in tutti e due i casi la presenza di un organo estraneo può suscitare profondi sensi di colpa nei confronti del donatore che spesso ostacolano l’accettazione psichica dell’organo.
In questo lavoro, che nasce sulla base di una personale esperienza, breve ma significativa, di counselling psicologico , presso il Centro Trapianti del Policlinico Universitario di Catania diretto dal prof. P. F. Veroux , focalizzerò l’attenzione in modo particolare non solo sulle ripercussioni del trapianto sul piano psicologico ma anche sulla necessità dell’ intervento dello psicologo quale figura che accompagnerà e sosterrà il soggetto in ogni momento di tutto il percorso che l’intervento comporta, dalla fase di pre-trapianto alla fase di post-trapianto e di adattamento alle nuove condizioni di vita.
In particolare l’esperienza di counselling psicologico, pre- e post-trapianto, a pazienti trapiantandi e trapiantati dimostra che l’Approccio Centrato sulla Persona in un clima comunicativo “facilitante” di comprensione empatica e di accettazione positiva incondizionata così come descritto e sperimentato da Carl Rogers ( 1951) , promuove negli stessi pazienti l’accettazione di sé stessi e dei loro “nuovi” vissuti.
Infatti nella fase del pre-trapianto, dopo che si è accertata la necessità clinica di un trapianto, si passa alla valutazione psichica del paziente; questa svolge una fondamentale funzione di valutazione dell’organizzazione psichica del paziente, la quale permette di verificare la sua capacità di tollerare a livello psicologico e affettivo un’esperienza complessa e impegnativa come il trapianto; in mancanza di interventi di valutazione, le sue condizioni psicologiche potrebbero aggravarsi al punto da richiedere la sospensione dell’inserimento nella lista di attesa. Dal momento che, in genere, le reazioni e le modalità di coping di un candidato sembrano essere già sufficientemente orientate all’intervento in modo adattivo, l’obbiettivo che assume maggior rilievo, all’interno di questa valutazione, è quello di dare sostegno psicologico ai pazienti nell’affrontare il trapianto. In questa fase, ho rilevato che si sviluppano spesso nel paziente sentimenti di sfiducia, o anche di sospetto nei confronti della medicina, accanto a sentimenti di disperazione e alla convinzione di non poter ricevere alcun aiuto. La prospettiva del trapianto viene vissuta con grande ambivalenza: se da un lato può suscitare sentimenti di speranza, dall’altro suscita sentimenti di profondo sconforto, se non di terrore, e tali momenti vengono spesso affrontati all’inizio con incredulità e con tentativi di negare la gravità della situazione. I pazienti sono angosciati soprattutto dall’idea di essere dimenticati come candidati al trapianto e ciò provoca in loro sentimenti di estrema insicurezza e paura. La precarietà e la fragilità delle condizioni cliniche impongono in questo momento al paziente e a chi gli è vicino un notevole sforzo di adattamento e minano nel primo il sentimento di integrità del proprio Sé con conseguente riduzione dell’autostima personale e dell’autonomia; il vissuto predominante è “la paura di non farcela in tempo” da cui scaturiscono ansia di separazione e paura di morire. Non raramente inoltre in questa fase compaiono i primi sentimenti di colpa nei confronti del possibile donatore, cioè la consapevolezza che il reperimento di un organo compatibile richiede la morte di un’altra persona e che quindi la possibilità di rinascita è legata alla generosità o alla morte di un altro individuo. Per fronteggiare tali sentimenti così forti, violenti e debordanti, il soggetto, secondo la teoria della personalità dell’Approccio Centrato sulla Persona, allontana dalla coscienza queste parti di esperienza che sono vissute come minacciose, perché non coerenti con l’attuale struttura del Sé ( incongruenza ) e che o non vengono simbolizzate o vengono simbolizzate in modo distorto, così che vengono esperite dal paziente, sul piano fenomenologico, con ansia, depressione e disturbi del sonno che sono tipici di questa fase pre-trapianto. Ho potuto constatare che la possibilità di instaurare un clima accogliente, facilitante e di genuino rispetto per la persona permette alla persona in attesa di trapianto di aprirsi e di “apprendere ad ascoltare se stessa”( Rogers, 2007) grazie all’atteggiamento dello psicologo ( facilitatore ) .
