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Come fa un feto a sopravvivere nel grembo materno senza essere attaccato e rigettato dal sistema immunitario della madre? In fondo, per il sistema immunitario materno, il feto non è diverso da un innesto di pelle oppure da un trapianto d’organo. Già nel 1953 Medawar mise in evidenza che nei mammiferi la sopravvivenza del feto allogenico 1 era in contraddizione con le leggi dei tessuti trapiantati. Circa quattro anni fa, l’oncologo David Munn scoprì che i macrofagi paralizzano i linfociti T killer responsabili degli attacchi contro tessuti estranei. I macrofagi producono un enzima chiamato indoleamina 2,3-deossigenasi (IDO), che distrugge un amminoacido, il triptofano, mattone fondamentale nella costruzione delle proteine. Senza il triptofano, le cellule T non possono dividersi e riprodursi, e la risposta immunitaria viene così bloccata.
Successivamente, altri ricercatori scoprono la presenza di IDO nella placenta portando Munn a chiedersi se il feto possa usare l’IDO per neutralizzare i linfociti T materni privandoli del triptofano. L’arresto della produzione di IDO nella placenta dovrebbe causare il rigetto del feto da parte della madre. Munn, con gli immunologi Andrew Mellor e Simon Conway del Medical College of Georgia (MCG), decidono di verificare la nuova teoria sul topo. Nel 1998, i risultati vengono pubblicati dalla rivista “Science”. Quando un topo femmina ed il suo feto sono geneticamente differenti, come accade in ogni normale gravidanza a causa dei contributi genetici provenienti dello sperma paterno, una sostanza chimica che neutralizza l’IDO (l-metil-triptofano) provoca nella madre l’aborto dei suoi embrioni. Tuttavia, nei ceppi di topi endogamici geneticamente identici – discendenti da generazioni di genitori di gemelli omozigoti – e nei topi gravidi con il sistema immunitario inattivo, l’antagonista dell’IDO non mostra effetti. La ricerca prosegue, e nel numero di Gennaio 2001 di “Nature Immunology”, gli autori ci mostrano che il rischio di rigetto negli alloinnesti fetali è correlato con il grado di incompatibilità tra i tessuti provenienti dal ceppo materno e quello paterno. Inoltre viene identificata un’infiammazione di tipo particolare che comprende l’attivazione del complemento 2 ed indipendente dagli anticorpi.
Il feto dei mammiferi, dopo la fase di impianto della blastocisti, si trova in intima connessione con i tessuti uterini ed il sistema sanguigno materno. Dal punto di vista immunologico si tratta di un vero e proprio paradosso: i tessuti fetali che esprimono antigeni di eredità paterna provocano le risposte delle difese immunitarie materne. Una gravidanza condotta a termine, dipende dunque dai processi che sopprimono l’immunità materna diretta contro gli alloantigeni fetali. Una stima assicura che fino al 50% delle gravidanze umane fallisce a causa di complicazioni. Alcuni fallimenti si possono spiegare con anomalie genetiche o dello sviluppo, altri invece sono dovuti ai processi immunologici di rigetto degli antigeni riconosciuti come estranei.
Oggi gli autori ci propongono tre diverse spiegazioni per la sopravvivenza del feto a dispetto dell’immunità materna diretta contro gli alloantigeni fetali: segregazione fisica delle cellule materne e fetali; immunità antigenica del feto; oppure inerzia (tolleranza o soppressione) del sistema immunitario materno.
Gli esperimenti nei topi dimostrano che il repertorio dei linfociti T materni è solo parzialmente e transitoriamente tollerante agli antigeni dell’istocompatibilità fetale. Inoltre, fin dall’inizio della gestazione umana, si verificano, molto frequentemente, microprocessi di attecchimento e convivenza (chimerismo), tali da suggerire che la placenta non costituisca una barriera fisica impenetrabile al traffico molecolare o cellulare. I ricercatori effettuano combinazioni di accoppiamenti tra differenti ceppi di donatori maschi con femmine trattate con IDO-inibitore. Vengono anche effettuati trapianti di pelle provenienti dagli stessi ceppi dei donatori. I risultati mostrano che alcuni trapianti subiscono il rigetto più velocemente di altri, sempre in condizioni di inibizione dell’IDO materno. La velocità di rigetto dimostra l’esistenza di una correlazione tra il grado di incompatibilità tissutale materno-fetale e l’aumentato rischio di gravidanze fallimentari.
I feti ottenuti dall’accoppiamento tra femmine trattate con IDO-inibitore e maschi i cui tessuti sono rigettati più lentamente, hanno un set di alloantigeni che non fornisce sufficienti stimoli per provocare la risposta dei linfociti T materni. In altre parole i tessuti fetali sono meno immunogenici dei tessuti della pelle. Alcuni esperimenti con femmine di topi transgenici che non hanno cellule T o B, dimostrano che le cellule B non sono richieste per l’attivazione del complemento o per il rigetto fetale.
I ricercatori sono giunti pertanto all’individuazione di tre percorsi che possono portare all’attivazione del complemento: la via classica, che richiede anticorpi; la via alternativa, anticorpo-indipendente; ed una via che richiede la presenza di cellule T. Il modello suggerito attribuisce un ruolo alle cellule che esprimono l’IDO: sopprimere l’immunità delle cellule T materne, per evitare che vengano innescati processi infiammatori come l’attivazione e la deposizione del complemento, dannoso per il feto in sviluppo.

© Alessandro Mura

NOTE:

1 Allogenico: che appartiene ad un gruppo genetico diverso. (contr.: Singenico: appartenente allo stesso gruppo genetico).  torna su!
2 Complemento: insieme di proteine sieriche che interagiscono sulle cellule attaccate da anticorpi per provocarne la lisi. Quando il complesso antigene-anticorpo segnala che l’invasore deve essere distrutto, parte l’attivazione sequenziale di una dozzina di proteine sanguigne le quali producono danni irreparabili alla membrana della cellula estranea. La distruzione è poi completata dai macrofagi e dalle altre cellule-spazzino.  torna su!