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Traumi intrauterini ed alcolomania

da | Apr 20, 1987 | Articoli pregressi

Il presente lavoro è comparso sul n° 4 del Bollettino dell’Istituto Italiano di Micropsicoanalisi
Primo semestre 1987.

L’assunzione cosciente di qualsiasi sostanza capace di promuovere una modificazione dell’equilibrio psichico e/o somatico dell’organismo (farmaco) corrisponde sempre ad una situazione profonda che va ben al di là di uno stato sintomatico o doloroso.
Nel lavoro “Il caso di Sara” ho cercato di mostrare come l’assunzione di oppiacei corrisponda alla necessità di neutralizzare angosce legate a precoci vissuti traumatici di rigetto di origine intrauterina.
Cercherò ora di analizzare la natura del nucleo traumatico che nutre l’appetenza per l’alcool. E’ interessante innanzitutto ricordare alcuni effetti farmacologici .
Esso fornisce 7 calorie per grammo, in confronto alle 9 dei grassi e alle 4 delle proteine e dei carboidrati: “Gli alcolisti prendono probabilmente sotto forma di alcool tutte le calorie di cui hanno bisogno” (D.R. Laurence, Farmacologia clinica, 1968). Provoca inoltre vasodilatazione periferica deprimendo il centro vasomotore e questo spiega la sensazione di calore che si avverte dopo l’assunzione. D’altra parte la stessa vasodilatazione periferica comporta un aumento della dispersione di calore attraverso la superficie corporea, con conseguente diminuzione della temperatura corporea: quindi alla transitoria sensazione di calore fa seguito una sensazione finale di freddo. Nello stato asmatico l’alcool viene raccomandato come sedativo in quanto non deprime la respirazione a dosi terapeutiche e può avere un certo effetto broncodilatatore. In una prima assunzione, in sintesi, una dose di alcool determina una sensazione di calore interno, una iniziale sedazione, un lieve miglioramento della funzione respiratoria: è questa sensazione di “calda tranquillità” che l’alcolista ricerca.
Nel corso di qualsiasi colloquio con alcolisti compaiono sistematicamente espressioni quali “sensazione insopportabile di freddo interno”, “gelo invincibile”, “ghiaccio nel cuore”, che, a mio parere, non sono solo usate per descrivere un vissuto psicologico, ma costituiscono anche il ricorso coatto o, per meglio dire, l’immagine di una situazione reale psicosomatica. Voglio effettivamente sostenere che una situazione reale di brusca variazione della temperatura corporea, difficoltà respiratorie e deprivazione energetica, deve essersi effettivamente prodotta nella vita di queste persone.
In un interessante saggio del 1929 Ferenczi prende in considerazione tre casi clinici, due di asma bronchiale ed uno di alcolismo in una giovane donna, e ne fa risalire l’eziopatogenesi al fatto che fossero degli “ospiti indesiderati della famiglia”. “tutto faceva pensare che questi bambini avessero recepito i segni, consapevoli o inconsapevoli, con cui la madre manifestava il suo rifiuto o la sua impazienza nei loro confronti e che per questo motivo si fosse prodotta una frattura nella loro volontà di vivere”. Ernest Jones nel saggio “Freddo, malattia e nascita” è ancora più esplicito: “Dopo il dolore della nascita, la sensazione di aria fredda che prova l’infante è certamente la dimostrazione più saliente della “castrazione” che ha subito (essendo stato privato del nido che egli considerava precedentemente come facente parte della totalità di sé). La stimolazione spiacevole che produce questo cambiamento di temperatura sconvolge tutto il suo modo di essere ed è da questa sua reazione (involontaria) che dipende tutta la sua vita”.
Ora è evidente che l’accento che Ferenczi e soprattutto Jones mettono sul lato somatico della vicenda ha un parallelo aspetto psichico; formulo cioè l’ipotesi che questi figli indesiderati, mantenuti in vita durante la gravidanza in ragione di un investimento narcisistico se pur conflittuale della madre, dopo la nascita vengano deprivati di quella corrente energetica vitale che è la libido. Inoltre è parte del senso comune che ogni essere umano che viene al mondo passi da un ambiente in cui la temperatura è mantenuta costante, l’utero, ad uno in cui ciò non è possibile. Eppure non tutti presentano le stigmate che Jones ricordava. E’ mia opinione pertanto che il trauma determinato dalla brusca variazione della temperatura deve essersi consumato durante la gestazione e che l’ulteriore inevitabile variazione di temperatura dei primi momenti di vita post-natale offrirebbe la possibilità di vincolare su una situazione esterna il quantum di eccitazione incontrollabile determinato da questi traumatismi intrauterini.
Nel feto i centri ipotalamici termoregolatori sono ancora immaturi ed esso si comporta del tutto e per tutto come un animale eterotermo: cioè le sue capacità di adattarsi a variazioni della temperatura ambientale dipendono in toto dalle risposte materne. Ancora alla nascita i meccanismi termoregolatori non funzionano e nel bambino manca il fenomeno del brivido. Per questa ragione e per l’alto rapporto intercorrente tra superficie e massa corporea il neonato è particolarmente esposto al raffreddamento del corpo. E’ molto probabile che questi bambini non solo siano stati abbandonati per un lasso di tempo considerevole dopo la nascita, ma abbiano subito, a più riprese, dei tentativi non riusciti di rigetto che in ultima analisi si siano risolti nella sequenza: contrazioni uterine – ipossia placentare – ipotermia del feto.
L’appetenza per l’alcool è favorita proprio per le sue azioni farmacologiche transitorie: sensazione di calore e miglioramento della funzione respiratoria, è, cioè, un tentativo fallito di riparare i due aspetti del trauma intrauterino: ipotermia ed ipossia.