Così Rogers afferma: “sentire il mondo più intimo dei valori personali del cliente come se fosse il proprio, senza mai perdere la qualità del “come se”, è empatia. Sentire la sua confusione, o la sua timidezza, o la sua ira o il suo sentimento di essere trattato ingiustamente come se fossero propri, senza tuttavia che la propria insicurezza o la propria paura o il proprio sospetto si confondano con i suoi”( 1951) . Tale atteggiamento di comprensione empatica mi ha permesso, come “facilitatore” di processo , non solo di capire e percepire come la persona capisce e percepisce ma anche di dimostrare, tramite i miei sforzi di comprensione, il valore che aveva per me la persona; dall’altro il sentirsi compresi e accettati totalmente ha permesso ai soggetti di esplorare, accettare ed integrare anche quegli aspetti (sentimenti, aspettative, emozioni, percezioni) che fino a quel momento erano rimasti fuori dalla esperienza cosciente a causa della mancanza di una adeguata simbolizzazione; questi, peraltro, sarebbero potuti risultare potenzialmente patogeni per il decorso operatorio. La consapevolezza di quelle parti di sé che sino a quel momento erano rimaste fuori dalla coscienza ha consentito una maggiore integrazione del Sé e ha permesso alle persone di sentirsi meno vulnerabili e perciò più sicure e fiduciose nell’affrontare questa delicata fase che precede il trapianto. Tale fiducia ha permesso loro di migliorare le loro capacità di adattamento alle situazioni difficili e di accrescere la capacità di stabilire buone relazioni interpersonali da cui trarre sostegno emotivo.
Una prima osservazione empirica mi ha permesso di constatare che le persone che hanno avuto la possibilità di usufruire degli interventi di counselling centrato sulla persona e hanno potuto lavorare su tali aspetti della propria esperienza, hanno mostrato di avere un buon adattamento post-trapianto; la condizione di minore vulnerabilità e maggiore sicurezza ha consentito sia di rafforzare la motivazione a sostenere l’intervento e a sottoporsi ai controlli periodici richiesti, sia di accrescere la determinazione a collaborare con l’èquipe medica.
Da questa esperienza si può affermare che l’intervento centrato sulla persona si è rivelato inoltre di particolare efficacia nel permettere al trapiantato di affrontare tutte le difficoltà legate alle problematiche psicologiche, sociali e mediche conseguenti al trapianto.
Dopo il trapianto, infatti è necessario un processo di adattamento alla nuova condizione, che è un fatto dinamico, correlato a variabili non solo organiche, ma anche, se non prevalentemente, di tipo psico-sociale. Proprio per la complessità degli avvenimenti caratterizzanti il periodo post-operatorio possiamo suddividere quest’ultimo in una fase precoce ed una tardiva, cioè dopo che il trapiantato è stato dimesso dall’Ospedale.
Queste fasi sono caratterizzate da vissuti molto diversi, i quali richiedono che l’intervento psicologico miri ad obiettivi diversi a seconda delle problematiche che si presentano nelle due fasi del post trapianto.
Durante la fase precoce, che corrisponde alla permanenza del paziente nel reparto di terapia intensiva prima, e nella sala di degenza ospedaliera dopo, possono comparire serii disturbi psichici, spesso correlati alle procedure chirurgiche, al trattamento medico ed alle complicanze che possono insorgere. Già in questa prima fase sono presenti elementi più squisitamente reattivi sul versante psicologico. Così la fase di permanenza in U.T.I. ( Unità di Terapia Intensiva) viene vissuta come molto minacciosa sia a causa della angoscia di morte sia perché, malgrado le informazioni ricevute nella fase che precede il trapianto, il paziente si trova in una condizione sconosciuta di impotenza, in una situazione di completa regressione sul piano della gestione del proprio corpo. Proprio in questa condizione di particolare fragilità psicofisica, quando l’assistenza psicologica viene necessariamente interrotta, si rivela di particolare importanza per il paziente il poter attingere a proprie risorse interiori che precedentemente siano state scoperte, valorizzate e potenziate dall’intervento psicologico.
Successivamente, il paziente, trasferito in una normale sala di degenza, si trova in una situazione psicologica caratterizzata da un vissuto di euforia per la salute riacquistata, la cosiddetta condizione di “Lazzaro resuscitato”; ma i momenti potenzialmente più pericolosi e angoscianti dal punto di vista psicologico sono quelli in cui insorgono i primi sintomi di rigetto o le prime complicazioni cliniche. In questi momenti sono di rilevante importanza i vissuti del paziente riguardanti il nuovo organo e il conseguente processo di ricomposizione dell’immagine corporea. La perdita di interezza della propria immagine corporea, infatti, è uno dei principali effetti psicologici del trapianto: essa è stata infranta ed il percorso per ricostituire la propria identità, attraverso il recupero dell’unitarietà della propria immagine corporea, sarà lungo e difficile. Affinché tale scopo possa essere raggiunto, egli dovrà mettere in atto un complesso lavoro di integrazione psichica, che consiste sostanzialmente nella “accorporazione”, dal momento che vengono interessati sia il livello somatico che mentale, dell’organo trapiantato. In alcuni casi, però, accade che l’integrazione psichica per vari motivi non avvenga e i soggetti continuino a sentire l’organo come estraneo, fino ad arrivare a sentirlo come persecutore, e ciò genera confusione nella body-image ( P. Schilder, 2002 ) e porta i soggetti a gravi scompensi psichici che richiedono un trattamento psicologico intensivo integrato. Da ciò si può dedurre che l’organo trapiantato non sia inerte non solo a livello biologico ma neanche a livello psicologico; sorge sempre infatti tra il paziente e l’organo (e attraverso esso il donatore) un problema di rapporto psichico la cui mancata risoluzione ha permesso di ipotizzarla come concausa del rigetto biologico dell’organo. In tal caso i fattori psicologici sarebbero responsabili della intensificazione, o addirittura dell’insorgenza, dei processi biologici che causano le reazioni di rigetto. Attraverso queste il paziente manifesterebbe la difficoltà ad integrare psicologicamente l’organo trapiantato.
Nell’atmosfera di sicurezza, protezione e accettazione peculiari dell’Approccio Centrato sulla Persona, i pazienti che hanno già subito un trapianto hanno avuto la possibilità di esprimere ed accettare tutti i loro vissuti “negativi” legati alla condizione di trapiantato: rabbia, delusione, invidia nei confronti delle altre persone che stanno bene, preoccupazioni per la propria salute, per il proprio corpo, sensi di colpa nei confronti del donatore, angosce legate al fantasma del rigetto, ansie legate alle relazioni interpersonali, aspettative sulla qualità della vita in futuro, etc…, vissuti “nuovi” e per ciò stesso non coerenti e non compatibili con la struttura del Sé preesistente al trapianto, divenuta ora irrealistica; in questo caso, proprio a causa di questa discrepanza, manca alla persona una immagine reale del proprio Sé.
L’atteggiamento di comprensione empatica permette al care-giver di essere per il paziente “un compagno di viaggio” nella scoperta del proprio Sé e perciò empaticamente di entrare nel suo campo esperienziale e far sentire la propria presenza ( “ lui mi comprende ”) .
L’atteggiamento di accettazione positiva incondizionata permette altresì al paziente di accettare “i nuovi vissuti” che aveva precedentemente esplorato , inizialmente esperiti come minacciosi, “cattivi”, impossibili da accettare ; il paziente introietta, in qualche modo, tale atteggiamento e vede le proprie esperienze come qualcosa che può possedere, simbolizzare e accettare come parti del Sé .