Per meglio illustrare le mie riflessioni mi servirò del materiale tratto dalla micropsicoanalisi di una giovane signora giunta alla mia osservazione per una sindrome grave a sfondo paranoide ma che rivelò ben presto anche una tenace condotta alcolomaniaca. E’ importante precisare che la signora era una figlia adottiva, presa in adozione all’età di circa un anno, che ignorava l’identità dei suoi genitori biologici e che aveva avuto il destino di molti di questi bambini adottati: l’impossibilità di armonizzare il suo terreno psichico costituito dalle immagini filogenetiche con quello dei genitori adottivi, con lo strutturarsi di un conseguente e permanente vissuto di rifiuto. La fase iniziale del lavoro micropsicoanalitico fu tutta incentrata sul rafforzamento dei meccanismi di difesa primari. Potremmo dire che nel processo di costruzione dell’Io che si compie primariamente per proiezione degli oggetti interni filogenetici, questi non avevano potuto trovare asilo nell’ambiente familiare adottivo . La paziente aveva dunque fatto un ricorso massiccio all’identificazione-proiezione, ma intereagendo con un ambiente assente o falsamente presente, aveva riempito il suo Io di oggetti persecutori rassegnandosi a vivere in una dimensione di limbo vuoto senza avere la possibilità di elaborare il distacco dalla madre, né tanto meno quella di un ripristino fantasmatico del narcisismo primario. Per tutta la prima parte del lavoro mi ero dunque guardato bene dal toccare quella condotta sintomatica che era, paradossalmente, l’unica reazione che le consentiva un precario equilibrio: l’alcolomania. Solo quando il suo io fu sufficientemente rafforzato lasciai che si dedicasse all’analisi della sua appetenza per l’alcool. La paziente cominciò sistematicamente ad aggredire il nucleo traumatico dopo una seduta in cui, superando le sue resistenze, iniziò quel lavoro di presa di contatto con il vuoto costitutivo che è il caposaldo di ogni micropsicoanalisi: “Ho un freddo, un freddo totale, assoluto; ma quando tocco questo freddo sento di nuovo in me la scintilla di vivere…però c’è una parte di me che non vuole smettere di bere. Se avessi almeno qualcuno che mi tenesse stretta, mi scaldasse…ogni volta che mi giravo a guardare mia madre (adottiva,n.d.r.) trovavo il suo sguardo di ghiaccio: ho l’impressione di aver camminato sempre sola, sola nell’universo…basterà che io mi abitui a questo vuoto, che mi renda conto che nel vuoto non si può cadere. In questo momento sento uno strano calore che mi viene su dal mio stomaco, un calore che mi riempie, lo stesso calore che ricerco bevendo, ma questa volta è un calore naturale!”. Nelle sedute successive cominciò, per la prima volta nella sua vita a prendere in considerazione l’idea di rintracciare i suoi genitori biologici e dopo poco iniziò fattivamente le ricerche riuscendo a contattare la madre e a riconoscerla. Questo evento le consentì di confrontarsi-impregnarsi con le immagini filogenetiche del ramo materno che in precedenza le apparivano estranee e persecutorie. Ecco del materiale prodotto successivamente all’incontro con la madre: “Ieri ho avuto veramente l’impressione che mi stavo svezzando dall’alcool: finalmente mi sono sentita libera dal bisogno di bere, sono felice di averla ritrovata, felice che mi abbia accettato, felice di aver scoperto che nel suo portafoglio ha conservato la mia fotografia…stavo per dire una cosa assurda: sono felice di avere anch’io una mamma. Ora mi sento calda e felice”. Effettivamente questo incontro segnò un passo decisivo (e voglio precisare che l’incontro fondamentale è sempre quello inconscio, a livello di immagini) nel lavoro micropsicoanalitico della signora che in seguito riprese più volte in esame il nucleo traumatico: “Più mi avvicino alla libertà e più tremo come un cucciolo nella culla, solo, ancora bagnato, in attesa di essere asciugato e scaldato (questo materiale fa pensare che il trauma primario si sia successivamente ripetuto nel corso della prima infanzia tutte le volte che il neonato aspettava, bagnato, di essere cambiato)…in presenza di un cucciolo faccio sempre un gioco strano: mi concentro nel trasmettergli l’amore, il calore, affinché non tremi più (questo è l’investimento libidico: una trasmissione energetica da un sistema ad un altro). Se sto fuori è come se mi mancasse la pelle, la protezione, se rimango dentro mi sento soffocare ed allora rimango ferma, ferma. Mi sento sempre come se qualcuno volesse disfarsi di me prima del dovuto…una morsa fredda che mi stringe e mi manda via; vorrei aggrapparmi a qualcosa ma quel corpo mi manda via ed io mi sento fredda e spellata. La rabbia che ci portiamo dentro è quella di essere nati contro la nostra volontà ed è per lenire questa rabbia che si fuma, si beve, ci si droga”. Per concludere mi sembra di poter affermare che l’alcolomania trovi un più fertile terreno di sviluppo in soggetti che abbiano esperito dei vissuti traumatici di rigetto intrauterini , in cui, però, il disagio psicosomatico del feto si sia espresso soprattutto nel binomio ipossia – ipotermia.
Nel caso in esame la stessa madre biologica confermò il vissuto della paziente ammettendo di essersi sottoposta, senza successo, a pratiche abortive. Il tentativo coatto di riparare il narcisismo primario viene rafforzato dall’azione farmacologica dell’alcool, in questa sua capacità transitoria ed illusoria di fornire una “seconda pelle” tramite la vasodilatazione periferica e l’iniziale sedazione. La dispersione di calore che ne consegue, però, determina ancora una volta una sensazione di freddo, ripristinando il vissuto traumatico primario: un bell’esempio della potenza della coazione a ripetere..