Tale esperienza correttiva ( F. Alexander, 1968) permette quindi alla persona di conoscere e accettare in modo più completo se stessa. Grazie all’instaurarsi di un clima comunicativo “facilitante”, l’antica struttura del Sé del soggetto si modifica, tramite l’integrazione dei nuovi vissuti, che interessano anche e soprattutto la ricomposizione di una nuova immagine corporea in direzione di una ristrutturazione di un nuovo Sé più flessibile e realistico, perché non fondato su esperienze percepite in modo distorto. Durante il processo della Terapia Centrata sul Cliente il comportamento della persona trapiantata ha subito dei cambiamenti estremamente importanti per il buon esito del trapianto: ha acquisito un comportamento più maturo e meno difensivo poiché più saldamente fondato su una visione di sé e della realtà più vicina al proprio Sé ; tale comportamento si è concretizzato in un miglior “prendersi cura di se stesso”, nell’assumere comportamenti e atteggiamenti finalizzati ad una migliore compliance ai trattamenti medici e farmacologici necessari oltre che ad una maggiore collaborazione con l’èquipe medica. Inoltre, grazie all’acquisizione di un Sé più flessibile, si è avuta una riduzione della tensione psicologica: la maggiore serenità interiore ha avuto come conseguenza non solo una diminuzione delle alterazioni fisiologiche che possono determinare il rigetto dell’organo, ma anche una ripresa psicofisica postoperatoria più veloce e decisa. Tale sicurezza interiore ha permesso a molte persone trapiantate di affrontare con maggiore serenità anche il periodo successivo alle dimissioni dall’ospedale, periodo segnato da un complesso e difficile processo di adattamento alla nuova condizione di trapiantato, condizione caratterizzata non solo da un cambiamento significativo della percezione di sé e da una diversa capacità di proiettarsi nel futuro, ma anche e soprattutto dalla dipendenza costante dalle cure ospedaliere le quali non si risolvono mai del tutto.
E’ evidente, da quanto detto sopra che l’Approccio Centrato sulla Persona non è solo un modello di counselling psicologico ma è anche la visione di base ( “un modo di essere”) più che una tecnica che dovrebbe essere assunta da parte degli operatori della salute ed in particolare della medicina dei trapianti d’organo, dal momento che il trapianto è un evento che coinvolge l’individuo nella sua totalità ed interezza. La poliedrica problematica dei trapianti d’organo, infatti, oltre a presupporre una integrazione degli interventi da parte delle figure sanitarie, richiede una diversa capacità di ascolto anche da parte dei medici che sono in costante contatto con le persone trapiantate, cioè una capacità di ascolto che nasca da una diversa consapevolezza nei confronti delle problematiche delle persone trapiantate e dei loro parenti. Risulta perciò essere indispensabile il passaggio da un colloquio centrato sulla malattia ad un colloquio che invece sia centrato sul paziente, in cui la comunicazione non sia limitata ai sintomi presenti e alle patologie passate, ma sia centrata sulla vita del paziente; un clima comunicativo, insomma, “facilitante” di comprensione empatica e di accettazione incondizionata. Tali atteggiamenti, non limitati solamente agli interventi di counselling, permetterebbero al medico di comprendere più efficacemente il paziente ed a quest’ultimo di sentirsi compreso e accettato; infatti la soddisfazione dei bisogni emotivi della persona trapiantata e l’attenzione alle sue modalità comunicative e relazionali genererebbero comportamenti di coping più funzionali alla ripresa di una vita “normale”, i quali incidono in maniera significativa e scientificamente dimostrata sulla compliance terapeutica.
In conclusione, l’Approccio Centrato sulla Persona nella medicina dei trapianti d’organo, ha come obiettivo principale di creare quelle condizioni nelle quali le persone, vincendo la condizione di regressione e dipendenza a cui la malattia prima e il trapianto dopo li costringono, possono evolversi ed essere loro stessi promotori del proprio empowerment , al fine dell’acquisizione di un maggiore benessere e di una migliore qualità della vita.

© Elena Consoli

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